LA BANDA BASSOTTI C0LPISCE ANCORA, di Mario Sechi
Pubblicato il 19 aprile, 2012 in Economia, Politica | No Comments »
È confermato: la Lega è dentro la trama di un romanzo spionistico. Dopo l’oro e i diamanti di Goldfinger-Belsito credevamo di aver visto tutto, e invece… oplà! anche la giornata di ieri ci regala fatti memorabili. Eccoli in serie e cominciate a prendere il calmante: 1. nei documenti sequestrati sull’acquisto di gemme e lingotti compaiono le firme dei parlamentari leghisti Piergiorgio Stiffoni e Rosy Mauro; 2. nella Lega sono al tutti contro tutti e lo prova uno scoop di «Panorama» che rivela l’esistenza di un dossier leghista contro Bobo Maroni, l’unico candidato possibile al posto di Umberto Bossi; 3. Rosy Mauro annuncia a Matrix che non esclude di passare con Beppe Grillo. Che grande spettacolo di nobiltà d’animo. Todos caballeros.
La grana padana si è trasformata in guerra padana. Bruttissima vicenda. Perché è diventata la metafora del nostro sistema politico: una storia di bassa lega dove una specie di «Banda Bossotti» si adoperava per fregare tutti e tutto: potere, soldi, privilegi. È un minestrone rancido, indigeribile per qualsiasi cittadino che tira a campare e deve pagare.
Le lotte fratricide sono da sempre uno degli ingredienti del menù della politica, ma devo ammettere che quella leghista è affascinante per il suo lato trash, il cattivo gusto, il pressappochismo, l’assoluta imperizia, la diffusa ignoranza e la comica irresponsabilità con cui si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Un ex ministro dell’Interno – il titolare del Viminale, uno degli uomini più potenti del Paese per la carica che riveste – viene spiato da alcuni esponenti del suo partito. L’uomo che dispone della polizia finisce per essere dossierato dai suoi compagni d’avventura. Metter su un’operazione di intelligence senza avere un briciolo d’intelligenza non è facile. E infatti i leghisti spioni sono finiti come l’Emmental, pieni di buchi dai quali è uscito di tutto. Il cerchio magico s’è trasformato in circo magico, il figlio di Bossi è diventato una trota in salmì dimettendosi da tutto e forse anche da se stesso, Rosy Mauro è in mutazione perenne, un personaggio tragico che fa la parte del capro espiatorio ma più la cronaca va avanti e più il sospetto che abbia qualche colpa da espiare si materializza. E poi c’è un tal Stiffoni sul quale vale spendere qualche riga: interpellato l’altro ieri dal nostro giornale il senatore aveva negato qualsiasi tipo di relazione con la storia dei lingotti e dei diamanti. Ma ieri abbiamo scoperto che la sua firma compare in un ordine d’acquisto di preziosi fatto dal tesoriere della Lega Belsito. Perbacco, questo qualcosa cambia. Torniamo indietro di 48 ore. Desidero che i lettori si facciano un’idea precisa dei fatti, non voglio far loro perdere niente di questa prelibata portata del menù della nostra politica. Riporto l’istruttivo botta e risposta pubblicato su Il Tempo di ieri con il nostro capo del servizio politico, Alberto Di Majo.
Domanda:«Dicono che lei avrebbe preso alcuni diamanti e lingotti d’oro».
Risposta: «Si, come no, li ho sotto il mio letto».
Di fronte a una risposta così secca il cronista che fa? Prende atto. Stiffoni è granitico nelle sue affermazioni e noi registriamo e riportiamo il virgolettato. «Finalmente uno tosto» chiosiamo io e Di Majo in riunione.
