NON FACCIAMOCI PROCESSARE NELLE PIAZZE E NELLE AULE, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 17 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »

Sintesi del primo round post elettorale. Primo: la magistratura conquista la seconda carica dello Stato grazie all’elezione a presidente del Senato di Piero Grasso, già pm e procuratore antimafia. Secondo: i comunisti, con Laura Boldrini (una terzomondista, giustizialista e arrogante) si prendono la terza carica, quella di presidente della Camera. Terzo: i grillini dell’antipolitica si concedono subito il più classico dei riti politichesi, l’inciucio: grazie ad alcuni di loro infatti Bersani ha ottenuto i voti necessari per fare eleggere Grasso al Senato. Quarto: Monti si è definitivamente bruciato dimostrandosi per quello che è: un pasticcione egocentrico e incapace che dopo quella elettorale incassa un’altra umiliazione, tentando inutilmente di farsi eleggere presidente del Senato. Quinto: chi nel Pdl pensa ancora che con tutta questa gente si possa dialogare o cavare un ragno dal buco esce scornato: noi liberali saremo soli a difendere i nostri diritti, le nostre libertà e il nostro presidente Silvio Berlusconi, inseguito anche ieri da pm impazziti.

Morale: magistrati e comunisti, con l’aiuto di quel furbetto in malafede di Grillo, dopo aver preso possesso delle istituzioni ora proveranno a prendere quello del Paese. Non c’è progetto politico, solo la voglia di sovvertire il risultato delle elezioni togliendo di mezzo il centrodestra che alla vigilia era stato dato per morto ma che nelle urne morto non era. Non ce la faranno, perché governare è un fatto politico e non aritmetico, ma è sicuro che le proveranno tutte.
Ieri, nel suo discorso di insediamento, Piero Grasso ha ricordato Aldo Moro, di cui ricorreva l’anniversario del sequestro. Ha detto, il neopresidente del Senato, tante parole retoriche sullo statista ucciso dalle Br, ma ha volutamente omesso quelle più importanti, urlate da Moro in faccia a magistrati e giustizialisti: «Sia chiaro a tutti, la Dc non si farà processare nelle piazze e nelle aule». Un altolà che calmò gli animi e riportò buonsenso. Ecco, rompiamo noi i troppi silenzi e l’omertà dello smemorato neopresidente del Senato: attenti, noi moderati e liberali non ci faremo processare nelle piazze e nelle aule. Perché la questione la si risolve nelle urne. Anche se la piazza, sia chiaro, non ci fa paura e se sarà il caso sapremo usarla. Il Giornale, 17 marzo 2013

.………..E, aggiungiamo noi, non possiamo consentire che il cenrodestra venga vilipeso da qualche giornalistina da quattro soldi. E’ accaduto oggi, in Tv, su RAI 3, nell’intervista ad Alfano da parte della signora Annunziata, che vanta tanti meriti ma ovunque sia andata ha collezionato altrettanti flop. Costei, saccente e sprezzante, rivolta ad Alfano che rivendicava al centrodestra il diritto di indicare il nuovo Capo dello Stato dopo l’occupazione militare del Parlamento da parte del PD e la elezioni degli ultimi tre capi di stato di sinistra, la giornalista,   dipendente del servizio publico, pagato e pagata  con i soldi dei contribuenti italiani, tra cui i 10 milioni di elettori che appena due settimane fa hanno votato centrodestra, si è permessa di definire “impresentabile” il centro destra. Incalzata da un furente e pur calmo Alfano che ironicamente, ma non troppo, le ha chiesto dall’alto di quale cattedra etica si fosse permessa di insultare il centrodestra, la balbettante giornalista si è giustificata citando il caso della “marcia” dei parlamentari del PDL dinanzi al Tribunale di Milano. Una toppa peggiore del buco. Perchè quella di “marciare”  è un diritto  sacrosanto di tutti e quello di farlo davanti al Tribunale di Milano altrettanto e altrettanto lo è quello di entrare nel Tribunale di Milano che giudica ed emette sentenze “in nome del popolo italiano” del quuale i parlamentari sono gli unici, legittimi rappresentanti. Lo ha ricordato con forza Alfano, che però, per buona educazione, forse, ha dimenticato di invitare la giornalista che si issa da sola sul podio delle ovvietà che forse le conviene fare ripetizione della Cosituzione in nome della quale c’è chi, come oggi  la Annunziata, sciorina incredibili corbellerie. g.

LA NON POLITICA E I SUOI CALCOLI, di Ernesto Galli Della Loggia

Pubblicato il 17 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »

Con l’elezione alla presidenza delle Camere di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, grazie ai voti della coalizione di sinistra animata dal Partito democratico, che li aveva eletti – si consuma definitivamente quella lunga storia della Sinistra italiana che per settant’anni ha avuto al suo centro l’esperienza comunista, e della quale quel partito è stato fino a oggi in qualche modo la prosecuzione.

Una lunga storia, dicevo: che nei decenni passati ha visto già sedere sul più alto scranno di Montecitorio quattro suoi eminenti rappresentanti: Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Basta per l’appunto ricordare quei nomi per misurare l’ampiezza senza misura della frattura che oggi si consuma a sinistra. Non si tratta delle idee. È ovvio che i valori e le visioni del mondo delle persone che oggi sono investite delle due massime cariche parlamentari siano molto diversi da quelli dei loro predecessori ricordati sopra. Ma ciò che innanzitutto colpisce è quanto siano sideralmente distanti le rispettive biografie. In sostanza, infatti, nelle biografie degli attuali presidenti del Senato e della Camera non ha il minimo posto la politica; che invece è stata la vita e la passione inesausta degli altri.

