ELEZIONI AMERICANE: ROMNEY ALLUNGA IN FLORIDA, IN BILICO OBAMA

Pubblicato il 21 ottobre, 2012 in Politica estera | Nessun commento »

Alla immediata vigilia del terzo ed ultimo dibattito tra i due sfidanti alla presidenza degli Stati Uniti Romney continua ad avanzare nei sondaggi, nonostante la buona prova data dal presidente nel secondo faccia a faccia. Un sondaggio Gallup dà lo sfidante addirittura avanti di 7 punti a livello nazionale, mentre due rilevazioni sulla Florida confermano che il presidente è indietro nel più importante Stato in bilico. La situazione a pochi giorni dall’ultimo dibattito, lunedì a Boca Raton, in Florida (in Italia saranno le tre del mattino di martedì) è difficile per Barack Obama. Ma a livello di Stati chiave la bilancia pende ancora. sia pur di poco,  verso il presidente. in carica.

I sondaggi negli Stati chiave sono utili per simulare cosa succederebbe se si votasse oggi.

IL SISTEMA ELETTORALE USA
Il dato nazionale infatti non è tutto, quando si parla di elezioni Usa. Infatti l’inquilino della Casa Bianca viene eletto con un sistema su base statale. E a fare la differenza sono pochi Stati chiave.

Come è noto, essendo gli Stati Uniti una repubblica federale, il sistema elettorale è su base statale. Questo significa che i voti dei cittadini non finiscono virtualmente in una stessa urna, ma in 50 urne diverse, una per ogni Stato, sulla base del quale si assegnano dei delegati. Gli Stati più popolosi eleggono più “grandi elettori”, come vengono chiamati. Per essere eletti, un candidato deve ottenere almeno 270 grandi elettori su 538.

Essendo quindi molti degli Stati “nettamente democratici” o “nettamente repubblicani”, tanto che quei delegati si considerano già assegnati a un candidato a meno di sorprese o rivoluzioni, il numero di Stati in bilico che possono decidere l’elezione è molto limitato. E spesso sono sempre gli stessi.

LA SITUAZIONE
In questa fase, nella sfida tra Barack Obama e Mitt Romney, sono solo sette gli Stati che esperti e sondaggisti considerano in bilico (tossup, come si dice in inglese) o quantomeno contendibili.

Si tratta di Florida (29 grandi elettori), Pennsylvania (20), Ohio (18), North Carolina (15), Virginia (13), Colorado (9), Nevada (6), Iowa (6) e New Hampshire (4). Ovvero 120 grandi elettori in ballo.

IL FRONTE DEMOCRATICO – 227 grandi elettori
Gli Stati considerati saldamente in mano ai democratici sono New York, California, Oregon, Washington, New Mexico, Illinois, Maine, Vermont, Massachussetts, Rhode Island, Connecticut, New Jersey, Delaware, Maryland, District of Columbia, Minnesota, Hawaii, Michigan, Wisconsin. Questi Stati valgono al momento 227 grandi elettori.

IL FRONTE REPUBBLICANO - 191 grandi elettori
Il Great Old Party può contare invece su una solida maggioranza in Texas, Alaska, Montana, Idaho, Utah, Arizona, Wyoming, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Kansas, Oklahoma, Arkansas, Louisiana, Alabama, Georgia, South Carolina, West Virginia, Kentucky, Tennessee, Mississippi, Indiana e Missouri. Questi Stati, numerosi ma in gran parte poco popolosi, valgono 191 grandi elettori.

LA SIMULAZIONE: ELETTO OBAMA
In questa situazione, Obama rimane a un passo dall’elezione: dei 120 grandi elettori in ballo, gliene bastano 43 per rimanere alla Casa Bianca ma Romney può  batterlo.

I sondaggi   in questi Stati  infatti dicono che ovunque Romney è in netto recupero:

In Florida, Romney avanti di almeno un punto;
In Ohio: Obama +3%;
In North Carolina: Romney +3%;
In Virginia, è parità;
In Colorado, Obama avanti di poco;
In Nevada, Obama +3%;
In Iowa, Obama +4%.
In New Hampshire, Obama +1,5%
In Pennsylvania, Obama +5%

Alla luce di questi dati conterà molto l’ultimo dibattito e sopratutto cosa decideranno  di votare i tanti indecisi che, collocati al centro, sceglieranno all’ultimo minuto e faranno la differenza, specie negli stati in bilico, nei quali, come appare dalla tabella sopra riportata,  il vantaggioe/o   lo svantaggio di entrambi i candidati  si aggira intorno al 3%, percentuale considerata da tutti all’interno del margine di errore.

IL COSTRUTTORE PISCITELLI RIVELA A REPUBBLICA UNA STORIA DI TANGENTI E DI AFFARI CHE COINVOLGE LA CASTA, TUTTA!

Pubblicato il 21 ottobre, 2012 in Economia, Giustizia, Politica | Commenti disabilitati

Parla Francesco Piscicelli: “Balducci imponeva tutto, se parla lui viene giù tutta la seconda Repubblica e pure mezzo Vaticano. 

Dall’ex rudere recuperato, i fari interrati che segnano il percorso fra gli ulivi, la piscina di fronte alla camera da letto, si vede l’Isola di Giannutri. A nord la Costa Concordia spanciata di fronte al porto del Giglio. Sul terrapieno in ghiaia, seicento metri sopra il mare, ci sono i resti dell’elicottero con cui Francesco Maria De Vito Piscicelli, il padrone del rudere riattato a resort, portava l’anziana madre a pranzo sulla spiaggia di Ansedonia. Gliel’hanno bruciato 1 alle otto di sera del primo ottobre. L’attentato dopo cinque minacce. Il 29 febbraio scorso l’avevano aggredito in due, scesi dallo scooter mentre Piscicelli camminava telefonando ai Parioli, a Roma. Poi gli hanno spedito in villa all’Argentario tre proiettili, avvolti in un giornale. E l’hanno bloccato mentre saliva in auto lungo la mulattiera sterrata che porta al resort sul Promontorio: “Perché continui a parlare, perché vuoi mettere in crisi il sistema che ti ha sfamato?”, gli hanno sibilato scoprendo sotto il maglione le beretta parabellum. “Fermati o facciamo fuori te e la tua famiglia”. Le sue denunce sono tutte alla caserma dei carabinieri di Orbetello.

Francesco Maria De Vito Piscicelli, due mesi di carcere, undici giorni ai domiciliari, è l’imprenditore edile consegnato all’opinione pubblica, “per sempre”, dall’intercettazione telefonica in cui ride con il cognato del terremoto dell’Aquila, discorrendo con lui dei nuovi lavori che porterà la futura ricostruzione. Francesco Piscicelli, 50 anni, napoletano alto borghese, vicino ad Alleanza nazionale, è stato uno dei quindici costruttori scelti dalla cricca della Ferratella per lavorare al soldo della Protezione civile di Bertolaso. È diventato un collaboratore di giustizia. In otto interrogatori, assistito dall’avvocato Giampietro Anello, ha consegnato alla Procura di Roma il racconto della corruzione pubblica italiana dal 2000 al 2010. Giovedì scorso, ha accettato di parlare con “Repubblica”.

