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L’AMARCORD DI D’ALEMA: SI DICE ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO COMUNISTA. E NON SI VERGOGNA…

Pubblicato il 26 marzo, 2011 in Costume | No Comments »

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L’amarcord è uno dei piatti forti della sinistra. Comunisti da giovani e radical chic quando sulla testa spuntano i capelli bianchi. Quanto si piacciono… Da Botteghe oscure a Sankt Moritz passando per Mosca, il vessillo con la falce e il martello rimane piegato nel cassetto tra un maglioncino di cashmere e una polo da velista e nel frattempo si pontifica. Massimo D’Alema guarda nello specchietto retrovisore e si compiace, quanto si compiace. E lo fa giocando in casa, teneramente vezzeggiato dalle colonne del giornale di Concita De Gregorio. “Non mi sono mai pentito di essere stato un militante e un dirigente del Pci”. Contento lui… L’autocritica non è il piatto forte della sinistra, il partito comunista più potente dell’Europa occidentale, quello che teneva un piede a Roma e l’altro in Russia, per lui “tra luci e ombre è stata una grandissima esperienza umana e politica”. Alla faccia del tanto sbandierato riformismo, una vernice sempre buona per dare un’imbiancata alle cariatidi leniniste. Questa volta Massimo D’Alema parla fuori dai denti. Sono le parole dell’ex premier Massimo D’Alema, in un’intervista all’Unità, nella quale ripercorre le tappe della sua formazione politica a partire dall’iscrizione al partito ai tempi del liceo, passando per il matrimonio quasi imposto dal Pci perchè era diventato “un personaggio pubblico”, all’incarico di segretario della Fgci. Non c’è che dire, una grande scuola di libertà.

“Me lo chiese Berlinguer – afferma D’Alema – e il partito decise di puntare su un esponente della generazione del ’68. Mi disse: abbiamo deciso che sarai il segretario della Fgci”. D’Alema confessa che scelse di farsi accettare “più sul piano politico” dal gruppo dove c’era Veltroni, Errani, Turco, “perchè credo che a molti stavo antipatico”. Un attimo di lucidità e a D’Alema sorge un dubbio legittimo.

Poi ricominciano i violini e D’Alema languido torna sulla vie en rouge:
“Quello era un partito nel quale i giovani avevano uno spazio – prosegue -, ma certo ci furono anche scontri durissimi”. Berlinguer, nel ricordo di D’Alema, “aveva una vera passione per le questioni internazionali” e aggiunge “era un uomo riservato, non amava esibirsi”.

Poi, ricordando una vacanza bohemien nella Cecoslovacchia invasa (sic), un dubbio sgonfia leggermente la vela memorialistica dello skipper di Capalbio: “Certo che ci furono ritardi nel prendere le distanze dal socialismo reale. Ma, per la mia generazione, fu la Cecoslovacchia, nel ‘68 il punto di rottura. Nei giorni dell’invasione ero a Praga, all’alba del 18 agosto mi affacciai dal mio alberghetto e vidi i carri armati sovietici. Scesi in piazza con i ragazzi cecoslovacchi, si disegnavano le svastiche sui tank. Quando arrivò la notizia che il Pci aveva disapprovato quell’invasione fu motivo di grande orgoglio. Però, da allora fino all’82, quando Berlinguer parlò dell’esaurimento della spinta propulsiva, sono troppi anni rispetto alla consapevolezza che quello era un mondo che non aveva nulla a che fare con noi”. Essì, un po’ troppi. Ventiquattro lunghissimi anni, fino alla morte di Breznev, in cui l’Unione Sovietica stagnava nel comunismo e D’Alema scalava le vette del Pci. Troppi ma non abbastanza, quarantatre anni dopo l’invasione della Cecoslovacchia D’Alema è ancora fiero del suo passato comunista…

150 ANNI: ECCO LA CASTA DEGLI IGNORANTI CHE GOVERNANO L’ITALIA

Pubblicato il 19 marzo, 2011 in Costume, Cronaca | No Comments »

Nichi Vendola ha votato per riaprire le vecchie scassate e insicure centrali nucleari di Trino Vercellese e Corso, ma l’ha fatto a sua insaputa. Lui, come decine di altri deputati di sinistra e di destra, non aveva nemmeno letto l’ordine del giorno sul nucleare che il 30 luglio 2004 fu votato alla Camera. Siccome il governo aveva detto di no, e il governo era guidato da Silvio Berlusconi, l’opposizione ha detto sì. Ed è diventata nuclearista a sua insaputa.

Accade spesso, ormai. Grazie al formidabile servizio de Le Iene abbiamo assistito a un altro evento unico e clamoroso. Da mesi le sorti dell’esecutivo e della legislatura erano appese alla necessità di avere comunque un governo in carica il 17 marzo 2011, perché Giorgio Napolitano così pretendeva per dare il via alle celebrazioni del 150° anno dell’unità di Italia. Per settimane maggioranza, opposizione e perfino forze sociali si sono accapigliate sulla introduzione della festività infrasettimanale, che naturalmente qualche problema ha causato alle imprese proprio in un anno in cui si sventolava la bandiera della produttività. Da giorni gran parte del parlamento, e quasi tutta la stampa, si è dedicata a linciare i distinguo leghisti, scandalizzandosi per chi il 17 marzo non desiderava festeggiare. E finalmente giovedì festa è stata. Un’overdose di festa, che ha inondato più di uno tsunami ogni città, ogni palazzo della politica, qualsiasi trasmissione televisiva, perfino l’apertura di ogni telegiornale, spazzando via appunto come un maremoto il dramma del Giappone, la crisi della Libia e ogni altra notizia. Bene, grazie alle Iene  è stato evidente a tutti che il 17 marzo gran parte della classe politica italiana ha festeggiato a sua insaputa. Nel senso che non aveva la minima idea di cosa si dovesse festeggiare in quella data.