Intendo la politica come scontro di idee, esperienza di conflitti sociali, come elaborazione di strategie di lotta, come partecipazione ad assemblee elettive e pratica nell’attività deliberativa e legislativa: nulla di tutto questo c’è nel passato di Grasso o di Boldrini. Non si tratta di stabilire se ciò sia un bene o un male. Quel che importa notare è che qui c’è un punto di diversità assoluta rispetto a quella che per decenni, viceversa, è stata la vita concreta (e aggiungo l’ideale di impegno civile) degli uomini e delle donne che si sono riconosciuti nella Sinistra. Alla quale peraltro non risulta che fino a ieri né l’uno né l’altra abbiano mai detto di appartenere. Si può allora forse dire che l’elezione di Grasso e di Boldrini segni non tanto una vittoria dell’antipolitica quanto piuttosto, in senso proprio, della non politica.

È come se quella Sinistra che viene da lontano (e la parte cattolica che da tempo le si è aggiunta) si fosse convinta di non poter più trovare al proprio interno, nella propria storia, né volti, né voci, né biografie capaci di rappresentarla veramente. Come se essa giudicasse ormai irrimediabilmente inutilizzabile la propria vicenda politica, vicina e meno vicina: in un certo senso le proprie stesse radici. Rifiutatasi dopo essere stata comunista di divenire socialdemocratica, e sempre in preda all’antica paura di dispiacere a sinistra, la cultura politica del Partito democratico sembra aver smarrito il filo di qualunque identità che si colleghi al suo passato. Sicché oggi le è apparso naturale designare ai vertici della rappresentanza del Paese da un lato un importante membro della magistratura inquirente, dall’altro una apprezzata funzionaria internazionale, impegnata nella difesa dei diritti umani.

Certo, dietro tale designazione c’era evidentemente anche un calcolo politico. Quello che, presentando candidature ben viste a sinistra, il Pd riuscisse finalmente ad agganciare i grillini, nella speranza di portarli domani ad appoggiare il tentativo di un governo Bersani. A tale obiettivo è stato consapevolmente sacrificato vuoi ogni residuo rapporto con il Centro di Monti, vuoi ogni eventuale avvio di negoziati armistiziali con il Pdl e con la Lega. È quanto mai dubbio, però, che una manciata di voti grillini per il presidente Grasso annunci davvero una conversione del Movimento 5 Stelle e l’alba di un nuovo ministero. Assai più probabile, dopo questa giornata, è che sull’orizzonte italiano si allunghi, invece, solo l’ombra di elezioni anticipate.

L’ELEZIONE DI PAPA FRANCESCO UNA SCELTA GEOPOLITCA COME QUELLA DI WOJTYLA, di Vittorio Messori

Pubblicato il 14 marzo, 2013 in Storia | Nessun commento »

(Ansa)

Mi scuso di cominciare con un episodio personale. Ma, come si vedrà, sullo sfondo c’è un problema molto grave che riguarda la Chiesa intera e con il quale, dunque, Francesco dovrà confrontarsi in modo prioritario. Spero dunque mi sia perdonato l’apparente personalismo.

Nel mese trascorso dalla fatidica ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, l’11 febbraio, innumerevoli colleghi sia italiani sia stranieri mi hanno chiesto una previsione sul cardinale che i confratelli avrebbero eletto come successore di Benedetto XVI. Sempre, senza eccezione, mi sono schermito, a nessuno ho risposto, ricordando che a un cristiano non è lecito tentare di rubare il mestiere allo Spirito Santo; e rievocando episodi, vissuti di persona nella redazione dei giornali, in cui le indicazioni dei papabili da parte degli esperti erano state regolarmente smentite. Per questo motivo, pur scusandomi, non ho partecipato a quella sorta di divertissement dei colleghi del Corriere che, sorridendo, hanno indicato ciascuno una loro terna.

Ho fatto una sola eccezione al riserbo che mi era imposto con un collega – che è anche un vecchio amico e col quale ho scritto un libro sulla fede – Michele Brambilla, ora a La Stampa ma formatosi in questo nostro quotidiano e buon conoscitore dei problemi religiosi. Chiedendogli di tenere per sé la cosa, sino a Conclave concluso, gli ho proposto scherzosamente di farmi da notaio e gli ho affidato un nome, uno soltanto: Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. L’amico collega mi ha telefonato anche ieri, sotto il diluvio di piazza San Pietro dove attendeva la fumata e mi ha ricordato quella previsione, chiedendomi se la confermavo: gli ho detto che mi sembrava di poterlo fare. Michele mi ha ricordato che Bergoglio non era tra coloro che la maggioranza dei colleghi dava come papabile: almeno in questo Conclave, mentre in quello che elesse Joseph Ratzinger pare sia stato colui che ebbe il maggior numero di voti dopo l’eletto. Ma otto anni sono passati, il cardinal Bergoglio ha ormai 76 anni, tutti attendevano un Papa nel pieno delle forze. Un limite che qualcuno aveva fissato sotto i 65 anni. Tra l’altro, sarebbe stato il primo gesuita a divenire Papa, dignità alla quale la Compagnia non ha mai mirato, secondo la raccomandazione del fondatore Ignazio. Eppure, insistetti su quella candidatura argentina.

