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“ITALIANI VOLTAGABBANA”, IL NUOVO LIBRO DI BRUNO VESPA

Pubblicato il 6 novembre, 2014 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

ITALIANI VOLTA GABBANA LIBRO DI BRUNO VESPA IL LIBRO DI BRUNO VESPA

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso. Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943.

In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso,  Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa,Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI

Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell’antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO

Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l’organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini.

Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l’abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l’erano cavata».

INDRO MONTANELLI

Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno».

Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA

«Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo…». Dev’essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l’8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d’ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l’industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo.

Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell’articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo…». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO

Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l’esito da lui sperato.

Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l’attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l’azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L’allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell’Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe».

E l’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l’ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».

Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L’avremmo fatto, ma avevamo quindici anni…». L’11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell’attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà).

Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORESIO

Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l’atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell’animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI

Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l’economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI

Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l’ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L’assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l’entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l’ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte».

(Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo – come tutta la redazione – generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.” Brano tratto  dal libro “Italiani volgabbana” di Bruno Vespa, novembre 2014

………Italiani voltagabbana? Vespa arriva con un pò di ritardo a scoprirlo e documentarlo,  visto che un mezzo secolo addietro  un certo Ennio Flaiano scriveva che gli italiani sono sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori e un certo Leo Longanesi scriveva che gli italiani sulla bandiera  sono soliti scrivere  sempre “ho famiglia”. Senza dimenticare Giovanni Guareschi e il suo “Candido” che ad ogni numero non tralasciava occasione per  ricordare i trascorsi “guerreschi” e non solo di tanti prodi voltagabbana; anzi in quegli anni fu edito e distribuito un tascabile che riportava sulla copertina un fez e il titolo”camerata dove sei?, con un lungo elenco di coraggiosi antifascisti che però erano stati altrettanto animosi fascisti durante il ventennio, salvo essere illuminati un minuto diopo la caduta del Duce e del fascismo. Ed anche in Parlamento rimbalzarono le denunce documentate sui salti della quaglia di tanti fascisti folgorati dall’antifascismo. Lo fece un simpatico deputato calabrese, si chiamava Nino Tripodi, che un pomeriggio, provocato dalle solite tiritiere antifasciste, si alzò nella solenne cornice della Camera e sciorinò nomi, cognomi ed imprese di tanti ex camerati divenuti feroci ed ardimentosi mangiafascisti. Tanti  di loro erano presenti in aula ma non fiatarono, così come non hanno fiatato in tempi più recenti i più bei nomi del giornalismo italiano elencati in un lungo elenco trascritto alla fine di un saggio il cui titolo era un programma: I Redenti, ed erano i nomi dei tanti giornalisti, alcuni di quelli appena citati anche da Vespa, che avedndo imparato il mestiere nelle redazioni dei giornali fascisti, da Primato a Il Tevere il cui caporedattore era un certo Giorgio Almirante, erano poi divenuti d’un sol colpo redattori ed inviati speciali dell’Unità.  Quindi  la vocazione trasformistica degli italiani è antica,   che si ripete  non solo ai cambi di regime, ma ora anche, in pieno sistema democratico-parlamentare,  ai cambi del capo del governo. g.

LA DISCIPLINA DELLA VERITA’, di Michele Salvati

Pubblicato il 17 luglio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »

«B isogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi – il debito ne è la conseguenza – e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle – la verità, appunto – non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni – che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano – ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.

La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia – condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche – per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.

Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole – perché di questo si tratta – che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia – è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo – l’intuito per il consenso – è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.

Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge – nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati – dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire – la faccio breve – freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani – la «verità» – io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni – Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri – è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione . Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 17 luglio 2014

CIO’ CHE RENZI ANCORA NON HA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 29 giugno, 2014 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »

Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle – e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti – invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» – dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese – tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.

La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso – con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale – in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.

Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.

Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo – sia detto incidentalmente – ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.

Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.

L’esecutivo dispone – direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento – di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.

Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia – per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità – c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.

Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 29 giugno 2014

………………..Analisi spietatatamente esatta quella di Galli della Loggia, specie per quanto riguarda il mondo delle idee e quello della cultura. Purtroppo, sino a  prova contraria, Renzi,  sul quale Galli della Loggia  pogge molte speranze, non sembra possedere lo spirito roosveltiano,  piuttosto sembra animato solo da  una voglia matta di potere e del suo mero esercizio,  proprio a scapito delle idee a  lungo tempo,  capaci di consentire alla nostra società di tornare a crescere.  g.

IL SIGNOR CAPO DELLA POLIZIA E I CRETINI, di Gian Marco Chiocci

Pubblicato il 20 aprile, 2014 in Costume, Cronaca | No Comments »

LETTERA APERTA AL CAPO DELLA POLIZIA

Signor Capo della Polizia

chi le scrive, prima di assumere la direzione de Il Tempo, ha trascorso gran parte della sua esistenza professionale facendo il cronista di strada e l’inviato speciale. In queste vesti ha provato a raccontare con obiettività i fatti che gli scorrevano davanti. Un bel giorno – si fa per dire – finisce catapultato nella bolgia di Genova, città assediata, impaurita, presidiata da elicotteri, blindati, robocop in uniforme e cavalli di frisia. Abituato, per sfida e per cultura a ritrovarsi spesso dalla parte sbagliata, pensai di procedere controcorrente rispetto alla totalità dei colleghi impegnati a celebrare i proclami di guerra dei cattivi maestri in tuta bianca: e così, dopo essermi beccato sul fianco una manganellata tirata alla cieca da un agente al primo contatto con gli antagonisti, un po’ prevenuto chiesi a quei poliziotti la possibilità di seguirli come un’ombra, di registrare le loro sensazioni, di raccontare l’altra faccia degli scontri che avrebbero fatto storia. Non mi dissero di sì, e nemmeno di no. Non lo sapevo ma erano gli uomini super addestrati del famoso (“famigerato”, direbbero i no global) Settimo Nucleo, il fiore all’occhiello di tutti i reparti mobili. Mi ritrovai così in mezzo a loro a vivere un’esperienza allucinante che cambierebbe a chiunque il modo di pensare e di vedere le cose.

Trascorsi le successive sette-otto ore nell’inferno di una violenza a senso unico – quella del Blocco Nero – che non credevo possibile. Non è retorica, e nemmeno piaggeria, ma per abusare di Blade Runner ho visto davvero cose che certi opinionisti e sinistri parrucconi non possono lontanamente immaginare. Ho visto ragazzi, i suoi ragazzi, signor capo della Polizia, piegarsi in due a colpi di pietre e bastonate. Ho visto i caschi della Celere frantumarsi al contatto con le biglie d’acciaio. Ho visto divise prendere fuoco insieme a chi le indossava. Li ho visti piangere dal dolore, soffocare nei loro stessi gas lacrimogeni, chiedere aiuto e soccorso ai compagni. Ma soprattutto li ho visti ogni volta risorgere, rialzarsi miracolosamente, ricompattarsi a mo’ di testuggine, battere sugli scudi per ritrovare coraggio, rincorrere ombre anche se azzoppati, ingaggiare nuovi scontri, rispondere alle offese senza mai infierire quando al loro posto – lo confesso – li avrei presi tutti gratuitamente a mazzate. Li ho visti andare al macello in settanta contro 500/600, mi sono detto ma chi glielo fa fare, ho pensato alle loro mogli e ai figli a casa, e più avanzavano malconci e fieri verso quel muro d’odio e più pensavo che a gente così bisognerebbe dargli cinquemila euro d’aumento, minimo. Al termine di quella giornata ho visto una città distrutta, bruciata, disorientata, avvolta dal fumo nero, stuprata da migliaia di animali. Quel che ho visto l’ho raccontato senza filtri e preconcetti. Ma l’indomani, leggendo i giornali, pensavo d’aver vissuto un incubo coi responsabili di quella guerra civile osannati e coccolati e i difensori dello Stato umiliati e maltrattati. Ci fu la Diaz, è vero, con lo schifo che alcuni poliziotti senza nome fecero all’interno. Ci fu la tragedia di Carlo Giuliani, ucciso per legittima difesa da un carabiniere terrorizzato dall’orda di barbari invasati sulla camionetta incastrata. Ci fu anche una gestione dell’ordine pubblico penosa. Ma le devastazioni, i danneggiamenti, i saccheggi, gli assalti, i pestaggi, i 20 milioni di euro di danni, i 170 poliziotti e carabinieri portati all’ospedale, che fine avevano fatto?