Per il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, il 17 marzo si sarebbe festeggiato l’inizio delle cinque giornate di Milano (che per altro iniziarono il 18 marzo, ma del 1848, quindi 163 anni fa). Per il vicepresidente della Camera dei deputati, Rosy Bindi, il 17 marzo è stato scelto perché è la data in cui Roma divenne capitale (accadde nel 1871, e quindi sarebbero 140 anni). Per Fabio Mussi, amico del cuore di Massimo D’Alema, non c’è un motivo per cui si festeggi il 17 marzo: «non lo so… è una data…». Per Carlo Barbaro, finiano di ferro, ultranazionalista «cosa accadde il 17 marzo di 150 anni fa? Di preciso non glielo so dire… La breccia di Porta Pia non credo.. O forse sì, proprio la breccia di Porta Pia». Un intellettuale di sinistra come l’ex presidente delle Acli, Luigi Bobba, è sembrato sgomento di fronte alla domanda:«Il 17 marzo? Non me lo ricordo. Il primo re di Italia? Sì, Umberto I». Da gran democristiano prova a cavarsela l’ex deputato dell’Udc, Vincenzo Alaimo: «Il 17 marzo? Non lo ricordo, però per averlo scelto vuole dire che è successo qualcosa di importante». L’intervistatrice prova a confonderlo con la risposta che in tanti danno: «La Breccia di Porta Pia? Ma quella è stata nel Novecento… L’anno preciso? Dunque nel ’46 c’è stata la Liberazione… forse nel ’45, nel ’44…».

Naufragio totale. Risponde da perfetto peone Franco Cardiello,  Pdl: «Il 17 marzo? Non è successo nulla. Evidentemente quella della data è una scelta condivisa». Come dire: a noi peones le decisioni passano sempre sulla testa. Si vede che la sinistra voleva festeggiare il 19, la destra voleva festeggiare il 15 e alla fine hanno condiviso la scelta del 17. Non solo fine storico, ma anche gran matematico  Vincenzo D’Anna, deputato che è andato  a infoltire le fila dei Reponsabili: «Si festeggia l’Unità di Italia, che è stata realizzata nel 1860, quando è stata liberata Roma con l’impresa di Porta Pia. Come? Sono passati 151 anni dal 1860? No, perché il 1860 non si conta. Si inizia a contare dall’anno successivo». Nel suo gruppo parlamentare neonato deve esserci  confusione. Perché anche il collega “responsabile” Vincenzo Taddei sostiene che sono passati 150 anni da quel 17 marzo 1860 in cui si fece l’unità.  E chi la fece? «Vittorio Emanuele III».

L’elenco di castronerie potrebbe continuare a lungo, e in più di un deputato si arricchisce della certezza su  Garibaldi: «fu soprannominato eroe dei due mondi perché fu eroe per il Regno delle due Sicilie e per il resto di Italia». Il servizio integrale è disponibile sul sito internet dNiudiare la storia politica del suo paese è il minimo che si dovrebbe chiedere: non hanno molto altro da conoscere. Ma che nessuno si sia chiesto perché darsi botte da orbi fra pro e contro quella festa del 17 marzo, è davvero lo specchio più genuino di cosa sia oggi la classe politica italiana. Senza bisogno di prendere fra le mani un libro di storia, il perché di quella festa è scritto nel decreto legge del governo che la istituisce. Testo che viene esaminato in commissione, perfino emendato, votato dall’aula dei due rami del Parlamento senza che nessuno naturalmente si sia curato di leggerne una riga. Così come sul nucleare tutti ancora una volta votano e voteranno a loro insaputa. Ormai è diventato questo lo slogan della attività politica. E si comprende   perché dopo essere stato lapidato per avere ammesso che qualcuno gli pagò la casa a Roma a sua insaputa il povero Claudio Scajola ora pretenda una rapida riabilitazione. Ne ha pieno diritto, in fondo è solo uno dei tanti eletti insaputelli…LIBERO, 19 marzo 2011, di Franco Bechis

CARA PATRIA DEPRESSA, RIALZATI E NON PENSARCI PIU’, OVVERO LA CONTROCOMMEMORAZIONE DEI 150 ANNI

Pubblicato il 18 marzo, 2011 in Costume, Storia | No Comments »

Stamattina all’alba è stata rinvenuta priva di sensi, sui gradini della sua abi­tazione nota come altare della patria, una donna di nome Italia. Aveva trascor­so per strada la notte tricolore e aveva brindato al suo compleanno fino a ubria­carsi. Quando i dipendenti della nettezza urbana l’hanno trovata, era strafatta. In serata si era lasciata andare ai ricordi e ha cominciato a piangere e a bere. Rive­dendo i filmini, i cimeli e le foto del suo passato, ha pensato alle violenze che ha subito nei secoli da invasori e invasati, ti­ranni di fuori e vigliacchi di dentro; ha ri­pensato agli stupri, alle calunnie e alle fe­rite che le hanno inferto anche in fami­glia. E ha lanciato per rabbia lo stivale. Poi ha pensato alle glorie e agli amori del passato e le è cresciuto pure il rimpianto e il rimorso. Infine ha pensato che da quando è nata le guastano puntualmen­te la festa di compleanno. Cent’anni fa, quando inaugurò la sua casa-altare, sparlarono di lei i socialisti che non la riconobbero come madrepa­tria perché i proletari non hanno patria, i cattolici che la consideravano una sver­gognata che civettava con atei e massoni, e i repubblicani che detestavano la sua casa reale e la sua tresca monarchica. Cinquant’anni fa, quando celebrarono il suoi cent’anni, i comunisti e le sinistre la consideravano ancora amante di na­zionalisti e fascisti, mentre loro erano in­ternazionalisti, devoti alla patria sovieti­ca e taluni a quella cinese. Quest’anno in­v­ece è toccato ai leghisti a nord e i neobor­bonici a sud rovinarle il compleanno, of­fendere il suo tailleur tricolore e la sua canzone preferita,l’inno di Mameli,scrit­ta per lei da un ragazzo che l’amava da morire. Così Italia si è buttata giù e nel pieno di questa guerra italo-italiana ha comincia­to a bere e a spaccarsi di droghe leggere e pesanti. A volte sogna di espatriare, ma ha il soggiorno obbligato in questa peni­sola. Vorrebbe farsi il lifting, siliconarsi e rifarsi pure le tette e le chiappe, per sem­brare un’altra. Poi cade in depressione e si lascia andare. Stamane sono giunti sul posto i carabinieri, l’hanno identificata e, vedendola scalza, l’hanno denunciata a piede libero. Marcello Veneziani