Doti da indovino, confidenze del Paraclito, collegamenti occulti con le Sacre Stanze cardinalizie? Macché, non facciamola grossa, solo un poco di conoscenza della realtà della Chiesa attuale. Avevo infatti spiegato all’amico: «In Conclave, dove si conosce la condizione della Chiesa nel mondo intero, si potrebbe decidere per una scelta «geopolitica», come fu per Karol Wojtyla. Una scelta fortunata: non soltanto si ebbe uno dei migliori pontificati del secolo, ma si gettò nel panico la Nomenklatura dell’Unione Sovietica e di tutto l’Est che prevedeva guai, da un Papa polacco. Non sbagliava nello spaventarsi. In effetti, vennero Walesa, Solidarnosc, i cantieri Lenin di Danzica, gli scioperi operai che per la prima volta un regime comunista non osò reprimere nel sangue. Fu quella la crepa che, allargandosi, alla fine fece cadere tutti i muri dell’Impero. Ma nulla sarebbe stato possibile senza un Pontefice polacco, e di quale tempra e prestigio!, che sorvegliava e consigliava dal Vaticano». Ebbene, continuavo nel ragionamento, oggi una scelta geopolitica potrebbe rivolgersi in due direzioni: chiamare alla cattedra di Pietro il primo cinese nella storia che partecipi a un Conclave, l’arcivescovo di Hong Kong, John Tong Hon. Il panico, stavolta, non sarebbe a Mosca o a Varsavia ma a Pechino, nella capitale della superpotenza del futuro, dove il governo – non potendo estirpare i cattolici, coriacei alle persecuzioni – ha tentato di creare una Chiesa nazionale, staccata da Roma, nominando persino i vescovi. E i credenti fedeli al Papa sono ridotti alla clandestinità. come continuare a tenerli nelle catacombe o nei lager, con uno dei loro divenuto Papa?


Ma la Chiesa non ha mai fretta, giudica secondo i tempi delle «lunghe durate», come dicono gli storici degli Annales, il turno della Cina verrà probabilmente in un prossimo Conclave allorché, come capita in tutti i regimi totalitari, il sistema comincerà il declino e sarà indebolito, pronto per il colpo di grazia. E in questo, di Conclave? In questo, pensavo, c’era spazio per un’altra scelta geopolitica e stavolta davvero urgente, anzi urgentissima, anche se in Europa non si conosce la serietà dell’evento. Succede, cioè, che la Chiesa romana sta per perdere quello che considerava il «Continente della speranza», il Continente cattolico per eccellenza nell’immaginario comune, quello grazie al quale lo spagnolo è la lingua più parlata nella Chiesa. Il Sudamerica, infatti, abbandona il cattolicesimo al ritmo di migliaia di uomini e donne ogni giorno. Ci sono cifre che tormentano gli episcopati di quelle terre: dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, l’America Latina ha perso quasi un quarto di fedeli. Dove vanno? Entrano nelle comunità, sette, chiesuole degli evangelicals, i pentecostali che, inviati e sostenuti da grandi finanziatori nordamericani, stanno realizzando il vecchio sogno del protestantesimo degli Usa: finirla, anche in quel Continente, con la superstizione «papista». Occorre dire che i grandi mezzi economici di cui quei missionari dispongono attirano i molti diseredati di quelle terre e li inducono a entrare in comunità dove tutti sono sorretti anche economicamente. Ma c’è pure il fatto che le teologie politiche dei decenni scorsi, predicate da preti e frati divenuti attivisti ideologici, hanno allontanato dal cattolicesimo quelle folle, desiderose di una religiosità viva, colorata, cantata, danzata. Ed è proprio in questa chiave che il pentecostalismo interpreta il cristianesimo e attira fiumane di transfughi dal cattolicesimo. Dunque, i padri del Conclave probabilmente avrebbero valutato l’urgenza di un intervento, secondo un programma proposto e gestito da Roma stessa, insediandovi come Papa uno di quel Continente.

Ma l’emorragia riguarda soprattutto il Brasile e l’America delle Ande: perché, se Papa sudamericano doveva essere, perché un argentino, un arcivescovo di un Paese meno toccato dalla fuga verso le sette? Probabilmente ha giocato il fatto che il cardinal Bergoglio (a parte l’alta qualità dell’uomo, la preparazione teologica, l’esperienza) è al contempo iberoamericano ed europeo. La sua è una famiglia di immigrati recenti dall’astigiano, l’italiano è la sua seconda lingua materna: poiché per la Chiesa non sono urgenti solo i problemi di oltreatlantico ma anche quelli di un riordino energico della Curia, occorreva un uomo che sapesse fronteggiare certe situazioni vaticane. Insomma, non una predizione la mia, un semplice ragionamento. Molti altri ragionamenti saranno necessari, a cominciare dalla scelta del nome, Francesco, inedito nella storia del papato. Ma l’ora è tarda, il tempo stringe. Ci sarà tempo per riprendere il discorso. Vittorio Messori

BENVENUTO AL NUOVO PAPA: FRANCESCO, L’UMILE CARDINALE JORGE MARIO BERGOGLIO

Pubblicato il 13 marzo, 2013 in Storia | Nessun commento »

Joge Mario Bergoglio

Jorge Mario Bergoglio, gesuita, Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina), Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina e sprovvisti di Ordinario del proprio rito, è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936. Ha studiato e si è diplomato come tecnico chimico, ma poi ha scelto il sacerdozio ed è entrato nel seminario di Villa Devoto.

L’11 marzo 1958 è passato al noviziato della Compagnia di Gesù, ha compiuto studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Facoltà di Filosofia del collegio massimo San José di San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è stato professore di letteratura e di psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fe e nel 1966 ha insegnato le stesse materie nel collegio del Salvatore di Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 ha studiato teologia presso la Facoltà di Teologia del collegio massimo San José, di San Miguel, dove ha conseguito la laurea. Il 13 dicembre 1969 è stato ordinato sacerdote. Nel 1970-71 ha compiuto il terzo probandato ad Alcala de Henares (Spagna) e il 22 aprile 1973 ha fatto la sua professione perpetua. E’ stato maestro di novizi a Villa Barilari, San Miguel (1972-1973), professore presso la Facoltà di Teologia, Consultore della Provincia e Rettore del collegio massimo.

