Archivio per la categoria ‘Costume’
LA DISCIPLINA DELLA VERITA’, di Michele Salvati
Pubblicato il 17 luglio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »
«B isogna dire la verità agli italiani». Non so quanti siano gli articoli che ho scritto su questo giornale e che si concludevano con quel ritornello: forse troppi. Li ho scritti quando al governo era Berlusconi e imperava una filosofia alla Mike Bongiorno («allegria!»); e quando al governo era la sinistra, un po’ più sobria ma che, con la verità, non aveva un rapporto molto diverso. «La verità mi fa male», cantava Caterina Caselli alla fine degli anni 60. Fa male a un politico dire agli italiani che per troppo tempo hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi – il debito ne è la conseguenza – e che, per rientrare e tornare a crescere, sarà necessario un lungo periodo di sofferenze, durante il quale molte istituzioni e rapporti cui si sono assuefatti dovranno essere radicalmente riformati. Nella politica, nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella giustizia, nel Mezzogiorno, nella legislazione del lavoro, nell’impresa, e si può continuare. Le sofferenze, in realtà, sono iniziate da molto tempo: è almeno dall’inizio del secolo che il Paese ristagna e la prospettiva di un declino secolare si avvicina. Ma la ragione per cui gli italiani devono subirle – la verità, appunto – non è per loro ancora chiara. E ancor meno chiaro è se le riforme promesse saranno giuste e radicali quanto è necessario ad evitare che debbano subirle anche i loro figli. A partire da queste convinzioni – che mi sono formato attraverso lo studio delle origini del declino italiano – ho provato una forte sintonia con l’editoriale che Galli della Loggia ha scritto sul Corriere di lunedì scorso: «Dirsi in faccia un po’ di verità». Due domande, però, che rivolgo anche a me stesso.
La prima è ovvia: qual è la verità? In altre parole, qual è l’analisi più affidabile dei guasti che corrodono il nostro Paese e, di conseguenza, quali sono le aree nelle quali si dovrebbe intervenire con le riforme? E come? Un giudice, ma anche uno storico, sanno benissimo com’è difficile ricostruire la verità: nel film Rashomon , Akira Kurosawa ne ha dato una rappresentazione indimenticabile per la sua forza. Dagli esempi che Galli della Loggia riporta mi sembra di capire che la sua verità assomiglia abbastanza alla mia. E poi i guasti nelle istituzioni, nell’economia, nella società, nella cultura e nelle mentalità del nostro Paese sono così evidenti e macroscopici che dovrebbero bastare criteri elementari di efficienza e di giustizia – condivisi dalla gran parte dei nostri concittadini, quali che siano le loro convinzioni politiche – per farne una narrazione capace di ottenere un largo consenso. Temo che le cose siano un po’ più complicate di così, dato che in Italia circolano oggi tante «verità» partigiane, un quasi ossimoro. Ma ammettiamo, senza concederlo, che le cose siano abbastanza semplici da poter passare alla seconda domanda.
Basterà questa verità, questa narrazione, per «mobilitare le menti e i cuori degli italiani e in questo modo spingerli al rinnovamento e all’azione»? In altre parole – perché di questo si tratta – che cosa deve fare un politico dotato del carisma di Matteo Renzi? Se dire la «verità», e quanta verità dire, sia sufficiente a «mobilitare le menti e i cuori» in un Paese così frammentato culturalmente e politicamente diviso com’è l’Italia – è un giudizio che conviene lasciare al politico, perché questo – l’intuito per il consenso – è una parte essenziale del suo mestiere e di esso Renzi ha dimostrato sinora di essere ben provvisto. A noi come cittadini interessano altre parti del suo mestiere, anzi della sua vocazione: quelle che Max Weber descrive con la tripletta passione, responsabilità, lungimiranza. Passione vuol dire dedizione ad una causa esterna da sé (la vanità e la ricerca del potere di per se stesso è uno dei crimini del politico) e questa passione spero che Renzi ce l’abbia: la sobrietà con cui ha reagito alla grande vittoria elettorale delle Europee promette bene.