AUDIO Le telefonate Piscicelli-Anemone 4

“Il sistema Protezione civile, la deroga assoluta per ogni appalto pubblico, inizia con il Giubileo del Duemila, l’incontro fra il sindaco di Roma Francesco Rutelli, il provveditore alle Opere pubbliche del Lazio Angelo Balducci e il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Nelle intenzioni pubbliche si doveva creare una macchina che riuscisse a costruire opere in un paese in cui la burocrazia e i veti bloccano tutto, ma nel corso delle stagioni le missioni diventano un sistema di arricchimento personale. Famelico, sfruttato a sinistra e a destra. L’ho visto con i miei occhi, l’ho vissuto dall’interno: una montagna di denaro pubblico per dieci stagioni è stata messa a bilancio per realizzare auditorium, stadi, caserme, svincoli e  e in percentuale è stata trasferita a parlamentari, ministri, sottosegretari, magistrati contabili, funzionari della Protezione civile, alti dirigenti delle Opere pubbliche. Nessuna istituzione, nessun partito, tutto ad personam”.

Lei è accusato di corruzione, Piscicelli. Insieme ai costruttori fiorentini della Btp per l’appalto della scuola dei marescialli e dei brigadieri a Firenze.
“Io ho pagato solo per lavorare, se non lo facevo chiudevo l’azienda che avevo ereditato da mio padre e che sempre ha lavorato con lo Stato. A Firenze ho fatto da intermediario tra il gruppo presieduto da Riccardo Fusi e l’ingegner Angelo Balducci, il grande capo del mattone pubblico italiano. Quelli della Btp, provinciali, rozzi, non riuscivano ad arrivare a Balducci perché il direttore dell’edilizia di Stato, Celestino Lops, li ostacolava, favoriva la Astaldi. Con una telefonata organizzai l’incontro, rimasero stupefatti. Sono stato io a presentare Denis Verdini, coordinatore del Pdl, a Balducci. Fusi trattava Verdini come fosse il suo straccio e usava la banca di Verdini come il suo bancomat”.

Lei ha pagato Balducci per far entrare nell’appalto Marescialli la Btp?
“Ho fatto da intermediario ottenendo da Fusi, in cambio, un prestito da 700 mila euro”.
Quando ha versato tangenti in proprio, Piscicelli? Denaro suo per opere sue.
“Lavoro con Balducci dal 2004. Nei primi cinque anni ho partecipato a trecento bandi pubblici per ottenere due lavori: la scuola di polizia di Nettuno e la caserma della guardia di finanza di Oristano. Per i Mondiali di nuoto di Roma, quelli del 2009, ho partecipato alle cinque gare pubbliche, ho speso 700 mila euro in progettazione e ho vinto Valco San Paolo: avevo preparato un progetto unico in Europa, con luci a soffitto lunghe sessanta metri, e firmato un ribasso del 16,5 per cento. I cinque appalti erano tutti assegnati prima dell’apertura delle buste. Nelle gare bandite dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici, e in particolare quelle della Protezione civile, non c’era notaio, non c’erano vincoli. Tutto nella discrezione del presidente Balducci: poteva assegnare ottanta punti al progetto che voleva spingere. Mi obbligò a chiedere un disegno anche al professor Giampaolo Imbrighi, suo caro amico. Mi costò 50 mila euro. Voleva che partecipassi per forza alla gara per lo stadio del tennis: un finto concorrente della Cosport di Murino e Anemone, destinati alla vittoria. Sulla carta erano gare europee, ma tutti gli appalti erano pilotati da Balducci, il Consiglio superiore ratificava silenzioso”.

Lei chi pagò e quanto?
“Per le piscine di San Paolo, 14 milioni di base d’asta, ho versato tre tangenti. Me ne avevano chieste quattro. Il collettore di denaro per conto della squadra di Balducci, l’ingegner Enrico Bentivoglio, dopo la mia vittoria volle 50 mila euro, il 3 per cento. “Sai, c’è bisogno di accontentare molte persone”. Ventimila furono per la funzionaria Maria Pia Forleo, “ci eravamo sbagliati, serve di più″. Mi spiegavano tutto, si fidavano di me. Poi subentrò Claudio Rinaldi, nuovo commissario ai Mondiali. E  senza ritegno pretese 100 mila euro. Glie li portai all’Hotel de Russie, in via del Babuino. All’interno di un sacchetto di una boutique romana. Mi feci accompagnare dal ragioniere, ha visto tutto. Rinaldi mi disse: “Questo è un acconto, al collaudo mi devi dà dù piotte e mezzo”.
Duecentocinquanta, queste non le ho pagate”.

Lei ha ottenuto l’appalto per una struttura, Valco San Paolo, bandita per 14 milioni, costata 34 e dopo trentanove mesi chiusa e con un pilone fratturato.
“Mi sono disinteressato del destino della piscina. Io ho visto solo nove milioni, altri otto e mezzo me li hanno truffati quelli della Ferratella, i ragazzi di Balducci. Il pilone è solo un assestamento, ma tutta l’opera è stata una corsa folla. Abbiamo dovuto rifare i progetti dell’architetto Renato Papagni, un amico del presidente della Federazione nuoto Paolo Barelli. Carta straccia, un copia e incolla fatto male, le ipotesi di rimozione terra redatte senza criterio. Per dieci mesi abbiamo lavorato 24 ore al giorno e ho dovuto chiedere l’intervento della segretaria particolare di Alemanno per farmi pagare il milione e mezzo di stato di avanzamento lavori. Il Comune di Roma è un casino pazzesco, venirne fuori è stato un miracolo. Durante i lavori, poi, mi si è messo contro il presidente Barelli, il senatore del Pdl. Era furioso perché avrebbe voluto far lavorare aziende vicine in almeno due lotti, Balducci non gli diede nulla. Per ritorsione, ci bocciò il tetto in acciaio e ce lo impose in cemento armato. Diceva che con i vapori caldi delle piscine l’acciaio si sarebbe corroso. Abbiamo dovuto stravolgere il progetto, rifare i calcoli, sovradimensionare i pilastri, comprare altro ferro per armarli. Costi e ritardi. E poi Barelli ci obbligò a lavorare con le aziende specializzate che indicava, costavano il 30 per cento in più. Se non ubbidivamo, minacciava il blocco dei lavori. Mandava avanti il suo ragioniere, Maurizio Colaiacomo. Gli impianti di filtraggio, per dire, li ha fatti tutti la Culligan, a prezzi fuori mercato”.