Ecco. La storia oggi si ripete, signor Capo della Polizia. Perché la storia, talvolta, non insegna niente e quando concede il bis si diverte a indurre in errore chi dovrebbe restarne immune. Dispiace che a commetterlo, stavolta, sia stato Lei, nella fretta di dare del «cretino» a un suo poliziotto che avrà anche sbagliato a calpestare un manifestante (sarà la magistratura a stabilire se l’ha fatto apposta) ma che – assieme agli altri suoi colleghi – per ore ha subìto di tutto, come ogni giorno subiscono all’inverosimibile sui monti della Tav o allo stadio, in un crescendo d’ansia e adrenalina senza eguali. La base del Corpo è in rivolta per le sue parole, i sindacati di polizia l’hanno criticata ferocemente, il prefetto di Roma ha detto cose ovvie e naturali che i suoi uomini si aspettavano da Lei, il ministro Alfano ieri ha difeso il Corpo con parole che da decenni non si sentivano al Viminale. Non faccia finta di non ascoltare quelle voci. Anche se nella sua lunga e brillante carriera ha combattuto (bene) il crimine organizzato senza occuparsi mai della piazza, dia presto un segnale a chi rifugge il pensiero unico della polizia cilena. Come scriveva Sun Tzu nell’Arte della guerra, un vero leader non comanda con la forza ma con l’esempio.Gian Marco Chiocci, iL TEMPO 20 APRILE 2014

…..tROPPO BUONO IL DIRETTORE DE il Tempo, glorioso quotidiano romano, che al capo della polizia chiede di dare l’esempio scendendo in piazza insieme agli uomini che subiscono assalti, aggressioni, umiliazioni, e sberleffi. Davvero troppo poco visto che mensilmente guadagna 50 volte in più di un poliziotto pestato dai delinquenti che con la scusa della protesta distruggono intere citta’, ad iniziare da roma. un capo della polizia che da’ delc retino ad un suo uomo senza che ne sia stata acceertata la colpa, merita di essere esonerato dal comando  e mandato in piazza agli ordini di un qualche caporale.

I PROPRI INTERESSI COME IDEOLOGIA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 28 febbraio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »

Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.

Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura – dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità – si sono arrese ai tempi nuovi.


In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).


La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché – nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. – per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale – come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà – dietro l’ossequio formale ai politici – a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia. Fonte: Il Corriere della Sera

E’ L’ORA DELLA GENERAZIONE DEI BRAVI RAGAZZI, di Aldo Cazzullo

Pubblicato il 13 dicembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

In politica – titolano tg e giornali – è l’ora dei quarantenni. Ma, a ben vedere, è un ricambio più profondo quello che si annuncia, è un’altra generazione ancora quella che si affaccia alla vita pubblica. La generazione che si potrebbe definire dei «bravi ragazzi».

Enrico Letta non è certo un volto nuovo: nel 1998 era già ministro. Angelino Alfano ha quattro anni di meno, ma non si direbbe: le grisaglie, l’eloquio che ricorda i principi del foro siciliani, l’ormai lunga militanza politica ne fanno un veterano. Ma alle loro spalle avanzano i veri giovani, volti più freschi di quelli – da tempo entrati nella sfera mediatica – di Matteo Renzi o di Giorgia Meloni.