Responsabilità vuol dire che la causa che il politico si prefigge – nel caso nostro sollevare il Paese dall’infelice condizione in cui è caduto, e così facendo migliorare anche la situazione dei nostri concittadini più disagiati – dev’essere la stella polare del suo agire, l’unico metro con cui misura il suo personale successo. E lungimiranza vuol dire – la faccio breve – freddezza, realismo, capacità di valutazione distaccata. Le cose che Galli della Loggia vorrebbe che Renzi dicesse agli italiani – la «verità» – io vorrei che le pensasse lui e agisse in conseguenza, con la massima lungimiranza, astuzia e freddezza di cui è capace. Se non ne fosse intimamente convinto la tripletta weberiana lo porterebbe in direzione sbagliata: resterebbe un politico per vocazione, ma non il politico di cui oggi il Paese ha bisogno. Perplessità e preoccupazioni gli osservatori esterni – Galli della Loggia, chi scrive e tanti altri – è comprensibile che le abbiano e la mia maggiore è se Renzi, e il gruppo dirigente che ha portato al governo, abbiano le risorse tecniche e culturali adeguate al compito, alle fatiche di Ercole, che si sono addossati. Ma consigli non ne ho, se non quello di tenersi sul comodino il profondo e commovente saggio di Max Weber cui ho fatto riferimento: La politica come vocazione . Michele Salvati, Il Corriere della Sera, 17 luglio 2014
CIO’ CHE RENZI ANCORA NON HA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 29 giugno, 2014 in Costume, Cultura, Politica | No Comments »
Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle – e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti – invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» – dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese – tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.
La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso – con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale – in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.
Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.
Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo – sia detto incidentalmente – ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita. C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.
Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
L’esecutivo dispone – direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento – di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia – per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità – c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.
Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.
Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 29 giugno 2014
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori – sì, i valori – cui legare direttamente il proprio impegno politico – oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza – e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
………………..Analisi spietatatamente esatta quella di Galli della Loggia, specie per quanto riguarda il mondo delle idee e quello della cultura. Purtroppo, sino a prova contraria, Renzi, sul quale Galli della Loggia pogge molte speranze, non sembra possedere lo spirito roosveltiano, piuttosto sembra animato solo da una voglia matta di potere e del suo mero esercizio, proprio a scapito delle idee a lungo tempo, capaci di consentire alla nostra società di tornare a crescere. g.
IL SIGNOR CAPO DELLA POLIZIA E I CRETINI, di Gian Marco Chiocci
Pubblicato il 20 aprile, 2014 in Costume, Cronaca | No Comments »
LETTERA APERTA AL CAPO DELLA POLIZIA
Signor Capo della Polizia
chi le scrive, prima di assumere la direzione de Il Tempo, ha trascorso gran parte della sua esistenza professionale facendo il cronista di strada e l’inviato speciale. In queste vesti ha provato a raccontare con obiettività i fatti che gli scorrevano davanti. Un bel giorno – si fa per dire – finisce catapultato nella bolgia di Genova, città assediata, impaurita, presidiata da elicotteri, blindati, robocop in uniforme e cavalli di frisia. Abituato, per sfida e per cultura a ritrovarsi spesso dalla parte sbagliata, pensai di procedere controcorrente rispetto alla totalità dei colleghi impegnati a celebrare i proclami di guerra dei cattivi maestri in tuta bianca: e così, dopo essermi beccato sul fianco una manganellata tirata alla cieca da un agente al primo contatto con gli antagonisti, un po’ prevenuto chiesi a quei poliziotti la possibilità di seguirli come un’ombra, di registrare le loro sensazioni, di raccontare l’altra faccia degli scontri che avrebbero fatto storia. Non mi dissero di sì, e nemmeno di no. Non lo sapevo ma erano gli uomini super addestrati del famoso (“famigerato”, direbbero i no global) Settimo Nucleo, il fiore all’occhiello di tutti i reparti mobili. Mi ritrovai così in mezzo a loro a vivere un’esperienza allucinante che cambierebbe a chiunque il modo di pensare e di vedere le cose.