Al Comune di Roma solo confusione?
“Della Giovampaola mi chiese di portare l’imprenditore fiorentino Valerio Carducci dal sindaco Alemanno. L’appalto per il nuovo palazzo Istat. Non se n’è fatto nulla”.

Angelo Balducci imponeva i suoi uomini?
“Lui imponeva tutto, era il dominus. Non avido, ma corrotto mentalmente, un affascinante gesuita innamorato del potere. In cinque mesi di carcere sono andati a trovarlo settanta parlamentari, una processione. Se parla viene giù tutta la Prima Repubblica e pure mezzo Vaticano. Balducci voleva accontentare tutti, e soprattutto la classe politica. A me ha imposto la ditta che doveva fare gli scavi archeologici, quella per lo sminamento. E pure tre tecnici tra cui lo strutturista Fabio Frasca, figlio di una dirigente del ministero delle Infrastrutture. Frasca ha sbagliato i calcoli per Valco San Paolo, ha preso una normativa vecchia”.

Il rapporto tra Balducci e Anemone?
“Diego Anemone non esiste. È un ex falegname inventato dal capo. Quando scoprite un’impresa di Diego Anemone in un appalto pubblico, vuol dire che sta lavorando direttamente Angelo Balducci. Faceva cassa così, mettendo Anemone dovunque. E affidandogli la gestione del denaro da destinare ai politici”.

Che significa, Piscicelli?
“A Natale, Pasqua e Ferragosto la classe politica italiana batte cassa. Un assedio,  spegnevo il telefonino. Ascolti. Mi chiama Anemone, mi dice che devo versare 150 mila euro, siamo alla vigilia delle feste natalizie. Balducci conferma: “Sì, devi farlo, servono ai parlamentari”. Anemone insiste perché vada da lui, ha l’ufficio in una traversa di via Nomentana. Stanze di pessimo gusto. Spinge una porta scorrevole e  alla vista si rivela un tavolo lungo due metri e quaranta, largo uno. Sopra, un covone di banconote. Quasi tutti tagli da cinquecento. Milioni di euro, mai visto nulla di simile. Con i miei 150 mila nella giacca mi sono sentito un morto di fame, me ne sono tenuti cinquemila. Anemone ha comprato la casa al Colosseo dell’ex ministro Claudio Scajola con un po’ del denaro prelevato da quel tavolo”.

Continua a girarci intorno: parla di tangenti e di politici. Che cosa ha detto ai magistrati?
“Tutto quello che so, che ho visto, che posso certificare. Ho fatto il nome di otto politici di primo piano che hanno preso soldi e servizi dal sistema Balducci”.

E chi sono?
“Non vorrei violare il segreto istruttorio”.

Fino a prova contraria il corruttore è lei.
“Otto dicembre 2007, l’Immacolata, le racconto. Sono con mia moglie e mia figlia al ristorante Nino di via Borgognona: arriva una telefonata, è Mauro Della Giovampaola, funzionario della Protezione civile. “Devi venire alla Ferratella, immediatamente”. Era sbrigativo Della Giovampaola, lasciai la mia famiglia sul flan di spinaci. Gli uffici erano chiusi, ma lui aveva le chiavi. Mi disse categorico: “Devi dirmi che ribasso hai fatto per l’Auditorium di Firenze”. Chiesi perché. “Così vuole il capo”. Se lo diceva Balducci si ubbidiva. Chiamai i miei soci fiorentini, Fusi e Di Nardo, li obbligai a rivelarmelo. Telefonai a Mauro, comunicai il ribasso e gli chiesi perché era necessario. Mi disse: “L’appalto dell’Auditorium deve andare al costruttore Cerasi, lo vuole Veltroni”.
Emiliano Cerasi con la Sac e Bruno Ciolfi con l’Igt presero l’Auditorium. Il 17 febbraio 2010, chiamato in causa da un’intercettazione tra l’architetto Casamonti e il costruttore Di Nardo, Walter Veltroni assicurò: “Come ha già detto il sindaco Domenici, non ho mai esercitato alcun tipo di pressione né su di lui né su altri per qualsivoglia gara”.

Piscicelli, lei partecipò al bando per la realizzazione dell’Auditorium di Isernia, costi lievitati da 5 a 55 milioni, segnalato in rosso dall’Authority dei contratti pubblici.
“A Isernia avevo vinto. Ricordo il giorno in cui, nel teatro di via della Ferratella, si stavano aprendo le buste. Trentun dicembre 2007, le gare truccate si indicono l’ultimo dell’anno, quando gli altri non ci sono. Chiama al telefono il funzionario Bentivoglio. Salgo al piano, mi dice: “Hai fatto un progetto bellissimo, l’appalto è tuo”. Torno in teatro, l’atmosfera è già cambiata. Commissari che si chiamano da parte. Il presidente del concorso dichiara il vincitore: è un’associazione temporanea di imprese guidata dalla molisana Rocco Lupo. Sono secondo. Cerco Bentivoglio, è pallido, ha paura. Riesce a dirmi: “Bertolaso ha chiamato Balducci, Di Pietro ha imposto Lupo, mi dispiace”".

Già chiamato in causa sull’Auditorium di Isernia, Di Pietro il 4 giugno 2010 rispose: “Non sono stato sponsor dell’opera, non so neppure se poi l’abbiano davvero costruita”.

Chi è Guido Bertolaso, un capro espiatorio?
“E’ un megalomane con il complesso di far del bene. Per le responsabilità che ha avuto, la fama che si è creato, non avrebbe mai dovuto vendersi per 50 mila euro. Quella era la sua tariffa: 50 mila euro, per volta. Suo cognato, Francesco Piermarini, con i soldi pubblici destinati al G8 si comprò una barca, “Il lumacone”, per la pesca d’altura con  l’abbattitore per il pesce crudo”.

A Carlo Malinconico ha pagato le vacanze all’Hotel Pellicano di Porto Ercole.
“E’ un uomo di Balducci. Da sottosegretario della presidenza del Consiglio del governo Prodi ha firmato qualsiasi progetto il capo gli portasse, qualsiasi missione, qualsiasi deroga. A occhi chiusi. Balducci nel 2006 mi chiese di occuparmi di lui: “Ci serve come il pane, dobbiamo curarlo in tutto e per tutto”, mi disse durante un aperitivo in piazza San Silvestro. Malinconico voleva uno dei rustici che stavo ristrutturando qui all’Argentario, gli piaceva la vecchia Villa Feltrinelli. Lo accompagnai due volte, ma in cuor mio sapevo che non gli avrei mai regalato un immobile da un milione e due. Per fortuna aveva fretta, l’estate stava arrivando e allora Balducci mi chiese di ospitarlo a spese mie al Pellicano. Malinconico e la sua compagna dal 2006 al 2007ci hanno fatto sei vacanze. Milleottocento a notte, colazione esclusa. Ho pagato fino a quando il figlio del magistrato Toro non ci rivelò che la procura di Firenze stava indagando sulla cricca. “Chiudi il conto, chiudi il conto”. Raggiunsi il Pellicano, saldai 25.600 euro e dissi a Roberto Sciò, il titolare: “D’ora in avanti Malinconico si paga il soggiorno”. Quando la direzione dell’albergo glie lo comunicò, il sottosegretario andò su tutte le furie. Preparò la valigia il pomeriggio stesso e lasciò l’Argentario millantando una nuova nomina. Gli ho chiesto indietro il denaro, mi ha fatto rispondere dagli avvocati: “Piuttosto li do in beneficenza”. Facile fare beneficenza con i soldi miei. Il governo Monti continua a dare incarichi a Malinconico, l’ultimo è arrivato dal ministro Passera”.