La nuova segreteria del Pd, scelta un po’ frettolosamente, può senz’altro essere criticata per la sua «leggerezza». Allo stesso modo, la ricerca di nuovi talenti avviata da Berlusconi non ha ancora dato i risultati attesi. Essere giovani non basta; la preparazione e l’esperienza saranno sempre requisiti fondamentali. Però sarebbe ingeneroso ridurre le novità che avanzano al solo dato anagrafico. I volti che andiamo scoprendo in questi giorni non sono semplicemente di bell’aspetto; dietro ci sono persone normali, di modi garbati, di buoni studi, insomma ragazze e ragazzi come quelli che vediamo festeggiare le lauree nelle città universitarie, cercare tra grandi difficoltà un lavoro, tentare di costruirsi una famiglia e un futuro. Non figli d’arte né del Partito. Volti in cui i nonni possono riconoscere i propri nipoti, i padri i propri figli.

È importante che le nomenklature, a sinistra come a destra, avvertano la necessità di cambiare, di avviare un rinnovamento che non sia solo di facciata ma coinvolga i comportamenti, i profili, le storie, il linguaggio. Mai il discredito della politica è stato così alto, mai il suo fascino così basso. I talenti migliori non se ne sentono attratti. Molti cittadini non ne vogliono più sapere: non a caso tutti i talk show perdono audience. I parlamentari sono visti come alieni che vivono un’altra vita e discutono di altre cose rispetto alla gente normale. In queste circostanze, investire di responsabilità giovani che hanno appena compiuto trent’anni, che hanno figli piccoli o in arrivo, significa finalmente distogliere lo sguardo dalle contrapposizioni ideologiche, e rivolgerlo a un avvenire che non sia l’eterno ritorno di cose già viste e già sentite.

Del resto, nelle aziende innovative, nelle start up , nel mondo delle nuove tecnologie è frequente (non soltanto all’estero) vedere ai posti di comando persone giovani o molto giovani. E per un ragazzo che ancora non vota, ed è tentato di non farlo mai, un trentenne al potere non è un esperimento azzardato ma un fratello maggiore che finalmente si assume le proprie responsabilità. Abituati come siamo a classi dirigenti inamovibili, distanti, talora disoneste, avvezze a cooptare figli e famigli tagliando fuori tutti gli altri, sbaglieremmo a liquidare come inadeguati i compagni di strada di Renzi – compresi quelli che non appartenevano alla sua corrente – e coloro che emergeranno dallo scouting in corso a destra. L’importante è che, oltre a sembrare e – si spera – essere «bravi ragazzi», sappiano coltivare la profondità. Il ricambio generazionale, di cui ogni Paese ha bisogno, non è mai un fatto soltanto anagrafico, non consiste nel mettere semplicemente un giovane al posto di un anziano; significa fare cose nuove o fare le cose di ieri in modo diverso. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 13 dicembre 2013

CLASSI DIRIGENTI E COSCIENZE SPORCHE: CRONACHE DALLA PALUDE

Pubblicato il 17 novembre, 2013 in Costume, Cronaca | No Comments »

Non qualche organo dello Stato italiano, ma l’amministrazione della Marina degli Stati Uniti (si può aggiungere «a nostra vergogna» o è un’espressione esagerata?) si è data cura di elaborare i dati più aggiornati sull’inquinamento ambientale a Napoli e in Campania. I risultati sono noti grazie all’ Espresso : in pratica, chi si azzarda a bere l’acqua del rubinetto da Capodichino a Caserta lo fa a suo rischio e pericolo. Risultato: i giornali si agitano, i napoletani si preoccupano, il loro ineffabile sindaco minaccia azioni legali (immagino contro Obama). Non sembra però che in complesso ci sia una reazione molto diversa da quella che c’è stata una settimana fa, quando si è appreso che secondo un celebre capocamorrista in galera, coloro che abitano nelle medesime zone di cui sopra nel giro di venti anni saranno tutti morti di cancro a causa dei rifiuti tossici che la sua organizzazione ha riversato lì per anni. Profezia che peraltro – come ha raccontato benissimo sul Corriere di ieri Gian Antonio Stella – si sta già puntualmente avverando. In entrambi i casi costernazione, indignazione, ma tutto finisce lì. Il Sud può andare in malora, l’Italia sembra avere altro a cui pensare.