SAVIANO E LA MACCHINA DEL FANGO: OSSESSIONE CHE LO COPRE DI RIDICOLO

Pubblicato il 17 marzo, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Sarà colpa della stanchezza dovuta al massacrante tour cui l’editore Feltrinelli lo sta costringendo per promuovere il nuovo tomo Vieni via con me: le presentazioni in libreria (una al giorno, da Nord a Sud dello Stivale) e le apparizioni a ripetizione nei programmi televisivi – per lui che ha sempre detto di vivere blindato, segregato per motivi di sicurezza – devono essere parecchio faticose. Fatto sta che ormai Roberto Saviano vede fango dappertutto. Le osservazioni di Libero non gli vanno a genio? Subito tira in ballo la Macchina del Fango. Il Tg1 gli fa notare un’imprecisione? Di nuovo dà la colpa alla Macchina del Fango. E se al risto- rante gli dovessero servire un piatto di spaghetti poco saporiti, che farà Saviano? Dirà che li hanno conditi con il fango?

La psicosi sulla melma gioca brutti scherzi all’autore di Gomorra. L’ultimo dei quali riguarda il direttore uscente del Sole 24 Ore, Gianni Riotta. Appreso che il giornalista non avrebbe più guidato il quotidiano di Confindustria, Saviano ha immediatamente trovato traccia di un complottone, una oscura trama di cui è responsabile – di nuovo! – la Macchina del Fango. Lo scrittore campano ha dichiarato alle agenzie: «Mi dispiace molto che Gianni Riotta abbia deciso di lasciare il Sole 24 Ore, perché la sua direzione ha realizzato un giornale libero, con al centro la battaglia contro la mafia». Come mai Gianni ha mollato l’incarico? Colpa, dice Saviano, delle bugie prodotte in serie dalla Macchina del Fango di cui sopra: «Il fango insinua che con la direzione Riotta il Sole perdeva copie, la verità è un’altra e basta vedere i dati reali, in Italia fare il giornalista è un mestiere pericoloso se si vuole essere liberi e senza condizionamenti». Ecco fatto, con l’imposizione delle sue mani dotate di stimmate da romanziere impegnato, Saviano ha tramutato Riotta in un martire, un giornalista scomodo che qualcuno ha voluto eliminare perché parlava di mafia.

Il fatto singolare è che a smentire Robertino è intervenuto proprio un giornalista ed ex componente del comitato di redazione del Sole 24 Ore, Nicola Borzi, il quale ha inviato agli organi di stampa una lettera in cui si legge: «Il tono della “lotta antimafia” di Riotta è sempre stato a corrente alternata: forte con la criminalità “bassa”, quella che strangola i commercianti col pizzo (specie se i commercianti in questione sono i suoi cugini della “Antica Focacceria San Francesco” di Palermo), debolissimo, quasi assente, con la criminalità “alta”, quella dei colletti bianchi». Borzi, s’intuisce dalla sua missiva, non è certo un fan di Berlusconi. Anzi, lamenta che Riotta avesse rifiutato un’intervista (poi pubblicata dal Fatto) a un banchiere siciliano il quale «negli anni ’80 incon- trò Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri» che chiedevano prestiti per conto di Silvio. Prosegue il giornalista del Sole: «Saviano (…)
fa un torto all’intelligenza dei lettori, offende noi che viviamo e lavoriamo in un’azienda in crisi (solo ieri sono stati pubblicati i ri- sultati del bilancio 2010: 40 milioni di perdite dopo i 52 e mezzo del 2009), sputa sui 27mila piccoli risparmiatori che hanno visto il loro investimento in azioni del Sole 24 Ore decurtato del 75% da una gestione editoriale fallimentare». Che il Borzi sia stato corrotto dalla Macchina del Fango? Non sarebbe il primo. Persino Marta Herling, nipote di Benedetto Croce – che è si sentita offesa da un passaggio del libro di Saviano contenente un aneddoto falso su suo nonno – secondo l’autore di Gomorra si sarebbe «prestata al gioco» della orrenda Macchina.

A noi, sinceramente, sorge un altro sospetto. Che Roberto, da rockstar letteraria qual è, si indi- spettisca quando qualcuno lo contraddice o critica i suoi amici. Per esempio Riotta, che da direttore del Tg1 gli dedicò una lunga intervista e sul Sole ha celebrato a ripetizione i suoi libri. E se si irrita, Saviano scomoda la Macchina del Fango. La quale è suggestiva e divertente, ma presenta una controindicazione: quando si gioca troppo con la melma, si rischia di finire coperti. Oltre che di fango, pure di ricolo. Francesco Borgonovo, Libero, 17 marzo 2011

QUANDO LA SINISTRA ODIAVA IL TRICOLORE E L’INNO DI MAMELI…E “SCHIFAVA” LA PATRIA

Pubblicato il 14 marzo, 2011 in Costume | No Comments »

Nel 1971 usciva Nel nome del popolo italiano. Sul finire del film, il giudice (rosso) Mariano Bonifazi si ritrova tra le mani la prova dell’innocenza dell’industriale (nero) Lorenzo Santenocito la cui condanna era già segnata. Dino Risi fa smuovere l’animo del magistrato che decide di presentare la prova e graziare l’inquisito. Ma il gol di Boninsegna durante Italia-Germania gli fa cambiare idea. Cosa lo ha disturbato? Tutti quei tricolori esposti alle finestre degli italiani.