Lei ha denunciato anche il magistrato della Corte dei Conti Antonello Colosimo, già capo di gabinetto del ministro dell’Agricoltura Catania.
“Credevo fosse un amico, mi ha taglieggiato dal 2004 al 2008. Ha sempre preteso una tangente, a volte anche del 15%, su tutti i lavori pubblici che facevo e questo perché è stato lui a presentarmi Angelo Balducci. Per anni gli ho pagato auto, autista, l’affitto dell’ufficio in via Margutta. Quando ho smesso mi ha scatenato contro la  finanza. Nel 1992 la politica chiedeva agli imprenditori soldi, ma dava benefici. Oggi la politica, e alcuni funzionari potenti, ti chiedono soldi per non farti male. Alla Ferratella c’è un’impiegata che solo per mandare tre righe di giustificazioni della spesa in Banca d’Italia chiede a ogni imprenditore una tangente di 1.000 euro. Tre righe digitate al computer, mille euro”.

Quanti imprenditori hanno lavorato con la banda Balducci.
“Eravamo in quindici, affidabili. Oggi tra gli emergenti c’è il romano Paolo Marziali, quello che ha realizzato il polo natatorio di Ostia”.

Che resta della banda Balducci?
“Lui lavora ancora, governa ancora. Non credo si salverà dai tre processi che ha in corso, ma fin qui non ha aperto bocca. È tornato a vivere a Roma, in via Appia Pignatelli, e i suoi uomini, Rinaldi, Bentivoglio, Zini, la Forleo, sono ancora al loro posto. Ai magistrati ho raccontato di nuovi funzionari corrotti fin qui non sfiorati”.

E degli otto politici di primo piano, che ha detto?
“Che prendevano soldi, tanti soldi. Non credo, quando tutto diventerà pubblico, e accadrà presto, potranno continuare a far politica. Io ho pagato un milione di tangenti e adesso sono con il culo per terra”.

Venerdì sera l’avvocato Giampiero Anello ha confermato che tutto ciò che l’imprenditore Piscicelli, suo assistito, ha detto in questa intervista è già stato riferito ai magistrati della Procura di Roma. Repubblica, (20 ottobre 2012)

LA STANGATA DI FINE ANNO: RISCHIO DI AUMENTO DELL’IMU

Pubblicato il 21 ottobre, 2012 in Economia, Politica | Nessun commento »

Un conto sono le parole del premier Mario Monti, che continua a ostentare ottimismo, un conto sono i conti che affligono gli italiani.

Il premier Mario Monti

Un conto sono le linee programmattiche del governo, che continua a sperare nella ripresa, un conto sono i fattivi rincari che, settimana dopo settimana, si abbattono come una tagliola sugli stipendi dei contribuenti. Tra tasse sempre più soffocanti, contrazione dei consumi e redditi esigui si preannuncia un Natale davvero magro. Anche perché gli italiani si troveranno a dover pagare la stangata di fine anno. L’ennesimo sacrificio chiesto dal governo dei tecnici per una ripresa che stenta ancora ad arrivare.

Dati alla mano, non ci sono soltanto gli ulteriori aumenti di Imu e Iva e le nuove regole su deduzioni e detrazioni a impensierire gli italiani. Alle nuove uscite che, fino a qualche mese fa, non erano ancora state inserite nei bilanci famigliari, bisogna infatti aggiungere i rincari sulle tariffe e l’avanzata all’insù della pressione fiscale che hanno, di fatto, abbattuto la propensione al risparmio (ora ai minimi dal 1999). Il risultato? Il potere di acquisto è crollato a -4,1% (altro dato negativo), mentre l’inflazione avanza e i salari restano, tanto per cambiare, al palo. Insomma, una situazione a tinte fosche a cui va ad aggiungersi lo spettro di un ennesimo rincaro sull’Imu. Secondo il Sole 24 Ore (leggi l’articolo), infatti, gli enti locali starebbero valutando un ritocco all’insù delle aliquote. Per farlo hanno tempo fino al 31 ottobre. A causarlo la decisione del ministero dell’Economia di modificare ex post il gettito dell’Ici assegnato a ogni Comune nel 2010. “Il taglio inaspettato – spiega il Sole – arriva a quindici giorni dal termine (già pluri-prorogato) per chiudere i preventivi 2012 e costringe i sindaci a rifare un’altra volta i conti e trovare risorse per raggiungere il pareggio di bilancio”. Uno “scherzetto” che tocca circa 1.200 Comuni.

Il problema è che gli italiani non dovranno affrontare soltanto il rincaro dell’imposta sulla casa. Si scorgono, infatti, segni “più″ su tutte le voci che riguardano le abitazioni. Dal primo di ottobre la luce è aumentata dell’1,4%, mentre il gas dell’1,1%. E ancora: a bilancio vanno poi messi i rifiuti, l’acqua e i trasporti urbani. Il costo della vita continua ad aumentare. Secondo il Codacons, dai primi di settembre è schizzato su di almeno mille euro. E l’aumento dell’Iva voluto dal governo Monti non farà che peggiorare la situazione: nel 2014 l’aliquota agevolata passerà dal 10 all’11%, quella ordinaria dal 21 al 22%. Il risultato? Il carrello della spesa costerà mediamente tra i 310 e i 380 euro in più.

Comke se non bastasse, la legge di stabilità da poco varata dal Consiglio dei ministri prevede nuove regole su deduzioni e detrazioni. Come spiega il Corriere della Sera (leggi l’articolo), “l’introduzione, per i redditi superiori ai 15mila euro, della franchigia di 250 euro e di uno sconto fiscale massimo di 570 euro per alcune detrazioni farà incassare allo Stato 1,9 miliardi solo per il 2013″. Soldini che, però, vengono erosi dai risparmi delle famiglie italiane. Anche perché il taglio di detrazioni e deduzioni andrà a colpire anche i redditi del 2012 e, quindi, quelle spese su cui si considerava un certo “risparmio” fiscale. Andrea Indini, Il Giornale, 21 ottobre 2012

SULLE ELEZIONI AMERICANE PRECIPITA IL DISASTRO DI BENGASI CHE COLPISCE OBAMA E FAVORISCE ROMNEY.