Trascorsi le successive sette-otto ore nell’inferno di una violenza a senso unico – quella del Blocco Nero – che non credevo possibile. Non è retorica, e nemmeno piaggeria, ma per abusare di Blade Runner ho visto davvero cose che certi opinionisti e sinistri parrucconi non possono lontanamente immaginare. Ho visto ragazzi, i suoi ragazzi, signor capo della Polizia, piegarsi in due a colpi di pietre e bastonate. Ho visto i caschi della Celere frantumarsi al contatto con le biglie d’acciaio. Ho visto divise prendere fuoco insieme a chi le indossava. Li ho visti piangere dal dolore, soffocare nei loro stessi gas lacrimogeni, chiedere aiuto e soccorso ai compagni. Ma soprattutto li ho visti ogni volta risorgere, rialzarsi miracolosamente, ricompattarsi a mo’ di testuggine, battere sugli scudi per ritrovare coraggio, rincorrere ombre anche se azzoppati, ingaggiare nuovi scontri, rispondere alle offese senza mai infierire quando al loro posto – lo confesso – li avrei presi tutti gratuitamente a mazzate. Li ho visti andare al macello in settanta contro 500/600, mi sono detto ma chi glielo fa fare, ho pensato alle loro mogli e ai figli a casa, e più avanzavano malconci e fieri verso quel muro d’odio e più pensavo che a gente così bisognerebbe dargli cinquemila euro d’aumento, minimo. Al termine di quella giornata ho visto una città distrutta, bruciata, disorientata, avvolta dal fumo nero, stuprata da migliaia di animali. Quel che ho visto l’ho raccontato senza filtri e preconcetti. Ma l’indomani, leggendo i giornali, pensavo d’aver vissuto un incubo coi responsabili di quella guerra civile osannati e coccolati e i difensori dello Stato umiliati e maltrattati. Ci fu la Diaz, è vero, con lo schifo che alcuni poliziotti senza nome fecero all’interno. Ci fu la tragedia di Carlo Giuliani, ucciso per legittima difesa da un carabiniere terrorizzato dall’orda di barbari invasati sulla camionetta incastrata. Ci fu anche una gestione dell’ordine pubblico penosa. Ma le devastazioni, i danneggiamenti, i saccheggi, gli assalti, i pestaggi, i 20 milioni di euro di danni, i 170 poliziotti e carabinieri portati all’ospedale, che fine avevano fatto?
Ecco. La storia oggi si ripete, signor Capo della Polizia. Perché la storia, talvolta, non insegna niente e quando concede il bis si diverte a indurre in errore chi dovrebbe restarne immune. Dispiace che a commetterlo, stavolta, sia stato Lei, nella fretta di dare del «cretino» a un suo poliziotto che avrà anche sbagliato a calpestare un manifestante (sarà la magistratura a stabilire se l’ha fatto apposta) ma che – assieme agli altri suoi colleghi – per ore ha subìto di tutto, come ogni giorno subiscono all’inverosimibile sui monti della Tav o allo stadio, in un crescendo d’ansia e adrenalina senza eguali. La base del Corpo è in rivolta per le sue parole, i sindacati di polizia l’hanno criticata ferocemente, il prefetto di Roma ha detto cose ovvie e naturali che i suoi uomini si aspettavano da Lei, il ministro Alfano ieri ha difeso il Corpo con parole che da decenni non si sentivano al Viminale. Non faccia finta di non ascoltare quelle voci. Anche se nella sua lunga e brillante carriera ha combattuto (bene) il crimine organizzato senza occuparsi mai della piazza, dia presto un segnale a chi rifugge il pensiero unico della polizia cilena. Come scriveva Sun Tzu nell’Arte della guerra, un vero leader non comanda con la forza ma con l’esempio.