Il 31 luglio 1973 è stato eletto Provinciale dell’Argentina, incarico che ha esercitato per sei anni. Fra il 1980 e il 1986 è stato rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Nel marzo 1986 si è recato in Germania per ultimare la sua tesi dottorale; quindi i superiori lo hanno destinato al collegio del Salvatore, da dove è passato alla chiesa della Compagnia nella città di Cordoba come direttore spirituale e confessore. Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno ha ricevuto nella cattedrale di Buenos Aires l’ordinazione episcopale dalle mani del Cardinale Antonio Quarracino, del Nunzio Apostolico Monsignor Ubaldo Calabresi e del Vescovo di Mercedes-Lujan, Monsignor Emilio Ogénovich. Il 3 giugno 1997 è stato nominato Arcivescovo Coadiutore di Buenos Aires e il 28 febbraio 1998 Arcivescovo di Buenos Aires per successione, alla morte del Cardinale Quarracino.

E’ autore dei libri: Meditaciones para religiosos del 1982, Reflexiones sobre la vida apostolica del 1986 e Reflexiones de esperanza del 1992. E’ Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina che non possono contare su un Ordinario del loro rito. Gran Cancelliere dell’Università Cattolica Argentina. Relatore Generale aggiunto alla 10/a Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2001). Dal novembre 2005 al novembre 2011 è stato Presidente della Conferenza Episcopale Argentina. Dal Beato Giovanni Paolo II creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001, del Titolo di San Roberto Bellarmino.

.……….La preghiera per Papa Benedetto XVI, la preghiera per Lui, la preghiera per il mondo: così si è presentato, emozionato e umile, al popolo  romano e straniero che gremiva Piazza San Pietro e alle centinaia di milioni di credenti che alla notizia della fumata bianca, alla quinta votazione del Conclave, lo  hanno seguito dinanzi alle televisioni di tutto il mondo, il nuovo Papa, il cardinale di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio che ha preso il nome del Santo Patrono d’Italia, Francesco, il primo Papa ad assumere questo nome, dopo i  265   che si sono seduti sul trono di San Pietro.

FUMATA NERA, LA PIAZZA VOLEVA ILMIRACOLO, di Sarina Biraghi

Pubblicato il 13 marzo, 2013 in Costume | Nessun commento »

Fumata nera nel primo giorno di Conclave. Era scontata eppure emozione e delusione non sono mancate. Non soltanto per chi, malgrado la pioggia, era in piazza San Pietro a fissare quel comignolo. Anche chi ha seguito in tv sperava di vedere un pennacchio bianco illuminare la notte romana. Basta attesa, il mondo voleva il miracolo. Invece ieri, a un mese esatto dalla rinuncia di Benedetto XVI, con una fumata nera (e poi si sono spente anche tutte le luci di San Pietro) è iniziato il Conclave. Un evento che è riuscito a mettere la sordina al resto delle notizie, seppur importanti, per il nostro Paese. Alla politica sguaiata (protesta Femen compresa) si è preferita la preghiera, la celebrazione, i riti solenni che precedono l’elezione di sua Santità.

«Spondeo, voveo ac iuro», cioè «prometto, mi obbligo e giuro», hanno ripetuto, alcuni con la voce incrinata, i 115 principi della Chiesa. E mentre nuvole minacciose avvolgevano il «Cupolone», i Cardinali con la mano sul Vangelo aggiungevano: «Così Dio mi aiuti e questi Santi Evangeli, che tocco con la mia mano». Poi, dopo l’extra omnes, il cigolante portone della Cappella michelangiolesca si è chiuso con un rimbombo inquietante. Per chi stava fuori ma probabilmente anche per chi è rimasto dentro.

Non sarà facile per i Cardinali eleggere il successore di Benedetto XVI, un Pontefice che dovrà riformare la Curia ma anche rimediare a quel deficit di testimonianza da parte della Chiesa su gravi problemi, come la pedofilia. Sarà un Papa dal «cuore generoso» ha auspicato il cardinal Sodano celebrando la messa «pro eligendo Pontifice» ma comunque dovrà dar vita al cambiamento e alla discontinuità che i cattolici si aspettano. Anche se la sua elezione fosse il frutto di un compromesso con la Curia, il prossimo papa dovrà mettere in pratica il Concilio Vaticano II, passando dalle parole ai fatti, proprio in questa fase storica in cui si celebra l’anno della Fede.

Gli elettori porporati, al cospetto del Giudizio Universale del Buonarroti e guidati dallo Spirito Santo sapranno scegliere tra di loro la persona più adeguata a sopportare il peso del ministero petrino, a «governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo con il vigore sia del corpo sia dell’animo». Quelle caratteristiche che l’anziano e stanco Ratzinger aveva umilmente ammesso di non avere più. I Cardinali dovranno trovare una rinnovata forma di unità attorno al nuovo Pontefice che sentirà su di sé tutto in una volta, nell’attimo stesso in cui gli chiederanno se accetta l’incarico, il peso delle decisioni per il resto dei suoi giorni. Lui, eletto dopo un’abdicazione che dovrà convivere con un Pontefice Emerito, potrà piangere nella stanza delle lacrime. I suoi fedeli piangeranno di gioia alla vista della fumata bianca che annuncerà al mondo: «Habemus Papam». Sarina Biraghi,  Il Tempo, 13 marzo 2013

LA MARCIA DELLA LIBERTA’, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 12 marzo, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Era dal 1980 che i moderati non scendevano pacificamente in piazza. Era ottobre e 40mila dirigenti della Fiat sfilarono per le vie di Torino contro i sindacati che avevano paralizzato la fabbrica con scioperi, picchetti e violenze quotidiane.