Nella serata di ieri, quello che appariva tosto, si smoscia. E la sua versione dei fatti cambia. Scompare il letto. Compaiono i diamanti. Leggete un po’ cosa dice Stiffoni dopo la diffusione della notizia che c’è la sua firma su un ordine d’acquisto: «In questi anni ho avuto la possibilità di risparmiare del denaro che, d’accordo con i miei familiari, è stato oggetto di investimenti nello scorso mese per proteggerlo dalle fluttuazioni negative dei mercati». Benissimo, tutto regolare, ottimo investimento, da manuale del risparmiatore. Ma non poteva dirci la verità l’altro ieri, caro onorevole Stiffoni? Cosa le costava mettere in chiaro la vicenda da subito? Era così difficile di fronte alle domande di un giornalista informare i lettori – e soprattutto i suoi elettori – delle sue scelte e dire che aveva preso tale decisione? Non mi pare – da quel che lei dice – ci sia nulla da nascondere, semmai da chiarire subito per fugare tutti i dubbi e affermare la sua posizione chiara e non compromessa. E invece no, lei ci ha raccontato una non verità. E ha fatto male. Perché non c’era alcun motivo per essere reticente di fronte alla stampa che fa il suo mestiere e a milioni di votanti del Carroccio che non meritano di essere presi in giro. Né dal fondatore della Lega, Umberto Bossi, né da uno Stiffoni qualunque.
Andiamo avanti. Dove? Alla soluzione politica del problema. La diga ha ceduto, il fiume con i suoi detriti precipita a valle e mi chiedo quanto ancora dobbiamo aspettare per vedere due o tre decisioni serie da parte del Parlamento. I politici di professione pensano che prima o poi quest’ondata di rigetto verso tutto ciò che è preceduto dalla parola «partito» passi e tutto andrà bene madama la marchesa. No, grave errore. Qui abbiamo un sismografo piuttosto attendibile: le lettere e i messaggi dei lettori. Non c’è n’è uno solo che difenda lo status quo. Ci sono invece tante persone ragionevoli, cittadini moderati, che desiderano una reazione credibile, uno scatto, un cambio di passo, un gesto che dia un senso di rinnovamento vero del sistema politico. A giudicare dal tenore di quello che mi scrivono, ancora non è arrivato niente di convincente.
Il governo dei tecnici sta facendo da parafulmine a una situazione di decadimento molto grave. Per questo non ci sono e non ci saranno alternative all’esecutivo di Mario Monti. Serve a «far passa’ a nuttata» ai partiti e poi si vedrà cosa esce dalle urne. Uno tsunami. Non perché sia contro il cambiamento, anzi, ma perché all’orizzonte non vedo nessuna forza politica in grado di assicurare la discontinuità e nello stesso tempo l’equilibrio istituzionale per traghettare la nostra scassata nazione dalla Seconda alla Terza Repubblica. Sarebbe compito dei leader di questi partiti trovare un accordo decente e darci regole nuove con cui votare, scegliere chi deve governarci e assicurare un minimo di stabilità. Ma fanno melina e di lavoro effettivo in Parlamento ne è rimasto poco: sei mesi al massimo, poi sarà tempo di propaganda.
La trattativa sulla nuova legge elettorale – passaggio fondamentale – è in stallo. Tra i guastatori è comparso pure Romano Prodi, al quale la bozza proporzionalista alla tedesca proposta da Alfano, Bersani e Casini non piace. E invece il prof si sbaglia, è un buon compromesso perché le attuali coalizioni sono andate in frantumi e riproporre la grande ammucchiata dell’Ulivo come sogna Prodi è impossibile. O meglio, fattibile, perfino vincente, ma poi assolutamente incapace di governare un Paese con il terzo debito pubblico del mondo e la recessione in corso. Io non ho dimenticato i tempi in cui il governo Prodi era appeso ai voti del senatore sudamericano Pallaro o ai generosi contributi dei senatori a vita. È finita anche quell’avventura progressista come doveva finire: male. E per favore, non concedeteci il bis. Si andrà avanti così, le inchieste sul malcostume politico continureanno. Gli italiani batteranno i pugni sul tavolo, rideranno e guarderanno il calendario in attesa di voltare pagina e arrivare al 2013. Poi si voterà e nel circo del Parlamento ci sarà un’attrazione in più: un Grillo parlante con i suoi grillini. Buona fortuna. Mario Sechi, Il Tempo, 19 aprile 2012