I PROPRI INTERESSI COME IDEOLOGIA, di Ernesto Galli della Loggia
Pubblicato il 28 febbraio, 2014 in Costume, Politica | No Comments »
Un Paese ha bisogno di élite e al tempo stesso di una burocrazia. E come esistono élite ed élite , così esistono burocrazie innovative e burocrazie arteriosclerotizzate: ha fatto bene Giuliano Amato a sottolinearlo nella sua intervista di lunedì al Corriere . Solo un micidiale semplificatore come Lenin o forse un addicted al blog di Beppe Grillo possono pensare che per amministrare uno Stato possa bastare l’esperienza di una cuoca (anche se alla cuoca il primo era pronto ad affiancare il plotone d’esecuzione, mentre il secondo forse è disposto, più mitemente, ad accontentarsi di Internet).
Il problema dunque non è burocrazia sì o no. Nel caso dell’Italia il problema è innanzitutto un problema di formazione e di reclutamento.
Le burocrazie che danno buona prova di sé sono dappertutto quelle reclutate su base rigidamente meritocratica: cioè attraverso corsi di studi seri ed esami severi. L’esempio classico continua a essere (pur con qualche smagliatura) la burocrazia francese con le diverse Alte Scuole alle sue spalle. La prima defaillance del nostro sistema sta proprio qui. Da noi, infatti, non solo a cominciare dal curriculum scolastico e universitario il criterio del merito è virtualmente scomparso, ma veri esami d’ingresso degni di questo nome si fanno ormai esclusivamente in pochissime amministrazioni. Ancora resiste bravamente, ad esempio, la Banca d’Italia, ma già gli Affari esteri e la Magistratura – dove una volta entrare costituiva una prova non indifferente, e dove la carriera e la progressione retributiva non conoscevano l’anzianità – si sono arrese ai tempi nuovi.
In questo vuoto di meritocrazia il fattore decisivo da cui sempre più dipendono ingresso e carriera nell’alta burocrazia è diventato il mix formato da origine sociale, relazioni familiari e politica. Si tratta di un mix micidiale. Per due ragioni. Da un lato perché di fatto così si sancisce l’esclusione dall’élite del Paese di coloro che provengono dalle classi meno abbienti e comunque meno favorite, realizzando una selezione di tipo classista non in base alle capacità, che è l’opposto di quanto dovrebbe avvenire in una democrazia (e di quanto, tra l’altro, avveniva e in non piccola misura nel Regno d’Italia. Alberto Beneduce, grand commis degli anni Trenta, ad esempio, che ebbe nelle sue mani metà dell’economia italiana e la cui grande opera Amato giustamente ricorda, era figlio di un tipografo napoletano).
La seconda ragione sta nel fatto che con una burocrazia la quale, essendo di scarsa qualità e potendo vantare pochi meriti propri, dipende dalla politica per il proprio reclutamento, per la sua ascesa ai vertici nonché – nel caso dei luoghi di comando ministeriale, dei gabinetti, degli uffici legali, ecc. – per il restarvi un numero illimitato di anni, con un simile stato di cose va ovviamente a farsi benedire la necessaria distinzione tra politica e amministrazione. La seconda, che deve tutto alla prima, non avrà mai il coraggio di prenderla di petto e di opporsi con forza alle sue ragioni in nome dell’interesse generale – come invece sarebbe necessario. Ne diventerà invece serva, anche se naturalmente una serva padrona. Cioè l’alta burocrazia si abituerà – dietro l’ossequio formale ai politici – a fare in realtà soprattutto il proprio comodo e il proprio interesse, a tessere le proprie relazioni, favorire i propri amici, in ultimo accrescere il potere dei suoi membri. Dando vita per l’appunto a quella oligarchia di cui oggi soffre l’Italia. Fonte: Il Corriere della Sera
E’ L’ORA DELLA GENERAZIONE DEI BRAVI RAGAZZI, di Aldo Cazzullo
Pubblicato il 13 dicembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »
In politica – titolano tg e giornali – è l’ora dei quarantenni. Ma, a ben vedere, è un ricambio più profondo quello che si annuncia, è un’altra generazione ancora quella che si affaccia alla vita pubblica. La generazione che si potrebbe definire dei «bravi ragazzi».