Chiedevano, i dirigenti, la libertà di lavorare. Ieri erano solo, si fa per dire, in duecento, quanti sono i deputati e senatori del Pdl. Hanno marciato su Palazzo di giustizia di Milano per manifestare contro quella magistratura che ha sferrato un attacco micidiale per togliere dalla scena politica Silvio Berlusconi. Ormai siamo oltre l’accanimento, c’è chiara la volontà di umiliare un imputato, di farlo passare per malato immaginario quando fior di specialisti di fama internazionale giurano sulle precarie condizioni del suo cuore e dei suoi occhi.
Il clima d’odio montato dalle Procure ha raggiunto livelli da barbarie e pericolosamente coinvolto anche gli specialisti che hanno in cura il presidente. Insulti e minacce non stanno risparmiando neppure il professor Zangrillo, primario del San Raffaele e medico privato di Berlusconi, al quale invece andrebbero le scuse della Boccassini per aver messo in dubbio le sue diagnosi, confermate ieri pomeriggio dai periti medici nominati dal tribunale.
Quel far west che era la Fiat di trent’anni fa, e che originò la marcia silenziosa dei giusti, è molto simile al far west di oggi delle Procure: abusi, arbitri, violenze, la legge sterzata a uso e consumo personale da parte di una categoria, quella di pm politicizzati, che per ben 24 volte negli ultimi 18 anni ha dato l’assalto a Berlusconi senza riuscire a ottenere una sola condanna definitiva tanto erano infondate le accuse.
La manifestazione di ieri ha placato per qualche ora la furia delle toghe, nonostante da Napoli sia arrivata la richiesta per un nuovo processo. Ma per andare oltre occorre tenere il problema sul piano politico. Serve un segnale forte di pacificazione che ripristini un senso di giustizia e di garanzia per gli oltre otto milioni di italiani che hanno appena riconfermato fiducia in Silvio Berlusconi e nel Pdl. Oggi il segretario Alfano ne parlerà con il presidente Napolitano, dal quale ci si aspettano parole importanti. Altrimenti la battaglia, oltre che nelle piazze, si sposterà in Parlamento con forme e modi drastici. Perché, come dimostrato ieri, senatori e deputati del Pdl non sono più disposti, finalmente, a sopportare oltre. Nel caso, e per quel poco che conta, avranno tutto il nostro appoggio. Il Giornale, 12 marzo 2013

………………La marcia dei 40 mila dipendenti della Fiat,  lungo le strade di Torino, per lo più operai e quadri, stanchi delle soperchierie dei sindacati rossi fu un segnale ma anche la tromba che suonò la carica della riscossa della gente comune che voleva lavorare  e anche più semplicemente non subire le angherie di prepotenti che si nascondevano dietro il paravento sindacale per nascondere la loro indole e i loro obiettivi. La “marcia” segnò uno spartiacque nella storia italiana, ponendo fine alla stagione delle violenze rosse che avevano insanguinato il Paese. Ora c’è un’altra la violenza, quella che che taluni pm politicizzati perpetrano nelle aule di giustizia, trincerandosi dietro l’autonomia dell’ordine giudiziario  e  talvolta dietro il principio della obbligatorietà dell’azione penale per sferrare attacchi inauditi ai dirigenti e milianti di destra. Autonomia che spesso invece sono gli stessi magistrati a violare e l’obbligatorietà dell’azione penale che vale verso alcuni ma non per tutti. Ciò accade anche perchè l’ordine giudiziario non è sottoposto ad alcun controllo ma ad un organo interno alla giustizia, il che rende spesso problematico ottenere per loro ciò che essi chiedono per i comuni cittadini: rispetto della legge e prima ancora rispetto per il bene più prezioso, cioè la libertà personale. E’ di queste ore la notizia, clamorosa, che le fotografie che avrebbero dovuto inchiodare Ottaviano Del Turco, all’epoca del suo clamoroso e scenografico arresto, presidente dell’Abbruzzo, alle sue responsabilità di percettore di tangenti,  non  mostravano un bel niente benchè il procuratore dell’Aquila assicurò  che la loro visione era la prova decisiva. Oggi in Aula l’avvocato di Del Turco ha mostrato le foto nelle quali non è ritratto  un bel niente per cui la prova regina è svanita nel nulla, mentre restano le accuse di un imprenditore che da subito apparve poco credibile ma le cui accuse, si disse, erano suffragete da prove. Prove oggi svanite mentre resta la gogna mediatica cui fu sottoposto Del Turco, costretto a dimettersi e ridotto in carcere come un malfattore. Nessuno conosce l’esito del processo ma sin d’ora ci chiediamo: quel procuratore che sulla scorta di fotografie inesitenti ordinò l’arresto di Del Turco pagherà per il suo errore? E’ solo questa, o almeno questa,  la riforma che vogliamo della giustizia. Che paghino anche i magistrati che sbagliano, come qualsiasi altro. g.

BARBARI, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 10 marzo, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

Se dei presunti intellettuali, come è successo ieri dalle colonne di Repubblica, fanno un appello a un comico capo partito, allora vuole dire che il Paese è davvero alla frutta. Vedere questi tromboni di sinistra alla Barbara Spinelli in ginocchio davanti a Grillo è un vero spettacolo: ti preghiamo, ti scongiuriamo, sostieni Bersani, dicono in lacrime. Non hanno coraggio né dignità, sono uno scarto della società che ha solo paura di perdere per sempre. Via Berlusconi, avevano pensato, finalmente tocca a noi. E invece niente, si ritrovano appesi al pollice di Grillo strozzati nella loro boria.