Alle ultime manifestazioni il Pd è sceso in piazza impugnando le bandiere italiane. A Sanremo l’Inno di Mameli cantato da Roberto Benigni ha fatto il record di ascolti. Nel linguaggio della sinistra “spuntano” le parole unità e patria. Viene da chiedersi se c’è stata una svolta nazionalista. E il motto “proletari di tutto il mondo unitevi” dov’è finito? E il partigiano di Bella ciao? E le bandiere rosse con la falce e il martello? Tutto ben nascosto nell’armadio di casa. Al libretto rosso di Mao, adesso preferiscono la Costituzione. “Riprendiamoci la nostra bandiera”, aveva gridato l’Unità l’anno scorso. E dietro tutti gli ex comunisti pronti a darsi una verginità nuova. Ma va ricordato: da sempre alla sinistra internazionalista la patria fa schifo, l’Inno d’Italia piace ancor meno e il tricolore è meglio bruciarlo in piazza.

“E’ per me motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più″, diceva Palmiro Togliatti. La verità è che la sinistra ha sempre snobbato certi temi, e certi amori. E non parliamo di preistoria della prima Repubblica. Anche in tempi più recenti. Nel 1989, quando Achille Ochetto era segretario del partito e Nilde Iotti sedeva sullo scranno più alto di Montecitorio, il Pci stava per cancellare la norma che prescriveva di aprire i congressi con l’Inno di Mameli (e già veniva suonato soltanto dopo l’Internazionale e Bandiera rossa). Non che nel Pds, invece, i compagni si stringessero a coorte. Anzi. Negli stessi anni, Massimo D’Alema preferiva Ennio Morricone a Mameli spiegando che quanto scritto nello statuto del partito era solo “un’indicazione, un consiglio” ormai decaduto. Anche durante i mondiali orientali del 2002 l’Unità di Furio Colombo solidarizzava con i calciatori che (per ignoranza o per volere) non cantavano Fratelli d’Italia prima della partita.

Poi è cambiato tutto. Walter Veltroni ha portato avanti un’intera campagna elettorale (oltre cento tappe) a intonare l’Inno. Il Pd ha dato una spolverata di bianco e verde al rosso onnipresente alle feste democratiche. Pure la parola Unità è scomparsa. Sabato pomeriggio, in piazza per difendere la scuola pubblica (un tempo anarchici e radicali la volevano distruggere dalle fondamenta) e la Costituzione, il centrosinistra sventolava il tricolore. Il segretario Pierluigi Bersani li ha ribattezzati “patrioti”. C’è chi dice che sia una mossa elettorale in antitesi al credo leghista. Ma a smontare i nuovi abiti indossati dal Pd ci ha pensato il filosofo Massimo Cacciari: “Il centrosinistra è stato spinto quasi per necessità verso la rivendicazione di valori attribuibiliin senso lato a Patri a e Nazione, nel quadro di un confronto politico con la Lega”. Insomma, tutta retorica.

Quella sbandierata dai democratici non è la bandiera che unisce tutti gli italiani sotto un unico cielo. E’ quella che getta fango su chi non la pensa allo stesso modo, che odia chi non si oppone al regime berlusconiano, che non dà spazio al libero pensiero (specie se questo è espresso sulle reti Rai), che preferisce i “nuovi italiani” ai vecchi, che lavora sotto banco per sovvertire il volere popolare. Quello cantato dai democratici non è l’Inno che unisce i fratelli pronti alla morte quando la Patria chiama. E’ quello che stona in piazza dieci, cento, mille Nassiryia, che sta dalla parte dei rivoltosi anziché dei poliziotti che “tengono” famiglia, che urlano diktat di dimissione sulle colonne dei quotidiani amici.

E allora: viva l’Italia! Per dirla con De Gregori: Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre, l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre, l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste.