Enrico Letta non è certo un volto nuovo: nel 1998 era già ministro. Angelino Alfano ha quattro anni di meno, ma non si direbbe: le grisaglie, l’eloquio che ricorda i principi del foro siciliani, l’ormai lunga militanza politica ne fanno un veterano. Ma alle loro spalle avanzano i veri giovani, volti più freschi di quelli – da tempo entrati nella sfera mediatica – di Matteo Renzi o di Giorgia Meloni.
La nuova segreteria del Pd, scelta un po’ frettolosamente, può senz’altro essere criticata per la sua «leggerezza». Allo stesso modo, la ricerca di nuovi talenti avviata da Berlusconi non ha ancora dato i risultati attesi. Essere giovani non basta; la preparazione e l’esperienza saranno sempre requisiti fondamentali. Però sarebbe ingeneroso ridurre le novità che avanzano al solo dato anagrafico. I volti che andiamo scoprendo in questi giorni non sono semplicemente di bell’aspetto; dietro ci sono persone normali, di modi garbati, di buoni studi, insomma ragazze e ragazzi come quelli che vediamo festeggiare le lauree nelle città universitarie, cercare tra grandi difficoltà un lavoro, tentare di costruirsi una famiglia e un futuro. Non figli d’arte né del Partito. Volti in cui i nonni possono riconoscere i propri nipoti, i padri i propri figli.
È importante che le nomenklature, a sinistra come a destra, avvertano la necessità di cambiare, di avviare un rinnovamento che non sia solo di facciata ma coinvolga i comportamenti, i profili, le storie, il linguaggio. Mai il discredito della politica è stato così alto, mai il suo fascino così basso. I talenti migliori non se ne sentono attratti. Molti cittadini non ne vogliono più sapere: non a caso tutti i talk show perdono audience. I parlamentari sono visti come alieni che vivono un’altra vita e discutono di altre cose rispetto alla gente normale. In queste circostanze, investire di responsabilità giovani che hanno appena compiuto trent’anni, che hanno figli piccoli o in arrivo, significa finalmente distogliere lo sguardo dalle contrapposizioni ideologiche, e rivolgerlo a un avvenire che non sia l’eterno ritorno di cose già viste e già sentite.