Non meritano ascolto. Sono patetici, pensano di rappresentare un Paese che esiste solo nei loro salotti e nei loro giornali. E nelle Procure che assetate di sangue pensano di poter sparare il colpo alla nuca a Silvio Berlusconi. Quello che è successo ieri a Milano va oltre l’accanimento, siamo alla barbarie, a un Piazzale Loreto due punto zero. Berlusconi è malato in ospedale, fior di primari hanno certificato la sua impossibilità a presenziare all’ennesimo processo. Niente, i periti del tribunale hanno ammesso la malattia ma sostengono che se trasportato in ambulanza, l’ex premier può essere domani in aula. Lo vogliono finire anche fisicamente, da Napoli rimbalza la voce di una possibile richiesta di arresto sul caso dei parlamentari di sinistra passati al centrodestra. Se ci sarà una nuova campagna elettorale, come probabile, Berlusconi dovrà essere o morto o in galera, perché così hanno deciso. E non importa che nella sola ultima legislatura 161 parlamentari abbiano cambiato casacca per motivi più o meno nobili in base a un diritto costituzionale (non esiste il vincolo di mandato).

Non importa che Prodi non cadde per il tradimento di De Gregorio (il parlamentare passato col centrodestra e finito sotto inchiesta) ma per un’inchiesta giudiziaria di tale pm De Magistris, oggi sindaco di Napoli, che coinvolgeva l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Ormai la verità non conta, sono bestie che sentono l’odore del sangue del nemico braccato e ferito e hanno la bava alla bocca. Vogliono esibire il corpo di Berlusconi, ma cercano tutti noi, i nostri ideali e le nostre libertà. Sono dei pazzi, nel senso clinico della parola, vanno fermati. Possiamo farlo solo noi alzando la voce. Non so che cosa deciderà di fare Berlusconi. Il mio consiglio non richiesto è di non consegnarsi, non arrendersi. Se sarà necessario combattere, lo faremo. Per noi, oltre che per lui. Il Giornale, 10 marzo 2013

……La prima Repubblica cadde per mano di un analfabeta, la seconda per mano di un superburocrate, la terza, appena nata,  rischia di cadere per mano di un manipolo di giudici, tutti aspiranti Vysinskij, il famigerato pubblico ministero di Stalin che mandò a morte decine di migliaia di oppositori del feroce  dittatore russo. Ma se tutto ha un limite, a noi sembra che questo limite sia stato raggiunto e ampiamente superato. Il PDL,  se c’è,  anche oltre la preparazione  delle liste dei nominati, questo è il momento di dimostrarlo. g.


GRAZIE GIUDICI…. BERLUSCONI ORA PRENDERA’ PIU’ VOTI

Pubblicato il 9 marzo, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »

La persecuzione giudiziaria contro Silvio Berlusconi non s’arresta dinanzi a nulla. Neanche dinanzi a certificati malesseri agli occhi che secondo medici diversi da quelli ospedalieri dove è ricoverato Berlusconi non impediscono a Berlusconi di parteciapre oggi ,a differenza di ieri, all’udienza in corso per il processo d’appello per i diritti Mediaset per il quale in primo grado Berlusconi è stato condannato a 4 anni e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Non v’è chi non constati il particolare accanimento di certa “giustizia” che fa durare un modesto contenziosi civile anche una quindicina d’anni tra rinvii, scioperi, sospensioni… Ma Berlusconi è diverso. Da vent’anni assistiamo ad una speciale caccia alla volpe dove la volpe è Berlusconi e i suoi cacciatori  agiscono in nome e per conto…. E’ una inciviltà giuridica senza precedenti, come altrettanto incredibile è la pretesa dell’Associazione magistrati che vorrebbe  proibire il libero esercizio della protesta da parte della gente, dei circa 10 milioni di elettori che appena 2 settimane fa hanno tributato consenso e fiducia a Berlusconi dimostrando così di non fregarsene più di tanto di cosa lui faccia sotto le lenzuola di casa sua sotto le  quali invece prurigionosi pubblici ministeri si sono infilati a curiosare. L’accanimenmto è così evidente che di per sè è ragione per cui chi lo ha votato lo continuerà a votare. E a giugno, se si vota a giugno o comunque quando si voterà di nuovo, Berlusconi, non il PDL, ma Berlusconi,  prenderà più voti di quanti non ne ha presi lo scorso 24 febbraio: anche questo è un modo per  esprimere la protesta contro un sistema che fa acqua da tutte le parti e si autoassolve perseguitando in maniera così sfacciata Silvio Berlusconi al quale oggi, più di ieri, esprimiamo la nostra solidarietà. g.

…….Credo che Madame Boccassini  muoia dal desiderio di  sbattere Berlusconi in galera e buttare via la chiave…….ma dopo averlo fatto non rischia di  rimanere senza il suo hobby preferito? non rischia di  rimanere  senza il suo LAVORO preferito?  e poi con chi se la prenderà? quale sarà più la sua ragione di vita? come farà senza fare  la caccia a Berlusconi? dovrà poi essere costretta a ritornare a fare quello che deve fare un magistrato? ma forse quello  è un ruolo che non le si addice più…. signora Boccassini la prego lasci stare altrimenti potrebbe stare male e ammalarsi…….POI LE MANDANO LA VISITA FISCALE!  Francesco.

IL FANTASMA SENZA TEMPO, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 6 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »

Chi pensa che la democrazia necessiti di governi forti, dotati di tutti gli strumenti istituzionali necessari per attuare le proprie promesse elettorali, è un pericoloso golpista, un fautore di disegni autoritari, un nemico della «vera» democrazia? Da più di trenta anni è sempre a questa domanda che siamo inchiodati tutte le volte che insorgono conflitti intorno a progetti di riforma costituzionale. Oggi, una classe politica con un piede nella fossa (come Grillo, graziosamente, le ricorda ogni giorno), potrebbe avere interesse a non dare a quella domanda la risposta che è fin qui sempre prevalsa.