Pubblicato il 20 ottobre, 2012 in Il territorio | Nessun commento »

E’ il New York Times, il giornalone che tifa apertamente per la rielezione di Barack Obama, a servire un colpo micidiale contro il presidente, a soli quattro giorni dal terzo e ultimo debate contro lo sfidante repubblicano Mitt Romney a Boca Raton, in Florida. Dall’11 settembre, da quando un gruppo armato ha attaccato il consolato americano di Bengasi e ha ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens e altri tre americani, l’Amministrazione lotta per mostrarsi all’altezza della crisi inaspettata. Il presidente ha promesso giustizia con un discorso duro nel giardino delle rose della Casa Bianca e  sui giornali americani s’inseguono voci sullo spiegamento di forze speciali e di droni americani in Libia. Due giorni fa è stato fatto arrivare alla stampa anche il nome dell’indiziato numero uno per l’attacco, Ahmed Abu Khattala, che ora, è stato scritto, “è in fuga nel sud o nell’est del paese, o forse è persino già all’estero”.

Invece Abu Khattala non si è mai mosso e ieri era in un hotel di lusso di Bengasi, in fez rosso e sandali, dove – scrive l’inviato incredulo del New York Times, David Kirkpatrick – sta al bancone del bar e beve frappè alla fragola, anche se aveva chiesto succo di mango. L’intervista è surreale: Khattala dice di non far parte di al Qaida ma di sentirsi vicino alle posizioni del gruppo terrorista, per il suo fervore islamico, sostiene che l’America se li cerca, gli attacchi e gli attentati, con la sua politica estera aggressiva e cerca di convertire Kirkpatrick all’islam. Il debate di lunedì è sulla politica estera e l’intervista all’insolente Khattala potrebbe essere la mazza di ferro che cade inattesa  nelle mani di Romney. IL FOGLIO QUOTIDIANO, 20 otobre 2012

REGIONE LAZIO: UN PORTAFOGLIO APERTO A TUTTI, di Mario Sechi

Pubblicato il 20 ottobre, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

La politica è uno straordinario banco di prova per il giornalismo. Abbiamo raccontato la vicenda dei soldi dati ai partiti della Regione Lazio con una verità che pareva a prova di bomba: è stato l’ufficio di presidenza del Consiglio regionale a mettere nero su bianco l’aumento di quattordici volte dei contributi previsti fino a due anni fa per i gruppi politici. Vero, ma come spesso capita era solo un pezzo della storia. Una figura di questa vicenda veniva continuamente evocata, ma non aveva mai parlato: il presidente dell’assemblea, Mario Abbruzzese. Un tipo tosto, un acchiappavoti, uno che a Cassino e Frosinone raccoglie consensi, uno che fa «politica sul territorio». Abbruzzese rompe il silenzio. E lo fa con un’intervista che apre uno scenario diverso da quello finora descritto. L’aumento dell’obolo dorato non fu una decisione dei partiti presa all’insaputa della Giunta guidata da Renata Polverini, ma fu il frutto di un accordo politico in cui tutti – e sottolineo tutti – i partiti ebbero un ruolo. Nessuno escluso. Il luogo della decisione è la Commissione Bilancio, il braccio che apre la cassaforte è quello dell’assessore al Bilancio e lo strumento della ratifica è il Consiglio. Il cerchio si chiude, ci sono tutti. Enessuno può scagliare a questo punto la prima pietra. Né l’ex presidente Renata Polverini né l’opposizione nelle sue varie espressioni né quei partiti che non erano nell’ufficio di presidenza ma erano invece presenti dentro la commissione Bilancio guidata da Fiorito. In questa storia – come in tante altre – vale una vecchia regola del giornalismo: «Follow the money», segui i soldi. E quello che non mi tornava era appunto il portafoglio. Perché nella Regione Lazio il bilancio è unico. Non c’è un rendiconto del consiglio e uno separato della giunta. L’organo di governo decide, ma gli atti sono condivisi a livello partitico nelle commissioni e nell’assemblea. Dal racconto di Abbruzzese emerge un sistema che si finanziava in toto, senza esclusioni di sorta. E dal presidente del consiglio regionale mai un membro dell’assemblea si è presentato per chiedere lo stop della finanza allegra ai gruppi. Semmai il contrario: tutti chiedevano più soldi. Buona lettura. È solo l’antipasto, domani mettiamo in tavola il resto del menù. Mario Sechi, Il Tempo, 20 ottobre 2012

.……………Le vicende della Regione Lazio trovano nuive verità: tutti i gruppi consiliari erano d’accordo sulle assegnazioni milionarie che però passavanio attraverso provvedimenti varati dalla Giunta Regionale. Il tutto raccontato dal presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Mario Abruzzese nell’intervista rilasciata al Tempo che e che di seguito a questo commento potrete leggere. Emerge una verità diversa da quella raccontata sinora e sopratutto emerge una responsabilità della presidente Polverini che “non poteva non sapere”. Sechi nel suo editoriale dà appuntamento per domani per leggere l’inter0 menù rispetto all’antipasto rappresentato appunto dall’intervista di Abbruzzese. In attesa di leggere il resto ecco l’intervista ad  Abbruzzese.

Regione Lazio, parla Abbruzzese: “I soldi ai partiti? Ecco la verità“


«Non è che l’ufficio di presidenza s’è svegliato una mattina e ha deciso di regalare 8 milioni di euro ai gruppi politici. Ha solo ratificato un accordo siglato da tutti i partiti in commissione Bilancio». Mario Abbruzzese è un fiume in piena. Ha deciso di reagire, dopo aver incassato insulti e veleni. Il presidente del Consiglio regionale del Lazio sarà sentito dai magistrati la prossima settimana. È sereno. Difende i consiglieri regionali e non critica mai la governatrice Renata Polverini ma ci tiene a raccontare la «sua» verità.

Presidente Abbruzzese, perché l’ufficio di presidenza ha aumentato i soldi ai gruppi politici portandoli a 14 milioni di euro?

«Tutto nasce nel 2010. Il regolamento regionale prevedeva al massimo 12 collaboratori per ogni gruppo politico, cioè uno per ogni consigliere. Il problema è che Pd, Pdl e Lista Polverini avevano più eletti. Dunque questi gruppi chiedevano di cambiare le norme e di aumentare il personale, legittimamente. Non ho permesso di modificare il regolamento, così le forze politiche hanno trovato una strada alternativa: cambiare l’articolo 3 bis della legge 6 del 1973 che regolamenta il funzionamento dei gruppi. La nuova norma, che ha consentito di aumentare i collaboratori e dunque i soldi, è stata inserita nel maxiemendamento portato in Aula dalla Giunta e approvato con l’assestamento di bilancio nell’estate 2010».