LA VERA STORIA DEL PROF. TRAVAGLIO

Pubblicato il 12 marzo, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Marco Travaglio è un professori­n­o del giornali­smo. Dà le pa­gelle a tutti i colleghi e vi­gliacco che uno prenda almeno una volta la suffi­cienza. Si è autonomina­to erede di Montanelli, con il quale millanta una lunga frequentazione, quasi fossero padre e fi­glio, fin da quando lavo­rava per Il Giornale del quale era, pagato da Ber­lusconi, vicecorrispon­dente da Torino, cioè nul­la. I miei colleghi più an­ziani del Giornale non ri­cordano di averlo mai vi­sto una volta nella reda­zione centrale e scom­mettono che Montanelli non sapeva neppure chi fosse. Quando Indro eb­be la sciagurata idea di mollare la sua creatura per fondare La Voce , Tra­vaglio lo seguì, «uno dei tanti, nulla di più», ricor­dano oggi i compagni di avventura rimasti sulla strada. A parte questa piccola mitomania, di Travaglio giornalista non si ricor­da nulla. Ha avuto più for­t­una con le carte giudizia­rie trasformate in libri, grazie ai quali ha fatto sol­di e raggiunto la fama. Ie­ri ha stroncato pure Giu­l­iano Ferrara e il suo ritor­no in tv da lunedì, ogni se­ra dopo il Tg1. Egocentri­co e invidioso, Travaglio ha sentenziato che Ferra­ra non è un giornalista. La prova? Il Foglio , quoti­diano diretto da Ferrara, vende poche copie, mol­te meno del suo Il Fatto. Sai che ragionamento. È come se il proprietario di un sexy-shop si vantasse di avere più clienti di una galleria d’arte. Per curiosità, siamo an­dati a vedere come sono finiti gli scoop di Trava­glio campione di giorna­lismo senza macchia. Ec­co un elenco, probabil­mente incompleto, delle sue prodezze. Salvo erro­ri ed omissioni, la situa­zione è questa (il voto lo lasciamo a voi lettori). Nel 2000 è stato con­dannato in sede ci­vile, dopo essere stato ci­tato in giudizio da Cesare Previti a causa di un arti­colo su L’Indipendente , al risarcimento del dan­no quantificato in 79 mi­lioni di lire. Il 4 luglio 2004 è sta­to condannato dal Tribunale di Roma in se­de civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processua­li) per un errore di omoni­mia contenuto nel libro La repubblica delle bana­ne scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. In esso, a pagina 537, si descriveva «Falli­ca Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia», «commercian­te palermitano, braccio destro di Gianfranco Mic­cichè… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito pro­mosso deputato nel colle­gio di Palermo Settecan­noli ».L’errore era poi sta­to trasposto anche su L’Espresso , il Venerdì di Repubblica e La Rinasci­ta della Sinistra , per cui la condanna in solido, oltre­ché su Editori Riuniti, è stata estesa anche al grup­po Editoriale L’Espresso. Il 5 aprile 2005 è sta­to condannato dal Tribunale di Roma in se­de civile, assieme all’allo­ra dir­ettore dell ’Unità Fu­rio Colombo, al pagamen­to di 12.000 euro più 4.000 di spese processua­li a Fedele Confalonieri (presidente Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclag­gio, reati per i quali, inve­ce, non era risultato inqui­sito.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha con­dannato a risarcire Fede­le Confalonieri, presiden­te di Mediaset, con 6.000 euro, a causa dell’articolo «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato nella rubrica Uliwood Party
su l’Unità il 6 luglio 2006

Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribu­nale di Roma in sede civile, as­sieme al direttore dell’ Unità Antonio Padellaro e a Nuova Iniziativa Editoriale, al paga­mento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornali­sta del Tg1 Susanna Petruni come personaggio servile ver­so il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubbli­cazione- si leggeva nella sen­tenza – difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffa­matorio ».

Nel gennaio 2010 la Cor­te d’Appello penale di Ro­ma lo ha condannato a 1.000 euro di multa per il reato di dif­famazione aggravato dall’uso del mezzo della stampa, ai dan­ni di Cesare Previti. Il reato, se­condo il giudice monocratico, sarebbe stato commesso me­diante l’articolo «Patto scellera­to tra mafia e Forza Italia» pub­blicato sull’ Espresso il 3 ottobre 2002. La sentenza d’appello ri­forma la condanna dell’otto­bre 2008 in primo grado inflitta al giornalista ad 8 mesi di reclu­sione e 100 euro di multa. In se­de civile, a causa del predetto re­ato, Travaglio era stato condan­nato in primo grado, in solido con l’allora direttore della rivi­sta Daniela Hamaui, al paga­mento di 20.000 euro a titolo di risarcimento del danno in favo­re della vittima del reato Cesare Previti. Pochi giorni fa, in attesa della sentenza di Cassazione, il reato è caduto in prescrizione grazie ad una inspiegabile len­tezza dei giudici a scrivere le motivazioni.

Il 28 aprile 2009 è stato condannato in primo grado dal Tribunale penale di Roma per il reato di diffa­mazione ai danni dell’allo­ra direttore di Raiuno, Fabri­zio Del Noce, perpetrato mediante un articolo pub­blicato su l’Unità dell’11 maggio 2007.

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazio­ne ( Terza sezione civile, senten­za 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giu­dice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il ma­nuale del perfetto inquisito , af­fermazioni giudicate diffama­torie dalla Corte in quanto riferi­te «in maniera incompleta e so­stanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sen­tenza di prescrizione o, comun­que, la mancata puntualizza­zione del­carattere non definiti­vo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l’idea che la condanna fosse definiti­va (se non addirittura l’idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribuna­le di Torino- VII sezione civile ­a risarcire 16.000 euro al presi­dente del Senato Renato Schifa­ni ( che aveva chiesto un risarci­mento di 1.750.000 euro) per diffamazione, avendo evocato la metafora del lombrico e del­la muffa a Che tempo che fa il 15 maggio 2008. Il Giornale, 12 marzo 2011