Senza una radicale ristrutturazione delle loro offerte politiche, centrosinistra e centrodestra non riuscirebbero a invertire la corrente, a riconquistare i consensi perduti. Ma la ristrutturazione dell’offerta politica è possibile solo se vengono cambiate le regole del gioco. Diversi editorialisti di questo giornale hanno ricordato, nei giorni seguiti alle elezioni, che la condizione di stallo in cui siamo potrebbe essere avviata a soluzione, se si realizzasse uno scambio virtuoso (fra sistema maggioritario a doppio turno e semi-presidenzialismo). Se si trovasse la volontà politica, basterebbero pochi mesi per fare tutto. Poi si tornerebbe a votare.
Ma occorrerebbe un consenso almeno sul fatto che la democrazia necessiti di quella stabilità che solo governi istituzionalmente forti sono in grado di assicurare, e che maggioritario e semi-presidenzialismo servono a quello scopo.
La Costituzione vigente fu redatta quando incombeva il fantasma del tiranno e il Paese era spaccato fra comunisti e anticomunisti. Si scelse di costruire un sistema di governo fondato sulla permanente debolezza degli esecutivi. E da lì non ci siamo mai schiodati. La fine della Guerra fredda aprì una «finestra di opportunità»: la riforma elettorale maggioritaria dei primi anni Novanta doveva favorire un cambiamento della forma di governo ma poi, con il fallimento della Bicamerale (il mancato accordo fra Berlusconi e D’Alema nella Commissione per le riforme costituzionali presieduta da quest’ultimo nel 1997), quella finestra si richiuse. Forse ora, proprio perché si trova con le spalle al muro, la classe politica potrebbe finalmente fare ciò che non seppe fare allora. Per riuscirci dovrebbe sconfiggere radicati e diffusi pregiudizi. Secondo i quali è un bene che l’Italia, unica fra le grandi democrazie europee, manchi dei requisiti istituzionali necessari per dare stabilità e forza ai governi.
Tutte le volte che la nostra forma di governo viene messa in discussione, nel Paese parte la mobilitazione dei «Giù-le-Mani-dalla-Costituzione-Boys» (acronimo: GMCB), una variopinta compagnia di ultraconservatori, spesso travestiti da progressisti, afflitti da inguaribile provincialismo. Così provinciali da non essersi mai degnati di studiare seriamente costituzioni e prassi degli altri grandi Paesi europei.
A riprova del fatto che non basta intervenire sulla legge elettorale per uscire dai guai si consideri la questione del bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri). È oggi quasi impossibile per chiunque (fanno fatica a farlo persino i GMCB) difendere un simile obbrobrio. Ma perché i venerandi costituenti si macchiarono di tale colpa? Erano forse stupidi o pazzi? Non lo erano.
Il bicameralismo simmetrico serviva al loro scopo, era coerente con il disegno costituzionale nel suo insieme, quello che condannava l’Italia ad avere sempre governi istituzionalmente debolissimi. Assicurando alle varie frazioni parlamentari, grazie anche al bicameralismo simmetrico, i margini di manovra e la chance per stravolgere ogni decisione governativa.

Una cosa è il potere (che a nessun Parlamento può essere negato) di respingere i provvedimenti del governo, tutt’altra cosa è il potere di stravolgerli sistematicamente, di svuotarli dall’interno. È questo potere che la nostra Costituzione esalta. Per inciso, Mario Monti voleva dire proprio questo quando, qualche mese fa, affermò che i governi non dovrebbero essere alla mercé dei Parlamenti, suscitando la reazione sdegnata dei tedeschi (i quali però non sanno che il loro Parlamento non ha lo stesso potere che ha il nostro di «conciare per le feste» i governi, di fare carne di porco dei loro provvedimenti). Le tanto lodate riforme del lavoro che fece a suo tempo il governo Schröder in Germania sarebbero impossibili in Italia (come si è visto nella vicenda della riforma del lavoro targata Fornero). Due Camere con uguali poteri erano, e sono, una garanzia di governi sempre in balia di qualunque frazione, o sottofrazione, parlamentare, e di massima lentezza e inefficienza dei processi decisionali. Più in generale, la debolezza istituzionale dell’esecutivo era, ed è, una assicurazione contro gli eventuali pruriti riformatori di questo o quel governo.
E naturalmente i regolamenti parlamentari vennero costruiti in modo coerente con il disegno costituzionale di cui sopra: fortunate, ad esempio, sono quelle democrazie (parlamentari o semi-presidenziali) in cui quasi nessuno ricorda i nomi dei presidenti delle Camere in carica, talmente irrilevanti, istituzionalmente e politicamente, sono le loro funzioni.
Basterebbero pochi mesi per dare alle istituzioni quella forza e quella efficienza la cui mancanza, alla fine, ha pesantemente e pericolosamente logorato la Repubblica. Non ha senso rassegnarsi a quel logoramento solo per fedeltà alle scelte contingenti (e, all’epoca, giustificate) di uomini – i costituenti – che uscivano da venti anni di dittatura. Il Corriere della Sera, 6 marzo 2013