Ma i soldi in più dove li avete presi?

«Erano fondi del Consiglio regionale, non soldi in più, né tantomeno sottratti a sanità e sociale, come qualcuno ha sostenuto. Sulle spese di funzionamento c’è soltanto un capitolo di bilancio, l’accordo in commissione tra Giunta e capigruppo prevedeva semplicemente di spostare alcune somme da un indirizzo a un altro».

Poi ci sono state le delibere dell’ufficio di presidenza.

«Non abbiamo fatto altro che ratificare un’intesa politica che conoscevano e condividevano tutti e 70 i consiglieri».

E poi la ratifica a chi l’avete mandata?

«Agli uffici dell’assessorato al Bilancio».

Quindi la Polverini non poteva non sapere.

«Questo lo dite voi».

D’accordo presidente, ma in queste settimane tanti hanno detto che il Consiglio regionale è pienamente autonomo rispetto alla Giunta, come il Parlamento rispetto al governo…

«Il Consiglio regionale ha l’autonomia finanziaria ma il bilancio della Regione è unico, tant’è vero che i fondi per la Pisana arrivano dalla Giunta. A differenza di quello che avviene alla Camera, al Senato e a Palazzo Chigi, dove ognuno approva il suo documento economico».

Ma non erano troppi i soldi assegnati ai gruppi? Sono passati dai 5,4 milioni previsti dalla legge a 14.

«La quota fissa resta di 5,4 milioni. È stata aumentata la quota variabile di 8,5 milioni. Con il senno di poi dico che è stata un’operazione sbagliata, soprattutto perché alcune persone hanno usato quei fondi non per attività politica. Ma voglio ribadire che la maggioranza dei consiglieri li ha spesi in modo corretto, promuovendo la nostra attività legislativa, che è stata intesa. In questi anni abbiamo approvato molte leggi come il Piano Casa e il Piano del turismo, il Piano Rifiuti, lo Small Business Act. Abbiamo sostenuto le piccole e medie imprese, i distretti industriali».

Si sente un capro espiatorio?

«No e difendo l’ufficio di presidenza che non può avere la responsabilità politica. Piuttosto spetta a tutti i consiglieri regionali. Ovviamente mi prendo la mia parte».

C’è stato qualcuno che ha mai protestato per la decisione di aumentare i fondi ai gruppi politici?

«No, qualcuno è venuto a protestare con me perché il suo capogruppo non gli dava i soldi».

Quanto le pesa il fatto che adesso i cittadini pensino che, più o meno, siete tutti ladri?

«Molto. Anche perché questo scandalo è scoppiato in un momento economico difficile. Tuttavia non si possono trattare tutti allo stesso modo. In Consiglio ci sono persone perbene».

Come ha spiegato alla sua famiglia quello che sta accadendo?

«Stiamo vivendo insieme questo momento drammatico. Ho spiegato che io non ho rubato niente e che non ho mai utilizzato quei fondi, anche se una parte di responsabilità politica me la prendo».

La prossima settimana lo spiegherà anche ai magistrati.

«Sono pronto. Dimostrerò che tutte le cose fatte sono state frutto di un accordo politico raggiunto in commissione Bilancio, dove siedono i rappresentanti di tutti i gruppi politici».

Ha mai avuto la sensazione che alcuni consiglieri spendessero quei soldi in modo «allegro»?

«Nessuno poteva sapere come venivano spesi i fondi assegnati. Ogni capogruppo ha un conto corrente intestato a suo nome».

E il comitato di controllo contabile della Regione?

«Ha acquisito le autocertificazioni dei capigruppo».

Scusi Abbruzzese, ma è vero che lei ha 18 collaboratori e tutti della sua città, Cassino?

«Ho affidato la mia attività politica a collaboratori di cui mi fido».

Prima che arrivasse lei, quanti collaboratori aveva a disposizione il presidente del Consiglio regionale del Lazio?

«Diciotto, come me. Io ho eliminato la sede che il Consiglio aveva in affitto nel centro storico di Roma, ho levato l’indennità di missione all’estero per i consiglieri, ho ridotto del 30% le auto blu. Ho pure cancellato la rassegna stampa cartacea e vietato di costituire nuovi monogruppi».

D’accordo, ma lei è il presidente dell’assemblea, forse poteva fare di più…

«Ma il presidente non è altro che l’arbitro, i provvedimenti li approva l’Aula. È come se si desse a Fini o a Schifani la responsabilità della mancata riduzione dei parlamentari».

E le multe che ha preso con l’auto blu? Sarebbero una cinquantina…

«Penso che chi fa 350 chilometri al giorno in macchina, come me, possa prendere multe».

Ma è vero che ha due auto blu, una a Roma e un’altra a Cassino?

«No. Ne ho soltanto una, assegnata con un atto formale dell’ufficio, potete controllare».

Ci sono state persone, presunti amici, che adesso l’hanno «abbandonata»?

«No, in questo momento intorno a me ho trovato solidarierà e affetto. Tanti amici mi hanno sostenuto. Tutti conoscono il mio impegno per il territorio. Sono molto sereno perché credo di aver operato in piena trasparenza».

Adesso lei rischia di non essere ricandidato. Anzi è quasi sicuro…

«Le candidature spettano al partito, che credo farà una distinzione tra le responsabilità. Non si possono mischiare quelle politiche e quelle giudiziarie. Tutti i partiti devono riflettere e distinguere tra chi ha lavorato bene e chi male. Questo Consiglio non va rottamato, c’è tanta gente perbene».

Perché non si è dimesso?

«Perché credo di aver lavorato bene. Mi dispiace per l’immagine negativa della Regione Lazio, ma sono abituato a combattere».

Anche la Polverini non doveva dimettersi? In fin dei conti altri governatori nei guai non l’hanno fatto.

«La sua decisione va rispettata. Mi sembra che sia stata presa perché l’Udc ha fatto mancare l’appoggio. Se non c’è più un progetto politico meglio tornare alle urne».

Non si sente scaricato dalla Polverini?

«Io non sono abituato a scaricare sugli altri le mie responsabilità».

Ammetterà che l’autonomia delle Regioni esce distrutta dalle tante inchieste aperte dalla magistratura. Va cambiato di nuovo il Titolo V della Costituzione, con cui gli enti locali hanno avuto più poteri e meno controlli?

«Non va cambiato. Molte Regioni hanno dimostrato di usare bene l’autonomia ricevuta. Bisogna invece aumentare i controlli, anche da parte della Corte dei conti».

Intanto però nel Lazio sono stati azzerati i fondi ai gruppi politici. È un errore?

«Sì. Devono avere dei fondi per la loro attività politica. Se no si rischia che li trovino altrove».

Nella prossima legislatura verranno ripristinati?

«Il decreto varato dal governo li prevede nella misura della Regione più virtuosa».