In altri tempi, quando al Parlamento sedevano rappresentanti veri delle popolazioni, e non burattini paracadutati come oggi, fatti del genere (si pensi all’epidemia di colera del ‘73) avrebbero scatenato la loro mobilitazione immediata e una conseguente azione fortissima sul governo. Così come in altri tempi, e sempre per cose del genere, i partiti e le organizzazioni sindacali delle zone interessate avrebbero fatto a dir poco l’ira di dio. Ma allora non c’era il Porcellum . Il Sud c’era ancora come grande questione nazionale. E forse, mi viene da aggiungere, c’era anche un’altra idea d’Italia.

Ma alla fine tutto dipende ancora da noi. Moltissimo è nelle mani dell’opinione pubblica meridionale; molto dipende dal convincimento che essa deve farsi che di questo passo il Mezzogiorno diventerà un posto simile a certi Stati della coca sudamericani. Così come molto dipende dalla capacità dell’opinione pubblica meridionale di resistere alla deprecazione di maniera di coloro che al minimo stormir di fronde sono abituati a strillare contro la «militarizzazione del territorio». Quando invece è proprio da una tale militarizzazione che tanta parte del Sud può aspettarsi la salvezza. Solo con il sostegno di questo nuovo sentimento collettivo lo Stato potrà fare la sua parte. Non servono leggi eccezionali. Serve un controllo capillare delle amministrazioni locali, un’azione continua e penetrante specialmente della Guardia di finanza, serve far funzionare tutto ciò che è pubblico: dai mezzi di trasporto, agli ospedali, alla scuola, alle poste. E servono anche gesti simbolici: per esempio la nomina a Caserta o a Reggio Calabria di un prefetto scelto tra gli alti gradi dei Carabinieri.

Guai a pensare però che sia solo una questione del Mezzogiorno. Lì c’è la testa della Piovra, che dopo essersi alimentata per anni con i rifiuti provenienti perlopiù dal Nord, ora sta allungando anche qui i suoi tentacoli. Essa sa bene, infatti, che l’Italia è una sola. Siamo noi che spesso ce ne dimentichiamo. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 17 novembrfe 2013

……………..Qualsiasi questione ci riporta allo stesso punto di partenza: la necessità di riformulare la legge elettorale, restituendo ai cittadini il diritto-dovere di scegliere da chi farsi rappresentare e agli eletti il dovere-obbligo di ben rappresentare gli elettorie il loro territorio. Altrimenti ciò che denuncia Galli della Loggia si ripeterà all’infinito, senza che alcun se ne senta responsabile. g.

OGNUNO PER SE’, SENZA VERGOGNA, di Antonio Polito

Pubblicato il 15 novembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »

Domani morirà il Pdl. Certo, per rinascere sotto le sembianze di Forza Italia. Ma la nuova-vecchia sigla rischia una scissione prima ancora di nascere. Dobbiamo dunque in ogni caso dare l’addio a un partito venuto alla luce esattamente sei anni fa, il 18 novembre del 2007, su un predellino a piazza San Babila, per diventare il grande partito conservatore che l’Italia non aveva mai avuto. L’idea di riunificare in un unico contenitore tutte le culture (e gli apparati) del centrodestra è miseramente fallita.

Del resto anche il Pd ha così tante volte fallito in questi sei anni di vita la sua missione fondatrice, portare al governo il riformismo italiano, che già è in cerca di un salvatore che lo rifondi, il prossimo 8 dicembre. L’unico partito non ad personam della Seconda Repubblica, ha scritto Mauro Calise nel suo libro Fuorigioco , è morto soffocato dal personalismo di decine di piccoli leader, capaci di dilaniarsi dall’elezione del presidente della Repubblica fino a quella del segretario di Asti, spesso facendo carte false. La rifondazione consiste in questo: diventare un partito personale, sperando che un vero Capo distrugga tutti i capetti.