Del resto, nelle aziende innovative, nelle start up , nel mondo delle nuove tecnologie è frequente (non soltanto all’estero) vedere ai posti di comando persone giovani o molto giovani. E per un ragazzo che ancora non vota, ed è tentato di non farlo mai, un trentenne al potere non è un esperimento azzardato ma un fratello maggiore che finalmente si assume le proprie responsabilità. Abituati come siamo a classi dirigenti inamovibili, distanti, talora disoneste, avvezze a cooptare figli e famigli tagliando fuori tutti gli altri, sbaglieremmo a liquidare come inadeguati i compagni di strada di Renzi – compresi quelli che non appartenevano alla sua corrente – e coloro che emergeranno dallo scouting in corso a destra. L’importante è che, oltre a sembrare e – si spera – essere «bravi ragazzi», sappiano coltivare la profondità. Il ricambio generazionale, di cui ogni Paese ha bisogno, non è mai un fatto soltanto anagrafico, non consiste nel mettere semplicemente un giovane al posto di un anziano; significa fare cose nuove o fare le cose di ieri in modo diverso. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 13 dicembre 2013
CLASSI DIRIGENTI E COSCIENZE SPORCHE: CRONACHE DALLA PALUDE
Pubblicato il 17 novembre, 2013 in Costume, Cronaca | No Comments »
Non qualche organo dello Stato italiano, ma l’amministrazione della Marina degli Stati Uniti (si può aggiungere «a nostra vergogna» o è un’espressione esagerata?) si è data cura di elaborare i dati più aggiornati sull’inquinamento ambientale a Napoli e in Campania. I risultati sono noti grazie all’ Espresso : in pratica, chi si azzarda a bere l’acqua del rubinetto da Capodichino a Caserta lo fa a suo rischio e pericolo. Risultato: i giornali si agitano, i napoletani si preoccupano, il loro ineffabile sindaco minaccia azioni legali (immagino contro Obama). Non sembra però che in complesso ci sia una reazione molto diversa da quella che c’è stata una settimana fa, quando si è appreso che secondo un celebre capocamorrista in galera, coloro che abitano nelle medesime zone di cui sopra nel giro di venti anni saranno tutti morti di cancro a causa dei rifiuti tossici che la sua organizzazione ha riversato lì per anni. Profezia che peraltro – come ha raccontato benissimo sul Corriere di ieri Gian Antonio Stella – si sta già puntualmente avverando. In entrambi i casi costernazione, indignazione, ma tutto finisce lì. Il Sud può andare in malora, l’Italia sembra avere altro a cui pensare.
In altri tempi, quando al Parlamento sedevano rappresentanti veri delle popolazioni, e non burattini paracadutati come oggi, fatti del genere (si pensi all’epidemia di colera del ‘73) avrebbero scatenato la loro mobilitazione immediata e una conseguente azione fortissima sul governo. Così come in altri tempi, e sempre per cose del genere, i partiti e le organizzazioni sindacali delle zone interessate avrebbero fatto a dir poco l’ira di dio. Ma allora non c’era il Porcellum . Il Sud c’era ancora come grande questione nazionale. E forse, mi viene da aggiungere, c’era anche un’altra idea d’Italia.
Ma alla fine tutto dipende ancora da noi. Moltissimo è nelle mani dell’opinione pubblica meridionale; molto dipende dal convincimento che essa deve farsi che di questo passo il Mezzogiorno diventerà un posto simile a certi Stati della coca sudamericani. Così come molto dipende dalla capacità dell’opinione pubblica meridionale di resistere alla deprecazione di maniera di coloro che al minimo stormir di fronde sono abituati a strillare contro la «militarizzazione del territorio». Quando invece è proprio da una tale militarizzazione che tanta parte del Sud può aspettarsi la salvezza. Solo con il sostegno di questo nuovo sentimento collettivo lo Stato potrà fare la sua parte. Non servono leggi eccezionali. Serve un controllo capillare delle amministrazioni locali, un’azione continua e penetrante specialmente della Guardia di finanza, serve far funzionare tutto ciò che è pubblico: dai mezzi di trasporto, agli ospedali, alla scuola, alle poste. E servono anche gesti simbolici: per esempio la nomina a Caserta o a Reggio Calabria di un prefetto scelto tra gli alti gradi dei Carabinieri.
Guai a pensare però che sia solo una questione del Mezzogiorno. Lì c’è la testa della Piovra, che dopo essersi alimentata per anni con i rifiuti provenienti perlopiù dal Nord, ora sta allungando anche qui i suoi tentacoli. Essa sa bene, infatti, che l’Italia è una sola. Siamo noi che spesso ce ne dimentichiamo. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 17 novembrfe 2013
……………..Qualsiasi questione ci riporta allo stesso punto di partenza: la necessità di riformulare la legge elettorale, restituendo ai cittadini il diritto-dovere di scegliere da chi farsi rappresentare e agli eletti il dovere-obbligo di ben rappresentare gli elettorie il loro territorio. Altrimenti ciò che denuncia Galli della Loggia si ripeterà all’infinito, senza che alcun se ne senta responsabile. g.