Quando crede si debba votare?

«Il prima possibile, anche per dare un messaggio ai cittadini. La Polverini ha 135 giorni di tempo, il termine scade a metà febbraio. Non credo si voterà con la Lombardia: la Cancellieri è stata chiara».

Ma ci sono prima i tagli da fare…

«Bisogna votare evitando confusioni e ricorsi. Il decreto del governo è chiaro: si deve andare alle elezioni con 50 consiglieri, altrimenti perderemo i fondi statali. Abbiamo avuto sei mesi per applicare la legge 138/2011, dovevamo armonizzare lo Statuto alle indicazioni del governo. Abbiamo preferito ricorrere alla Corte costituzionale, che ha respinto le nostre istanze con motivazioni legittime. Così è intervenuto il governo. Ora dovremo adattare la legge elettorale ai nuovi numeri: dieci eletti nel listino e quaranta con le preferenze. Questo è l’unico atto indifferibile che un Consiglio sciolto può compiere».

C’E’ L’ORDINE DI CARCERAZIONE PER SALLUSTI:”VADO IN GALERA”. POLITICA CIALTRONA.

Pubblicato il 19 ottobre, 2012 in Costume, Il territorio, Politica | Nessun commento »

Dopo il rimpallo tra le procure di Roma e di Milano, alla fine è stato spiccato e consegnato l’ordine di carcerazione nei confronti del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, condannato dalla Cassazione a 14 mesi di reclusione per diffamazione.

L’ordine è stato inoltrato dal gip agli ufficiali giudiziari ed è stato ricevuto dal diretto interessato. “La speranza che la politica fosse capace di trovare una soluzione sta naufragando per mancanza di volontà e di capacità“, ha dichiarato Sallusti.

Che poi ha aggiunto:“Io non chiedevo una legge ad personam, ma che venisse ripristinata una banale legge liberale che dicesse che per le opinioni nessuno può andare in carcere. Così non è, ma è peggio. Perché in questi giorni, discutendo in Parlamento di questa legge, c’è chi ha inserito un codicillo che permette ai presidenti delle Province di candidarsi alla Camera o al Senato e capite bene che di fronte ad atteggiamenti del genere non posso permettere che la politica più cialtrona si nasconda dietro a una legge di libertà e dietro al mio nome”.

Il direttore fa “un ultimo appello alla politica di interrompere questa sceneggiata che ha messo in piedi con la scusa di evitarmi dal carcere, cosa per altro da me non richiesta”. E si è detto pronto alla galera: “Ci sono tanti italiani in carcere, uno più o uno meno non credo che questo possa cambiare le sorti del Paese”.

………….I più cialtroni sono quelli che approfittando del testo concordato in Commissione Giustizia al Senato per approvare in sede deliberante l’abrogazione di una norma liberticida che risale al fascismo in virtù della quale la Cassazione,  non concedendo a Sallusti le attentuanti generiche che di solito vengono concesse a tutti gli incensurati, ha potuto emettere una condanna alla galera per il direttore del Giornale per il reato di diffamazione peraltro non commesso da Sallusti ma da altri, anzi da un altro che ha pubblicamente ammesso la colpa, hanno tentato di trasformare la proposta di legge in una specie di legge omnibus nella quale infilarci di tutto. In particolare un senatore del Pdl ha cercato di favorire i presidenti delle provincie con un emendamento che consentiva  la loro  candidatura alla Camera e al Senato. Questa operazione ha consentito a sei senatori della sinistra di impedire l’approvazione della legge in commissione e di ottenerne il trasferimento della discussione in aula, cosicchè di fatto mandando in galera Sallusti, che, quindi, sarà il primo giornalista, dopo il caso clamoroso di Giovannino Guareschi nel 1950, a finirci, tra l’altro per un reato neanche commesso e comunque per un reato di opinione come fossimo nella Unione societica ante 1989 o nei paesi del terzo mondo dove la democrazia e la libertà sono tuttora effimeri concetti senza  divenire diritti. Come che sia, ci domandiamo due cose. Primo: che fine ha fatto il PDL, il suo fondatore e presidente e il suo segretario, i suoi capicorrente, i suoi depoutati e senatori dei quali non leggiamo neppure un rigo di commento e , sopratutto, di intervento a favore di Sallusti e più vastamente a favore della libertà di stampa e di opinione, pilastri isostituibili nelle società liberali? Secondo: perchè il PDL non chiede, anzi non impone a Monti di fare un decreto legge che si limiti a eliminare la norma che sbatte in galera Sallusti, lasciando poi al Parlamento il compito, in sede di conversione in legge del decreto, di più precisa definizione della norma? Ci sarebbe un terzo: perchè non è stato immdiatamente espulso il senatore che con il suo codicillo ha dato il là o l’alibi all’affossa,mento della legge in Senato? Tutte domande che in verità si possono condensare in una sola:come può pretendere questo PDL che non è capace di difendere un suo baluardo intellettuale, uno dei pochi,  quale è stato sino ad oggi Alessandro Sallusti,  di recuperare i voti dei milioni di elettori che,  sentitisi traditi sia per le promesse mancate, sia per essere stati abbandonati nelle mani di un demagogo come Monti,  lo hanno abbandonato rifugiandosi per lo pù tra gli aspiranti astenuti dal voto o tra i prossimi elettori di Grillo? g.

CASA FINI, ATTO SECONDO, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 18 ottobre, 2012 in Il territorio, Politica | Nessun commento »

Fini ha casa, a con l’acca, ma anche Fini a casa, senz’acca.

Lo aveva giurato lui: se provano che la casa di Montecarlo è di mio cognato, mi dimetto. Bene, noi le pro­ve le avevamo già portate tutte con un’inchiesta giornalistica sul campo pilotata dal nostro Gian­marco Chiocci che meriterebbe una medaglia. Ma Fini, ricorderete, non fu di parola e restò al suo po­sto nonostante l’evidenza. Non contento, lui e i suoi sodali cercarono di farci passare come una «mac­china del fango», tesi che trovò non pochi consensi in nostri colleghi (alcuni anche illustri, vero Gad Lerner?) imbolsiti, invidiosi e soprattutto in malafe­de. Bene, a distanza di due anni, dalle carte seque­strate per un’altra inchiesta giudiziaria, che L’espressopubblicherà sul prossimo numero,c’è la prova definitiva che noi del Giornale avevamo ra­gione e che Fini ha mentito ai suoi, al Paese e ai colle­ghi della Camera: dietro la società offshore che ac­quistò la casa di Montecarlo, svenduta da An, c’era Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, moglie di Fini.