.……Il fatto è che di banda bassotti non c’è solo la Lega, peraltro autotrasformatosi in una specie di banda risolini, ma ci sono le bande che si possono intitolare a tutti i partiti, nessuno escluso. Tutti hanno usato il denaro pubblico per scopi diversi da quelli per cui erano stati dati, tutti hanno violato la legge, tutti hanno investito ii denari dei contribuenti per fini diversi, spesso addirittura malavitosi come dimostra il caso della Lega. In attesa che qualche PM si distragga dallo sport che più piace a certa magistratura - occuparsi di fatti vecchi di 50/60 anni o infilarsi sotto le lenzuola di questo o di quello – e si decida ad aprire un fascicolo a carico di tutti i partiti con l’ipotesi di reato che può andare dalla truffa aggravata al peculato, siano gli stessi partiti a fare un mea culpa collettivo, e a darsi una regolata. BASTA CON I FINANZIAMENTI PUBBLICI, RESTITUISCANO CIO’ CHE RIMANE DI QUELLO PRESO E CHE DETENGONO SENZA TITOLO, E, INFINE, MA NON SECONDARIO, SI CONVINCANO CHE CON MONTI NON SI VA DA NESSUNA PARTE E CHE LA CRESCITA SENZA CONSUMI E’ INIMMAGINABILE, COME SA QUALSIASI STUDENTE AL PRIMO ANNO DI ECONOMIA, E CHE PER INCENTIVARE I CONSUMI E QUINDI FAVORIRE LA CRESCITA LE “IDEE” DI PASSERA SONO ACQUA FRESCA, MENTRE, INVECE, OCCORRE RIDURRE LA PRESSIONE FISCALE, RESTITUIRE FIDUCIA AGLI IMPRENDITORI, AI RISPARMIATORI E AI CONSUMATORI. COME? PER QUESTO SONO LAUTAMENTE PAGATI I PARLAMENTARI…PER TROVARE I RIMEDI E GLI STRUMENTI NECESSARI. ALTRIMENTI CHE SE NE VADANO AL PIU’ PRESTO A CASA. g.


Monti prepara l’Armageddon fiscale e innova i dizionari di Scienza delle Finanze. Siamo passati dalla celebrazione delle «tasse belle», così come le definiva lo scomparso ministro dell’Economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, all’esternazione autobiografica di SuperMario sugli aumenti fiscali, qualificati «rozzi» ma necessari, a suo dire, per non farci fare la fine della Grecia. È l’ultimo capitolo del racconto di un’Italia che dalle gabelle è divisa tra «Guelfi e Ghibellini», metafora usata ieri da Attilio Befera, direttore generale dell’Agenzia delle Entrate. È in atto uno scontro, alimentato dalla politica a corto di consenso e dall’antipolitica senza idee, sul tema dell’evasione. È una piaga enorme che va combattuta, fonte di ingiustizie, disparità, ma è anche un terreno minato. Monti ha gli strumenti per stanare furboni e furbetti, ma credo che a questo punto sia ora di dare agli italiani onesti un Fisco dal volto umano. Ci sono ipocrisie che vanno smascherate e comode «parole d’ordine» della politica che nascondono l’assenza di alternative a una ricetta economica recessiva. Il linguaggio, come sempre, è la cartina di tornasole di una certa «visione del mondo», di un modo di essere e di agire. Quando il presidente del Consiglio dice che per fare la lotta all’evasione «non serve il consenso» perché quello delle parti interessate «non ci sarà mai», tradisce una visione parziale (e distorta) del problema. L’evasione non è tutta uguale, la natura e la qualità dell’attore e del fatto non sono un dettaglio. Faccio un esempio concreto: sono forse uguali l’evasore totale, la grande azienda dedita all’elusione e il piccolo-medio imprenditore che nasconde una quota di utili al Fisco per ragioni di sopravvivenza? Penso di no. Perché l’evasore totale non darà mai il suo consenso e cercherà di stare sommerso finchè potrà, l’elusore ha un livello di sofisticazione e mezzi tali per cui la dissuasione è solo un problema di chiarezza di norme e controlli, l’evasore per necessità ha invece bisogno di una riforma fiscale che lo aiuti a pagare senza rischiare la chiusura. È su quest’ultima fascia, enorme, che lo Stato può ottenere il consenso dando prova di voler aiutare le imprese a emergere, trattando i contribuenti come parte attiva e preziosa e non come avversario. Quando il ministro dello Sviluppo Corrado Passera evoca una «sanzione sociale» contro gli evasori, può strappare un titolo di giornale, ma se vuole alimentare un civile e maturo dibattito pubblico, occorre qualche slogan in meno e due o tre riflessioni in più. È meglio un