OGNUNO PER SE’, SENZA VERGOGNA, di Antonio Polito
Pubblicato il 15 novembre, 2013 in Costume, Politica | No Comments »
Domani morirà il Pdl. Certo, per rinascere sotto le sembianze di Forza Italia. Ma la nuova-vecchia sigla rischia una scissione prima ancora di nascere. Dobbiamo dunque in ogni caso dare l’addio a un partito venuto alla luce esattamente sei anni fa, il 18 novembre del 2007, su un predellino a piazza San Babila, per diventare il grande partito conservatore che l’Italia non aveva mai avuto. L’idea di riunificare in un unico contenitore tutte le culture (e gli apparati) del centrodestra è miseramente fallita.
Del resto anche il Pd ha così tante volte fallito in questi sei anni di vita la sua missione fondatrice, portare al governo il riformismo italiano, che già è in cerca di un salvatore che lo rifondi, il prossimo 8 dicembre. L’unico partito non ad personam della Seconda Repubblica, ha scritto Mauro Calise nel suo libro Fuorigioco , è morto soffocato dal personalismo di decine di piccoli leader, capaci di dilaniarsi dall’elezione del presidente della Repubblica fino a quella del segretario di Asti, spesso facendo carte false. La rifondazione consiste in questo: diventare un partito personale, sperando che un vero Capo distrugga tutti i capetti.
Bisognerebbe a questo punto parlare di Scelta civica, il partito più giovane; ma lì non si parlano neanche più tra di loro, di che vogliamo parlare? Della Lega, certo, il partito più antico, che si avvia a un congresso fratricida? Oppure dei resti di Alleanza nazionale, il cui conto in banca è sopravvissuto al partito, al punto che forse rifanno il partito per recuperare il bottino?
Ovunque la lotta politica è aspra. Ma in nessun luogo del mondo civile è così intestina, squassa i partiti dall’interno, e produce una tale pletora di cacicchi, cassieri e cantori. I partiti italiani non sono tali perché sono divisi sull’essenziale. Tra le colombe e i falchi del Pdl, per esempio, non c’è una differenza marginale o transitoria: gli uni vogliono stare al governo e gli altri all’opposizione; i primi sognano la democrazia interna, i secondi invocano l’autocrazia. Sono così diversi che se resteranno insieme domani, ricominceranno a litigare dopodomani.
Ovunque la lotta politica non è un pranzo di gala. Ma in nessuna democrazia occidentale i leader non si siedono neanche a tavola. Tra poche settimane nessuno tra i capi dei maggiori partiti italiani starà in Parlamento. Chi volente, chi nolente, Berlusconi, Renzi e Grillo saranno tutti leader extraparlamentari.
Le parole di Giorgio Napolitano, che davanti a papa Francesco ha condannato le «esasperazioni di parte», il «clima avvelenato e destabilizzante», e si è rammaricato di quanto la nostra vita pubblica sia lontana da quella «cultura dell’incontro» che il Pontefice spesso invoca, sono dunque una rappresentazione moderata e perfino generosa dello stato della lotta politica in Italia, nel Parlamento e fuori. Essa in realtà ricorda molto da vicino lo stato di natura descritto da Hobbes, homo homini lupus . Ma si tratta di una danza macabra. Una nazione che perde di vista l’interesse comune prepara la rovina collettiva. L’Italia non ne è distante.Antonio Polito, Il Corriere della Srra, 15 novembre 2013
……Questa la diagnosi, assolutamente esatta, desolatamente esatta. E la terapia? Polito, che sempre più assomiglia nello scrivere all’indimenticabile Montanelli per chiarezza e sintesi, si astiene dall’indicarne una, forse perchè ritiene, giustamente!, che non una sola basterebbe per rimettere su questo Paese, il nostro bel Paese che di bello ha ormai poco, almeno nei costumi e nella società, ma che di terapie ne servono molte e di più e diverse nature. Bell’impiccio non solo per il Paese ma sopratutto per chi ci abita, per scelta o per costitrizione, e a cui tra poco non resterà che un interrogativo: restare o andarsene? Bel dlemma anche questo, purtroppo senza risoluzione. g.