Bisognerebbe a questo punto parlare di Scelta civica, il partito più giovane; ma lì non si parlano neanche più tra di loro, di che vogliamo parlare? Della Lega, certo, il partito più antico, che si avvia a un congresso fratricida? Oppure dei resti di Alleanza nazionale, il cui conto in banca è sopravvissuto al partito, al punto che forse rifanno il partito per recuperare il bottino?
Ovunque la lotta politica è aspra. Ma in nessun luogo del mondo civile è così intestina, squassa i partiti dall’interno, e produce una tale pletora di cacicchi, cassieri e cantori. I partiti italiani non sono tali perché sono divisi sull’essenziale. Tra le colombe e i falchi del Pdl, per esempio, non c’è una differenza marginale o transitoria: gli uni vogliono stare al governo e gli altri all’opposizione; i primi sognano la democrazia interna, i secondi invocano l’autocrazia. Sono così diversi che se resteranno insieme domani, ricominceranno a litigare dopodomani.

Ovunque la lotta politica non è un pranzo di gala. Ma in nessuna democrazia occidentale i leader non si siedono neanche a tavola. Tra poche settimane nessuno tra i capi dei maggiori partiti italiani starà in Parlamento. Chi volente, chi nolente, Berlusconi, Renzi e Grillo saranno tutti leader extraparlamentari.

Le parole di Giorgio Napolitano, che davanti a papa Francesco ha condannato le «esasperazioni di parte», il «clima avvelenato e destabilizzante», e si è rammaricato di quanto la nostra vita pubblica sia lontana da quella «cultura dell’incontro» che il Pontefice spesso invoca, sono dunque una rappresentazione moderata e perfino generosa dello stato della lotta politica in Italia, nel Parlamento e fuori. Essa in realtà ricorda molto da vicino lo stato di natura descritto da Hobbes, homo homini lupus . Ma si tratta di una danza macabra. Una nazione che perde di vista l’interesse comune prepara la rovina collettiva. L’Italia non ne è distante.Antonio Polito, Il Corriere della Srra, 15 novembre 2013

……Questa la diagnosi, assolutamente esatta, desolatamente esatta. E la terapia? Polito, che sempre più assomiglia nello scrivere all’indimenticabile Montanelli per chiarezza e sintesi,  si astiene dall’indicarne una, forse perchè ritiene, giustamente!, che non una sola basterebbe per rimettere su questo Paese, il nostro bel Paese che di bello ha ormai poco, almeno nei costumi e nella società, ma  che di terapie ne servono molte e di più e diverse nature. Bell’impiccio non solo per il Paese ma sopratutto per chi ci abita, per scelta o per costitrizione, e a cui tra poco non resterà che un interrogativo: restare o andarsene? Bel dlemma anche questo, purtroppo senza risoluzione. g.

PADRE E MADRE TRASFORMATI IN GENITORE 1 E GENITORE 2: OVVERO LE BALORDAGGINI IN NOME DEL POLITICAMENTE CORRETTO

Pubblicato il 13 novembre, 2013 in Costume | No Comments »

Madre e padre cancellati. Non esistono più. Ora sono stati trasformati in genitore 1 e genitore 2 . Sul libretto delle giustificazioni degli alunni del Liceo Mamiani di Roma la famiglia tradizionale, quella che conosciamo da qualche millennio, è stata abolita con la semplicissima e veloce sostituzione di due sostantivi.  Per la verità la tendenza all’annullamento  delle differenze tra generi non è una novità.  Alcuni paesi  come la Francia  e la Spagna hanno già adottato forme di espressione più impersonali nei documenti ufficiali. Anche in Italia la proposta è stata avanzata da alcune amministrazioni locali. Nel settembre scorso ha suscitato fortissime polemiche la presa di posizione del ministro per l’Integrazione, Cecila Kyenge , che si era detta favorevole all’abolizione dei termini mamma e papà a favore di genitore 1 e 2 in riferimento alla scelta di una scuola materna di Venezia che ha deciso di cancellare dai moduli di iscrizione i termini mamma e papà.

La scelta del Mamiani viene apprezzata dal portavoce di Gay Center, Fabrizio Marrazzo, perchè in questo modo, afferma, non si discriminano i genitori gay. Marrazzo chiede che tutte le scuole d’Italia seguano l’esempio del Mamiani.