.…….E’ sacrosanto: prima della riforma della legge elettorale, è necessaria  ed improcastinabile la riforma dell’assetto istituzionale dello Stato e dei poteri del governo. Altrimenti non si esce dall’imbuto, o, come ha scritto ieri Ainis, dall’ingorgo. Sono le cose che va dicendo da tempo Berlusconi il quale ha un  demerito ed un merito. Il demerito è quello di aver fatto saltare nel 1997 il tavolo delle riforme presieduto da D’Alema, il più “cattivo” dei postcomunisti ma anche il più intgelligente. Il merito è quello di aver varato (nonostante e contro Casini e Fini) alla fine del quinquenio 2001-2006 la riforma costituzionale (che tra l’altro poneva fine al bicameralismo perfetto,  oggi lamentato da Panebianco) che però non avendo ricevuto il suffragio dei due terzi del Parlamento dovette essere sottoposta al referendum confermativo che invece non la confermò. E quasi dieci anni dopo ci ritroviamo al punto di partenza, anzi all’interno di un tunnel del quale non si intravede nè la fine nè la luce, come coferma il rifuto poche ore fa di Bersani ad un governo che coinvolga il PDL , finalizzato appunto alle riforme, senza delle quali nè si governa, nè si ferma il populismo, questo si davvero tale, di Grillo. Insomma siamno al 1997, con i due contendenti che non trovano la “quadra”, direbbe Bossi, a tutto discapito degli italiani. g.

L’INGORGO DELLE SCELTE, di Michele Ainis

Pubblicato il 5 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »

L’ingorgo delle scelte

Un vecchio regolamento ferroviario del Kansas innalzava un monumento alla prudenza: «Quando due treni s’incrociano sul medesimo binario devono fermarsi entrambi, e nessuno dei due può ripartire se non sia prima ripartito l’altro». Eccola qui, in questa norma paradossale e assurda, la fotografia dello stallo in cui ci siamo ficcati. Ma il paradosso investe pure il capostazione, non soltanto noi viaggiatori immobili. Perché è a lui, Giorgio Napolitano, che tocca dirimere l’ingorgo; e perché il Quirinale è a sua volta intrappolato in un ingorgo, dato che a metà aprile le Camere si riuniranno per eleggere il nuovo presidente. Qualora viceversa il nuovo coincidesse con il vecchio, tireremmo un respiro di sollievo; ma difficilmente il Parlamento ci farà questo regalo.

Da qui, allora, una domanda: e se fosse il successore di Napolitano a cresimare il premier battezzato dal suo predecessore? Situazione inedita, ma niente affatto impossibile. Per metterla a fuoco, osserviamo l’orologio della crisi: 12 o 15 marzo, prima convocazione delle Camere. A quel punto bisognerà eleggerne i rispettivi presidenti, e non sarà una passeggiata; poi costituzione dei gruppi, delle commissioni, delle giunte. Diciamo che la settimana dopo, a essere ottimisti, sul Colle può iniziare il valzer delle consultazioni. Quali? Quante?
A occhio e croce, c’è da aspettarsi un triplo giro. Prima quelle di Napolitano coi partiti, e con le personalità di cui reputerà utile il consiglio. Ma se i partiti gli dipingeranno un quadro politico ostaggio dei veti incrociati (probabile, se non proprio sicuro), al presidente non resterà che conferire un mandato esplorativo, per favorire la decantazione della crisi. D’altronde Napolitano ne ha già fatto uso: nel gennaio 2008, quando si rivolse a Marini, all’epoca presidente del Senato.

Dunque nuove consultazioni dell’esploratore, questa volta ristrette all’essenziale. Poniamo che riesca il gioco di prestigio, che un coniglio sbuchi fuori dal cilindro: c’è un personaggio che ha buone chance d’ottenere la fiducia, sicché riceve l’incarico di formare il gabinetto. Lui si riserva d’accettare, perché così vuole la prassi; e intanto verifica i numeri con un altro giro di consultazioni. E tre. Dopo di che torna al Quirinale per sciogliere la riserva, decidere i ministri, prestare giuramento; ma salendo le scale del palazzo, può capitargli di venire accolto da un nuovo padrone di casa. Come una fanciulla promessa in matrimonio, la quale – giunta ai piedi dell’altare – scopra che lo sposo è un altro uomo rispetto al fidanzato.

Disse una volta Bobbio: «La nostra storia costituzionale si è svolta attraverso un continuo alternarsi di crisi di governo (spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto brevi)». Lui si riferiva alla Prima Repubblica, segnata da 50 crisi di governo in cinquant’anni; ma quella diagnosi può forse valere anche per la Terza, di cui scorgiamo nel frattempo un’alba livida, spettrale. Dove i fantasmi s’inseguono l’un l’altro senza mai riuscire ad acciuffarsi: il Pdl stringerebbe un accordo col Pd, che invece lo stringerebbe con il M5S, che invece si divincola. Da qui l’oroscopo sulla durata della crisi: toccammo il record nel 1996, dopo la caduta del governo Dini (125 giorni), e magari stavolta lo supereremo. Ma da qui, inoltre, il rischio d’uno slalom del nuovo premier fra due capi dello Stato.

Diciamolo da subito: non sarebbe una tragedia. Perché le istituzioni sono abitate da persone, però al contempo sono anonime, spersonalizzate. Le persone passano, le istituzioni restano. E perché Napolitano, quando conferirà un mandato, non potrà certo scegliere in base alle proprie simpatie. No, dovrà indicare chi sia in grado di coagulare attorno a sé una maggioranza; e tale qualità dipende dal mandatario, non dal mandante. Semmai il paradosso deriva da una regola del galateo istituzionale, fin qui sempre rispettata (l’unica eccezione risale al 1849). Quella che impone all’esecutivo di dimettersi dopo il giuramento del capo dello Stato, che a sua volta respinge poi le dimissioni. Sicché il nuovo governo dovrà bussare comunque alla porta del nuovo presidente, dovrà ottenerne la benedizione; e sia pure a costo di spegnersi e riaccendersi come un fiammifero. Ma il problema è tutto lì: trovare un cerino, e dargli fuoco. Michele Ainis, Il Corriere della Seea, 5 marzo 2013