sistema punitivo, che alimenta l’odio sociale, o è più saggio creare un clima positivo, un sistema fiscale che premia il contribuente virtuoso? L’Agenzia delle Entrate dispone di raffinati strumenti di controllo, inimmaginabili fino a poco tempo fa. Il monitoraggio dei dati può essere pervasivo al punto da creare seri interrogativi sui suoi limiti, come sottolineato dal Garante della Privacy, Francesco Pizzetti, nella sua ultima relazione. Puoi sapere tutto delle abitudini del prossimo, ma è davvero lungimirante spaccare di fatto la società italiana tra quelli che hanno il prelievo diretto in busta paga (i dipendenti) e il sistema delle imprese grandi e piccole che sostituiscono lo Stato come esattore? Bisogna stare attenti ad appiccicare etichette e bollini, specialmente in Italia. In un Paese dove i furbi abbondano e vivono alle spalle di pochi fessi, la catalogazione della società in buoni e cattivi rischia di diventare un boomerang. Mai pensato di dare un’occhiata a quanti nei ministeri incassano lo stipendio pubblico e contemporaneamente esercitano altre attività in nero? Ai fini statistici sono contribuenti buoni, ma in realtà spesso sono cattivi due volte. Conosco economisti di chiara fama che potrebbero fornire interessanti valutazioni in merito. Il doppiolavorismo senza tassazione non è episodico, è un altro aspetto poco esplorato dell’evasione. Con il manicheismo non si va da nessuna parte, anzi in molti casi si ottiene il brillante risultato di dare un bollino da virtuoso a chi di giorno paga le tasse su un lavoro che non svolge bene e di notte froda il Fisco con la vera attività prevalente. È un esempio tra tanti, potrei continuare all’infinito e Passera, avendo fatto banca al più alto livello, sa bene di cosa scrivo. Il Fisco è materia incandescente, nitroglicerina. Se qualcuno non ne è convinto, può fare un salto in libreria e comprare «For Good and Evil. L’influsso della tassazione sulla storia dell’umanità» di Charles Adams, un libro edito da Liberilibri che merita una certa attenzione. Nel presentarlo, Aldo Canovari, fondatore della casa editrice, fa risuonare un memento di rara efficacia e fa notare come i cittadini di una nazione si dividono in due categorie fondamentali: «I Consumatori di tasse (tax consumers) e i Pagatori di tasse (tax payers). I primi rappresentano una minoranza composta dai parlamentari, consiglieri regionali e loro clientele, alti burocrati, vertici degli organi istituzionali, amministratori di aziende e agenzie pubbliche e para-pubbliche, di società partecipate. Il loro numero può essere stimato in un ordine di grandezza di 500.000 individui (circa l’1% dei contribuenti)». L’Italia, mi dispiace, è infestata dai Consumatori di tasse. Questi ultimi, associati agli evasori incalliti, rappresentano la piaga del nostro Paese, ma per curarla occorre che i Consumatori di tasse (cioè un pezzo importante della classe politica e non solo) si mettano al servizio del pubblico e non nella posizione dei serviti dal pubblico. Monti si è finora dimostrato un abile negoziatore con i partiti e un uomo rispettato dalla comunità internazionale, ma questo potrebbe non bastargli se non apre subito una stagione riformatrice sul Fisco. Per almeno due motivi: rinnovare il patto di convivenza tra italiani e agire sulla crescita prima che sia troppo tardi. Quando il premier dice di assumersi la responsabilità di «aumenti fiscali rozzi» dimostra coraggio, ma se fa il paragone tra l’Italia e la Grecia sbaglia, mostra la sua appartenenza alla scuola dogmatica «berlinese», la cui ricetta ha portato la Germania a crescere, ma il resto d’Europa alla recessione. Di questa politica, il caso drammatico di Atene è un paradigma. La Grecia non sarebbe dovuta entrare nell’Euro, ammise di aver falsificato i bilanci e nessuno, né a Francoforte né a Bruxelles, si pose il problema della permanenza nell’Eurozona di uno Stato spendi, trucca e spandi. Anzi, la politica suicida negli anni seguenti è stata incoraggiata perché nel porto del Pireo ormeggiavano le navi-pirata della finanza agli anabolizzanti e sul Partenone s’aggiravano i procacciatori di contratti militari per la difesa tedesca e