MIRACOLO: SANTORO NON INSULTA BERLUSCONI, MA COSI’ ANNOZERO E’ ALLA CANNA DEL GAS

Pubblicato il 11 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Ieri sera puntata saporifera di Annozero. A un certo punto, c’era da pregare che nominassero Berlusconi. Eravamo disposti a tutto, anche a sentir massacrare il premier in diretta per l’ennesima volta. Ci dessero un po’ di bunga bunga, per carità, almeno un’Olgettina, due inchieste per mafia, qualcosa. E invece Annozero è andato in onda in versione giurassica, rispolverando addirittura Eugenio Scalfari e Fausto Bertinotti. Lo Scalfarosauro si dilungava in analisi sullo stato dell’economia prendendo in esame un argomento attualissimo: la crisi del 1929. Ci crediamo che poi grida all’avvento del fascismo: è fermo agli anni Trenta. Il Comunistosauro Bertinotti, invece,   lo pensavamo già estinto da anni assieme al suo ex partito,  Rifondazione. Invece si era solo nascosto all’ombra dei brontosauri ed è rispuntato per parlare di metalmeccanici e padroni. Da uno che ha provocato il crollo del suo schieramento, chissà quali geniali ricette sulla crisi mondiale possono venire (infatti auspica «un po’ di Patrimoniale»). Mancava solo Corrado Formigli inviato nel Cretaceo per un reportage e la trasmissione avrebbe potuto chiamarsi La preistoria siamo noi. Nello spettatore subentrava un senso di smarrimento: ma come, mandano in onda Superquark e c’è Santoro al posto di Piero Angela? Fortuna che era presente il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Le uniche emozioni, in avvio di puntata, le ha regalate lui. Prima mettendosi alla lavagna, spiegando  il «videogame» dell’economia e i rischi fatali (titolo del suo celebre libro e della puntata)  a cui vanno incontro gli italiani. Poi regalando siparietti con Scalfari, il quale lamentava: «Ho criticato molte volte      Tremonti, ma lui non mi ha mai fatto l’onore di rispondermi. Stasera dovrà farlo». E Santoro: «È una grande occasione». Commento di Tremonti: «Sì,  grande  per Scalfari». Nel frattempo, il pubblico (solitamente feroce e ruggente) era in coma. Travaglio dormiva, si è svegliato  perché un cinese dagli spalti ha pronunciato il nome fatale: «Berlusconi!». E Marco è balzato in piedi pronto alla pugna. Vauronel finale, incerottato per sfottere il premier dopo l’operazione ai denti, non è bastato a ridestare le folle.   Il succo è che, privo di frecce da scagliare contro Silviuccio, San Michele  perde  l’appeal. Ha fatto la puntata più bella e intelligente degli ultimi anni -  riflessiva e moderata – ma accadesse sempre così, cioè se Annozero fosse obbligato a cercare notizie vere, non avesse la sponda del gossip anti-Silvio e lo spauracchio del bavaglio, sarebbe un format per pochi, altro che adunate di piazza. Quelli che la menano con «la macchina del fango» e  chiedono il giornalismo d’alto profilo, se ottenessero  quanto dicono di volere sarebbero spacciati.   La morale è che – pur lamentando la sua invadenza catodica – gli amici progressisti non possono vivere senza il Drago di Arcore. Per rimediare qualche punto di share devono rifilare bastonate alla Lega, mostrando servizi sugli immigrati che dalla Libia sfollano in Tunisia (vogliono tornare nei propri Paesi, diceva ieri Santoro, e il Carroccio non li aiuta a casa loro come ha sempre dichiarato). Sono obbligate, le star di sinistra, a rifugiarsi nella tivù del dolore, a suon di   disoccupati   costretti a vendere  la fede nuziale per campare o imprenditori in crisi che solidarizzano con gli operai.   Ma i filmati strappalacrime sui profughi che a decine affollano una casa priva di servizi o fanno a gomitate per una pagnotta lanciata da un camion, lasciano il tempo che trovano. Possono commuovere un po’ l’ascoltatore terzomondista, poi stufano. Scalfari e Bertinotti possono attirare qualche appassionato di fossili, ma niente più. Jurassic Santoro, dispiace per lui, è soporifero: no Cav, no party. Ci permettiamo  un consiglio agli antiberlusconiani del piccolo schermo. Tenetevi stretto Giuliano Ferrara e pregate che Silvio si conservi in forma, al fine di garantirvi un audience di riguardo. Andate in chiesa e accendete un cero affinché il Cavaliere resti in sella. E se Sant’Antonio non vi aiuta, provate con le offerte a Santoro Martire. Altrimenti, il rischio fatale è che il successo di massa svanisca. Come una bolla finanziaria. di Francesco Borgonovo, LIBERO, 11 MARZO 2011

ABBIAMO RESISTITO ALLE BRIGATE ROSSE, FIGURIAMOCI A BOCCHINO: LUI CI FA RIDERE

Pubblicato il 11 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Italo Bocchino è un buffone. Non è che voglia aggravare la mia posizione di querelato: una sentenza della Corte di Cassazione relativa a quel Piero Ricca che diede, appunto, del buffone a Silvio Berlusconi, stabilisce infatti che rivolgersi in tal fatta a un politico non costituisce reato, essendo solo una «forte critica che può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la sua posizione pubblica». E Italo Bocchino, che è di elevata posizione pubblica, niente meno che il vice del Presidente della Camera, si prenda dunque da me del buffone.
Ne abbiamo passate delle belle, qui al Giornale. Dapprima trattati da pirla allo sbaraglio (ci davano per falliti entro sessanta giorni), poi da appestati cui negare non dico la parola, ma il semplice buongiorno e infine da nemici da abbattere con ogni mezzo. Subimmo scioperi selvaggi in tipografia, boicottaggi nelle edicole, assalti alla redazione da parte di branchi di scalmanati armati di chiavi inglese e oggetti contundenti di diversa natura. Montanelli si beccò anche le pallottole. Per dire del clima, fummo costretti a prendere il porto d’armi – subito accordato per manifesto stato di pericolo – e girare con la pistola nella fondina. E tutto questo era niente di fronte alla quotidiana martellante, proterva, violenta e sguaiata aggressione verbale e giornalistica. Altro che stalking. La libertà di stampa e d’opinione, i diritti riconosciuti dalla Costituzione «più bella del mondo» sbandierati ieri e oggi da quelle forze politiche e giornalistiche che vantano la diversità antropologica, a noi del Giornale non era riservata. Per i lorsignori, o cantavi nel coro o volente o nolente ti tappavi la bocca.
Ma a quei tempi a mordere erano almeno le iene, belve dalla forte dentatura. Oggi escono dall’ovile e ci mordono o provano a farlo le pecore, gli Italo Bocchino. Che da buon fascista, ancorché rinnegato, la libertà di stampa e d’opinione non sa nemmeno dove stia di casa e dunque si stizzisce, adendo subito le vie legali, se un giornale come il Giornale non dico lo critica, ma non lo eleva – come fecero in un primo momento, sognando il ribaltone, La Repubblica, Santoro e il Tg3 – a statista d’alto rango, di grande cultura e di sopraffina intelligenza. Non si sente diffamato, Bocchino. Non ha trovato, in quello che ho scritto o hanno scritto i miei colleghi querelati, particolari disonorevoli sul suo conto, tali d’averne offeso la reputazione. Ciò che abbiamo scritto è solo che la sua lucida mente ha portato l’ambizioso progetto futurista di far fuori il governo Berlusconi a una Caporetto senza se e senza ma. Provi qualcuno a negarlo. Per addentarci, col suo morso di pecora, è dovuto dunque ricorrere allo stalking, accusandoci non solo di fargli perdere il sonno, ma di averlo fatto, insieme alla moglie, deperire e dimagrire. È dunque una fortuna che ci venga in aiuto la Corte di Cassazione (sentenza 19509 del 4 maggio 2006) permettendoci di dare, «accertati il sostrato fattuale della critica e l’utilità sociale della stessa», del buffone a chi impugna simili mezzucci per unirsi all’opera di quanti vollero e tuttora vogliono far tacere la voce del Giornale. Non ci riuscirono, con mezzi assai più devastanti, negli anni di piombo. Figuriamoci se ci riuscirà, tirando in ballo la silhouette sua e della sua signora, una nullità politica come Italo Bocchino. Il Giornale, 11 marzo 2011