PADRE E MADRE TRASFORMATI IN GENITORE 1 E GENITORE 2: OVVERO LE BALORDAGGINI IN NOME DEL POLITICAMENTE CORRETTO
Pubblicato il 13 novembre, 2013 in Costume | No Comments »
Madre e padre cancellati. Non esistono più. Ora sono stati trasformati in genitore 1 e genitore 2 . Sul libretto delle giustificazioni degli alunni del Liceo Mamiani di Roma la famiglia tradizionale, quella che conosciamo da qualche millennio, è stata abolita con la semplicissima e veloce sostituzione di due sostantivi. Per la verità la tendenza all’annullamento delle differenze tra generi non è una novità. Alcuni paesi come la Francia e la Spagna hanno già adottato forme di espressione più impersonali nei documenti ufficiali. Anche in Italia la proposta è stata avanzata da alcune amministrazioni locali. Nel settembre scorso ha suscitato fortissime polemiche la presa di posizione del ministro per l’Integrazione, Cecila Kyenge , che si era detta favorevole all’abolizione dei termini mamma e papà a favore di genitore 1 e 2 in riferimento alla scelta di una scuola materna di Venezia che ha deciso di cancellare dai moduli di iscrizione i termini mamma e papà.
La scelta del Mamiani viene apprezzata dal portavoce di Gay Center, Fabrizio Marrazzo, perchè in questo modo, afferma, non si discriminano i genitori gay. Marrazzo chiede che tutte le scuole d’Italia seguano l’esempio del Mamiani.
Indignato invece Federico Iadicicco di Fratelli d’Italia. <Una decisione ridicola -attacca Iadicicco- Annullare la denominazione padre e madre non è un fatto burocratico ma mina alle radici la struttura identitaria della persona>. Iadicicco chiede l’intervento del ministro della Pubblica Istruzione <per frenare questa inutile e dannosa boutade propagandistica>.
Ma davvero basta cambiare un sostantivo su un modulo per eliminare le discriminazioni o dall’altro punto di vista minacciare la nostra identità, le nostre tradizioni? Fonte ANSA, 13 novembre 2013
…………..Diciamo la verità, al Liceo Mamiani di Roma, noto per essere stato negli anni che precedettero quelli di piombo la roccaforte degli estremisti di sinistra, del libero sesso con la scusa delle occupazioni sessantottine, delle aggressioni ai ragazzi di destra con la complicità di professori rissosamente rossi, si vuole primeggiare e in attesa che i bambini nascano non dalla donna con l’apporto determinante dell’uomo ma da qualche surrogato (della donna…) ma da qualche alieno, si incomincia coll’immaginare, con l’aiuto della fantasia che non manca agli imbecilli, che, in quel caso, l’alieno non sarà nè donna, nè maschio, ma appunto al più un numero. Il problema, se probelma è, che c’è chi a queste balordaggini ci va dietro. Come la ministra venuta da lontano. g.
MEDIOEVO ALLA ROVESCIA: LA CROCE AL COLLO OFFENDE L’ISLAM.
Pubblicato il 12 novembre, 2013 in Costume | No Comments »
Siv Kristin Sællmann, una delle più apprezzate giornaliste della tv pubblica norvegese, non potrà più indossare in video la catenina con la croce che ha fatto imbestialire i musulmani – “Quel simbolo non garantisce l’imparzialità del canale. Offende l’Islam…”