Indignato invece Federico Iadicicco di Fratelli d’Italia. <Una decisione ridicola -attacca Iadicicco- Annullare la denominazione padre e madre non è un fatto burocratico ma mina alle radici la struttura identitaria della persona>. Iadicicco chiede l’intervento del ministro della Pubblica Istruzione <per frenare questa inutile e dannosa boutade propagandistica>.

Ma davvero basta cambiare un sostantivo su un modulo per eliminare le discriminazioni o dall’altro punto di vista minacciare la nostra identità, le nostre tradizioni? Fonte ANSA, 13 novembre 2013

…………..Diciamo la verità, al Liceo Mamiani di Roma, noto per essere stato negli anni che precedettero quelli di piombo la roccaforte degli estremisti di sinistra, del libero sesso con la scusa delle occupazioni sessantottine, delle aggressioni ai ragazzi di destra con la complicità di professori rissosamente rossi, si vuole primeggiare e in attesa che i bambini nascano non dalla donna con l’apporto determinante dell’uomo ma da qualche surrogato (della donna…) ma da qualche alieno, si incomincia coll’immaginare,  con l’aiuto della fantasia che non manca agli imbecilli, che,  in quel caso,  l’alieno non sarà nè donna, nè maschio, ma appunto al più un numero. Il problema, se probelma è, che c’è chi a queste balordaggini ci va dietro. Come la ministra venuta da lontano. g.

MEDIOEVO ALLA ROVESCIA: LA CROCE AL COLLO OFFENDE L’ISLAM.

Pubblicato il 12 novembre, 2013 in Costume | No Comments »

Siv Kristin Sællmann, una delle più apprezzate giornaliste della tv pubblica norvegese, non potrà più indossare in video la catenina con la croce che ha fatto imbestialire i musulmani – “Quel simbolo non garantisce l’imparzialità del canale. Offende l’Islam…”

Non è bastato a Siv Kristin Sællmann essere una delle più apprezzate e conosciute giornaliste della tv pubblica norvegese Nrk. Kristin ha commesso un errore: ha indossato una collanina con la croce durante la conduzione di un telegiornale.Secondo quanto riferito dai vertici della tv, alcuni spettatori – soprattutto esponenti della comunità islamica locale – hanno protestato: «Quella catenina con la croce offende l’Islam». «Quel simbolo non garantisce l’imparzialità del canale». Risultato: alla conduttrice è stato vietato di ripresentarsi in video con quella piccola croce (1,4 centimetri, ha dichiarato la stessa giornalista).

Un caso che ricorda molto da vicino l’incredibile vicenda di Nadia Eweida, dipendente della compagnia aerea British Airways che dopo sette anni ha vinto la sua battaglia legale. La Corte Europea dei diritti umani ha infatti riconosciuto, nel gennaio scorso, che la donna era stata discriminata quando i suoi superiori le impedirono di portare una croce al collo sul posto di lavoro.

Nel caso della cristiana copta Eweida la sentenza di Strasburgo aveva messo in evidenza «l’importanza della libertà di religione, elemento essenziale dell’identità dei credenti e fondamento, tra altri, delle società democratiche pluraliste». Al contempo, però, la Corte aveva messo in guardia dai casi in cui «la pratica religiosa di un individuo sconfina sui diritti altrui». In quei casi può essere «oggetto di restrizioni». Chissà la collanina di Kristin in quale caso ricade. Mauro Pianta, La Stampa, 12 novembre 2013

……………..La differenza tra il mondo libero e l’altra parte del mondo è tutta qui: i cattolici non possono esibire il simbolo della loro fede perchè offende gli islamici, gli islamici possono ostentare (giustamente) i loro senza che passi neppure per la mente ai cattolici e ai praticanti di qualsivoglia altra religione al mondo di sentirsi nè offesi, mè tantomeno turbati. Insomma la libertà di fede, proclamata come emblema di democrazia universale, è a senso unicom, a danno, ovviamente, di chi non è islamico. g