BOCCHINO? TRADIVA GIA’ NEL 2009

Pubblicato il 9 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Alle origini del fango, quando Italo Bocchino si spacciava ancora per ber­lus­coniano e già passava notizie sotto­banco a Dagospia sul caso Noemi. A quei tempi Fini si faceva raccontare dai pm le meraviglie del pentito Spa­tuzza, ma la scissione, il «che fai mi cacci», la casa di Montecarlo, Mirabel­l­o e fratture varie erano ancora un futu­ro remoto. Questo dimostra come i fi­niani volessero, poco tempo dopo la vittoria elettorale, disarcionare il Ca­valiere. Altro che la favola della caser­ma. Non è stato Berlusconi a rompere con Fini. L’obiettivo dei finiani è sem­pre stato uno solo: sputtanare il capo del governo e del loro partito. E per raggiungere l’obiettivo ogni mezzo era lecito, meglio se giudiziario. Ma come tutti i congiurati ora Bocchino vede spettri ovunque. E nel suo fango rischia di sprofondare. Povero Italo, è diventato l’uomo dei teoremi e dei complotti. Si è convinto che il solo parlare di lui nasconda una trama oscura. E così denuncia tutti, come uno di quei personaggi da romanzo che se un passante gli dice «buongiorno» sospetta chissà quale secondo fine e per non rischiare spedisce una lettera di denuncia al magistrato di turno: «Indaghi sul perché quel signore che io non rammento mi ha salutato sorridente».

Il guaio è che con la scusa dell’azione penale obbligatoria i pm lo assecondano e si mettono alla ricerca di un’altra loggia segreta.L’obiettivo è combattere la macchina del fango, il paradosso è che tutti quelli che parlano di macchina del fango finiscono per gettare fango, santo e benedetto ma sempre fango è, sul primo che passa. Andate a vedere per esempio quanto fango sta gettando in questo periodo Roberto Saviano. Bocchino nella sua battaglia è ancora più compulsivo. Tra poco denuncerà perfino se stesso. Da quando ha scoperto la parola stalking la ripete ogni tre secondi. Scrivere di Bocchino vuol dire turbare il suo equilibrio psicofisico. Ma soprattutto bisogna stare attenti a non nominare mai la moglie invano. Quello che è capitato a Roberto D’Agostino vale per tutti. Un tempo Dago andava in vacanza con Italo e Gabriella Buontempo, la moglie (oops, stalking). Erano amici, di quelli appunto che programmano le ferie nello stesso periodo. Tanto amici che l’onorevole Bocchino,ancora pidiellino doc, racconta D’Agostino, passa a Dagospia indiscrezioni sul caso Noemi. E Dago le pubblica. Ma quando Dagospia pubblica la lettera del ministro di Santa Lucia sulla proprietà della casa di Montecarlo Bocchino non ci vede più,rinnega l’amico, lo accusa di lesa maestà e va da Santoro: «Bisognerebbe fare una puntata per sapere chi c’è dietro Dagospia».

Ecco l’ossessione del complotto. Dago ci resta male. Telefona a Gabriella (oops, stalking) e si lamenta con lei per la bastardata di Italo. Tutto questo racconto serve solo a far vedere come il capetto del Fli viva ormai assediato e ossessionato dai suoi fantasmi. La politica per lui non è voto, consenso, progetti, cosa pubblica, maggioranza e opposizione. Non ci sono idee che si scontrano tra di loro. È invece una guerra esistenziale: o stai con me o contro di me. Bocchino si è ammalato di manicheismo, ripudiando tra l’altro tutte le lezioni di Tatarella, il ministro della concordia, quello che cercava un punto mediano con tutti e andava a trattare anche con il diavolo se c’era bisogno. Il bello di Tatarella era il suo dialogare con tutti senza mai rinnegare se stesso. Non rinunciava alle sue idee e neppure al suo modo di essere e di vestire. Era uno con una personalità tanto forte da vivere la tolleranza senza paura. L’altro non è mai un nemico, ma uno con cui su qualcosa, più di qualcosa, ci si può incontrare. Bocchino invece vede solo ombre. È per questo che non può permettersi la tolleranza. Nel suo universo chi la pensa diversamente è un nemico da abbattere con ogni mezzo. Senza dubbio, nella sua visione, chi non è d’accordo con il Fli nasconde qualcosa di losco. Si vive male così e non bastano i sorrisetti stampati sul volto per spacciare serenità. Quello che sta logorando Bocchino è la sua ansia di potere, l’ambizione di chi da onesto mestierante della politica spera di indossare una divisa da generale. Purtroppo, per lui, finisce sempre per fare la figura del caporale. Il Giornale, 9 marzo 2011

GLI AFFARI D’ORO DI BOCCHINO E SIGNORA: NOI PAGHIAMO 9 MILIONI ALL’ANNO

Pubblicato il 8 marzo, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Sulla 7, qualche sera fa, come fa ovunque incontri un giornalista scomodo, il vice di Fini, lo scudiero Bocchino,  ha aggredito il direttore de Il Giornale, SALLUSTI, definendolo killer al soldo di Berlusconi. Gli ha replicato piccato Sallusti: tu sei un mantenuto pagato con i soldi pubblici. Non è vero, ha a sua volta replicato Bocchino, io guadagno solo 110 mila euro l’anno, cioè lo stipendio di parlamentare. La verità è un pò diversa. Eccola raccontata oggi da Libero in edicola.