francese. Atene è carnefice e vittima, ha subito un esproprio di sovranità inimmaginabile per l’Italia che è di certo un gigante debole, ma resta pur sempre la terza economia d’Europa con un livello di benessere che ora – sottolineo, ora – si sta erodendo per effetto della recessione, dell’assenza di produzione di ricchezza e posti di lavoro, mentre il debito sale a causa del crollo del Pil. Fare i blitz a Cortina, Roma, Courmayeur e Firenze ha una sua logica di marketing e comunicazione. Mette tutti di fronte a un fatto: lo Stato ha cominciato a macinare i dati antievasione, a fare controlli incrociati e passare al setaccio il territorio. Per quelli che sul «tanto non succede niente» ci marciavano, è una sveglia salutare. Per quelli che soffiano al contribuente onesto agevolazioni in base al reddito a cui non hanno diritto, è il gong che dovrebbe consigliare di finirla. Ma il rovescio della medaglia è da tenere in seria considerazione: fare impresa in Italia è molto difficile, la burocrazia è un drago vorace e se i controlli vengono accompagnati da un sentimento punitivo e da liste di proscrizione, se al rigore del bilancio e al controllo dell’Erario non si accompagna la riforma delle tasse, avremo solo un micidiale effetto: la depressione da pressione fiscale. Mario Sechi, Il Tempo, 1 aprile 2012
Guardavo un incredibile servizio della Bbc sulla città greca di Perama: il sessanta per cento della popolazione è senza lavoro, gran parte delle famiglie vive di carità per avere cibo e assistenza medica. Se la ricetta del risanamento dell’Europa è questa, tanti auguri. Da tempo rifletto sul caso della Grecia, per me rappresenta un drammatico spartiacque, una deviazione pericolosa nella storia del Vecchio Continente, il segnale che abbiamo imboccato una via (quasi) senza ritorno. Quando a Bruxelles e Francoforte è stato deciso il piano di rientro dal debito di Atene, ho capito che l’Europa ha innescato una reazione a catena dagli esiti incontrollabili. E contagiosi. Osservate quel che sta accadendo in Spagna: il problema numero uno è la disoccupazione (e non il debito) e la Commissione europea si ostina a proporre una ricetta di rigore che produrrà altra recessione. Basta leggere le tabelle che il settimanale The Economist pubblica all’ultima pagina per rendersi conto della natura del problema. Pil e occupazione sono la sfida. Recessione, disoccupazione e alta pressione fiscale sono il veleno che sta uccidendo l’Europa. E per queste ragioni la ricetta teutonica dell’austerità non funziona. Il Portogallo si trova in una situazione analoga se non peggiore e l’Italia – nonostante il buon avvio del governo Monti – rischia grosso perché sul fronte della crescita nulla finora è stato fatto. Abbiamo un tessuto imprenditoriale straordinario, fortemente reattivo, ma senza più credito da parte del sistema bancario. La produzione industriale è crollata, i prezzi al consumo stanno salendo, il tasso di disoccupazione (in particolare tra i giovani e le donne) sta per varcare la soglia del dieci per cento. Sono questi i numeri che bisogna guardare e lasciar perdere – prima che sia troppo tardi – il dogma del pareggio di bilancio, la corda alla quale rischiamo di impiccarci. La nostra pressione fiscale è troppo alta e l’evasione un cancro. Non è possibile che solo l’uno per cento degli italiani dichiari più di centomila euro l’anno di reddito. È una grande truffa che deve finire. Quando Sergio Marchionne anticipa un mese di marzo catastrofico per la Fiat (meno quaranta per cento) c’è da mettersi a pensare perché l’auto è ancora un pezzo fondamentale del nostro Pil. Quando i suicidi di imprenditori e lavoratori senza paga non sono più episodici, vuol dire che stiamo per arrivare a un punto di non ritorno. Quel che mi colpisce è un diffuso sentimento di rassegnazione, misto alla protesta rabbiosa e confusa. Non fa parte della storia di questo Paese lasciarsi andare alla vertigine e i ministri (l’ultimo della serie è Corrado Passera) non devono dare interviste inutili per raccontarci che c’è la recessione. Questo lo sappiamo, stare al governo vuol dire dirci come ne usciamo. Mario Sechi, Il Tempo, 31 marzo 2012