Italo Bocchino, deputato di Futuro e Libertà e vice presidente del partito, sostiene di percepire uno stipendio annuo pari a 110mila euro. Uno cifra,  nella media per un parlamentare, ma che non dice tutto sulle entrate del braccio destro di Fini. Bocchino, essendo il marito della signora Gabriella Buontempo, proprietaria della casa di produzione Goodtime Enterprise, che lavora con la Rai, e azionista del quotidiano partenopeo Il Roma, percepisce dalla tv pubblica e dallo Stato un pacco di soldi. Fra tv e carta stampata il «montepremi» annuo si aggira sugli otto milioni di euro. Che pagano i contribuenti, trattandosi di finanziamento pubblico ai giornali e di produzioni televisive vendute alla tv pubblica.
GIORNALE IN CRISI
Partendo dal «figlio minore» dell’impero dei Bocchino, si scopre che il quotidiano partenopeo “Il Roma” – venti giornalisti che non ricevono lo stipendio da due mesi – arriva in edicola grazie al finanziamento pubblico. Nel 2009 i soldi stanziati dal Dipartimento per l’editoria della presidenza del Consiglio sono stati due milioni e 500mila euro, a fronte di un costo del personale stimato attorno ai due milioni di euro. Il mancato incasso della suddetta cifra, come ha denunciato lo stesso Bocchino, sarebbe la causa del ritardato pagamento degli stipendi ai redattori del Roma. Per il deputato finiano poi, il congelamento dei fondi destinati al giornale di famiglia, altro non sarebbe che «una manovra politica». Accusa respinta da Palazzo Chigi, che in una nota nega il «blocco dei contributi» e ribadisce la «dovuta osservanza delle indicazioni dell’Agcom», visto che «non vi è alcuno spazio di discrezionalità» per il Dipartimento.

Già nel 2008 i fondi furono sbloccati dopo una lunga battaglia combattuta a suon di carte bollate. Il quotidiano partenopeo riceve i soldi dallo Stato già da diversi anni, con cifre variabili, ma sufficienti per garantire la confezione del prodotto.
Per l’anno in corso la società che edita il giornale, considerato il rischio connesso ai tagli per l’editoria, ha deciso di far ricorso ai cosiddetti «contratti di solidarietà», che comportano un taglio del 30% degli stipendi, ridotto al 5% grazie al contributo delll’Inpgi.  La famiglia Bocchino, almeno a quanto vanno sostenendo a Napoli gli addetti ai lavori, vorrebbe disfarsi del giornale, non a caso la cooperativa che edita la testata ha chiuso il 2010 con un buco di oltre 300mila euro, azzerato dai soci. Lo stesso gruppo di “volenterosi” ha trovato anche i soldi per chiudere i contenziosi aperti,  circa 80 mila euro, proprio per rendere appetibile la testata. Per ora, però, Bocchino e signora continuano a sperare nei soldi dello stato per risolvere i propri guai.

Decisamente più fluido il rapporto con la Rai. La società della moglie di Bocchino figura fra le aziende che, da tempo, forniscono i propri prodotti alla tv pubblica. L’ultimo “articolo” piazzato a viale Mazzini è una fiction dal valore di sei milioni di euro,  andata in onda fra gennaio e febbraio. Accolti discreti per le sei puntate, interpretate fra gli altri da Ricky Memphis, ma che non hanno certo cambiato le sorti della tv pubblica.  Nelle stagioni precedenti la società della signora Bocchino ha venduto alla Rai varie mini serie televisive, incassando diversi milioni di euro. Ma se la fiction di famiglia viaggia a gonfie vele, nonostante le battaglie affrontate in consiglio di amministrazione della Rai per spuntarla sulle altre case di produzione, in particolare quella di Luca Barbareschi, a battere in testa sono i programmi televisivi, come ha denunciato a La7 lo stesso Bocchino.

MAMMA RAI

«Per la prima volta in 50 anni i telespettatori della Rai», ha affermato il deputato di Fli, intervenendo a in Onda su La7, «non hanno visto Pippo Baudo in Rai.  Mia moglie fa il produttore cinematografico dal 1993, un anno prima di conoscermi. Il contratto che era stato fatto per il programma di Baudo è stato revocato. La ragione è che il produttore di Pippo nel 2010 era mia moglie per contratto». Le cose non stanno esattamente così. Lo  show ideato da Baudo era una cosa a metà tra la fiction e l’intrattenimento e doveva raccontare in quattro puntate di prima serata i grandi fatti della cronaca (dagli amori ai gialli) attraverso delle docufiction. Il programma avrebbe avuto un costo di circa 800mila euro a serata, tanto che la Rai  aveva scelto di produrre internamente lo show (visto che l’azienda è assolutamente in grado di farlo). Alla fine il programma è saltato e Pippo Baudo, dal prossimo mercoledì, torna in prima  serata con Bruno Vespa per celebrare i 150 dell’Unità d’Italia. Senza Bocchino. Enrico Paoli, Libero,08/03/2011