Quindi, caro presidente della Camera, è vero che fango c’è stato, ma non era il nostro. Era il suo. Ha negato, mentito, depistato, è stato spergiuro, quin­di ha infangato lo scranno della terza carica dello Stato sul quale lei siede da abusivo, in quanto eletto da una maggioranza, quella di centrodestra, che ha tradito, rinnegato e osteggiato in spregio ai basilari doveri istituzionali. Lei presidente non solo ha falli­to come politico, non solo si è prestato ai torbidi gio­chi della sinistra per scalzare il governo Berlusconi, non solo ha tramato nell’ombra, non solo è stato scaricato pure da Casini e Rutelli, ma cosa più im­portante ha umiliato i militanti di An, i compagni di partito, ha sfasciato una storia politica importante, e con le sue bugie da quattro soldi ha fatto perdere l’onore a una bandiera, quella tramandata dal Msi di Almirante, che meritava ben altro destino. Ora abbia almeno il coraggio di chiedere scusa, anche a noi, di rimangiarsi querele e minacce, di ritirarsi a vita privata, magari insieme al suo inutile (e danno­so) amico Bocchino e al suo avvocato Bongiorno. Con i vitalizi che incasserete non vi mancheranno gli spiccioli e forse neppure gli euro per completare l’arredamento di Montecarlo con tre sedie a dondo­lo e godervi finalmente la Costa Azzurra. Paghere­mo noi, come sempre, ma tra i tanti soldi che ci ave­te fatto buttare al vento, saranno questi i meglio spe­si. E magari, tanto per onore di verità, la Procura di Roma potrebbe riaprire un’inchiesta giudiziaria chiusa in modo frettoloso con l’archiviazione di un caso che invece ha ancora molto da raccontare, e che soprattutto non va dimenticato sotto elezioni. Alessandro Sallusti, Il Giornale, 19 ottobre 2012.

.……………..Fini è il peggiore politico italiano, quello che ha tradito tutti e tutto, che ha distrutto partiti e idee, che ha rinnegato fede e morale, che ha mutato opinione come altri cambiano mutande e canotte. Ma nonostante tutto c’era chi aveva sperato che almeno non si fosse impadronito di un lascito testamentario di una militante in buona fede, cioè la casa di Montecarlo per regalarla all’immagine stessa del perdigiorno, cioè il “cognato”, ora suo, fino all’altro ieri di Gaucci, l’ex  attempato compagno della sorella ora comapgna di Fini. Come ricorda Sallusti, all’epoca dello scandalo, archiviato dalla Procura di Roma, Fini querelò a destra e a manca, arrivando a giurare che se mai fosse stato provato che la casa era finita nelle mani del cognato – che pur ci abitava – si sarebbe dimesso. La frettolosa archiviazione del caso da parte della Procura di Roma consentì a Fini di archiviare la sua promessa. Ora il caso lo riapre non l’odiatissimo giornale dell’odiatissimo ex benefattore Berlusconi ma il giornale dela corazzata editoriale di sinistra di proprietà della tessera n. 1 del PD, cioè De Benedetti  con nuovi e inediti documenti  che confermano  quanto sostenuto dal Giornale, con grande delusione di quanti avevano sperato che il fatto non fosse vero.   Fini  querelerà anche De Bendetti e l’Espresso? Certamente no,  perchè l’ultima possibilità di rimanere a galla dopo il 2013 è quella di  continuare a compiacere la sinistra, quella che un tempo era il “nemico” e che al termine delle sue tante giravolte, è la sponda di salvezza, l’unica, che rimane a  questo traditore  che “tradì anche il tradimento” per dirla come l’avrebbe chiosato, alla sua maniera,   l’indimenticato Pinuccio Tatarella” . g.

LA MERKEL: l’UE DEVE POTER INTERVENIRE SUI BILANCI NAZIONALI: DA IMPIAGATUCCIA DELLA GERMANIA COMUNISTA A NUOVO KAISER

Pubblicato il 18 ottobre, 2012 in Politica, Politica estera | Nessun commento »

“Abbiamo fatto buoni progressi nel rafforzamento della disciplina di bilancio con il fiscal pact, ma siamo dell’opinione, e parlo a nome del governo tedesco, che dobbiamo fare un passo in avanti nel dare all’Europa il diritto di intervento sui bilanci nazionali”.

Nella manifestazione in Grecia la Merkel paragonata a Hitler

Angela Merkel vuol mettere le mani sull’Europa. E lo dice chiaramente al Bundestag, in vista del vertice europeo dei capi di stato e di governo che si terrà questo pomeriggio a Bruxelles.

La cancelliera tedesca si è detta d’accordo con la proposta del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble di creare un commissario unico per l’euro e di rafforzare il Parlamento europeo. E ha lanciato l’idea di un nuovo fondo “ricavato per esempio dalla tobin tax”, per investire in specifici progetti nei Paesi membri.

Inoltre, la cancelliera teutonica ha espresso sostegno alla proposta sul supercommissario di Wolfgang Schaeuble: la Germania è favorevole a che si faccia un passo avanti nell’Europa e si accordi “un effettivo diritto di ingerenza sui bilanci nazionali” al commissario europeo della moneta. Infine, la Merkel ha difeso la possibilità di affidare al commissario europeo agli affari economici un diritto di veto sui budget nazionali degli stati membri.

Borse europee contrastate in attesa dell’inizio del vertice Ue di Bruxelles dove però “non saranno prese decisioni concrete”. Tensione in Grecia, dove si tiene il secondo sciopero generale in tre settimane contro le misure di austerità del governo.

Le 24 ore di sciopero, indette dalle due principali sigle sindacali, si tengono a ridosso del vertice dei capi di stato e di governo che si apre oggi pomeriggio Bruxelles. Atene ha varato altri 11,5 miliardi di euro di sacrifici per convincere Ue e Fmi a sbloccare la seconda serie di aiuti da 130 miliardi di euro. Probabilmente i leader europei non decideranno tra oggi e domani il via libera alla nuova tranche di aiuti, ma comunque discuteranno del caso greco.

Violenti scontri sono scoppiati ad Atene durante la manifestazione per lo sciopero generale. La polizia anti-sommossa ha sparato lacrimogeni per disperdere centinaia di black bloc che avevano scagliato bottiglie incendiarie nei pressi di Piazza Syntagma.Entro novembre gli aiuti dovranno essere sbloccati per evitare il default del paese. Per lo sciopero generale è prevista la paralisi dei trasporti, la chiusura degli uffici pubblici, di molti negozi e delle banche e il funzionamento a scartamento ridotto degli ospedali. Per quanto riguarda la situazione della Spagna, la Merkel ha specificato che “dipende solamente da Madrid” decidere su una eventuale richiesta di aiuti all’Ue. Il Giornale 19 ottobre 2012

.…………Insomma la Merkel non riesce a nascondere più di tanto la sua vocazione alla prepotenza che le deriva, evidentemente, dalla sua formazione culturale  nella Germania dell’Est, cioè la Germania che era più comunista dell’Unione Sovietica e dove lo Stato invadeva la vita dei cittadini non solo vietando loro una vita libera, ma interveniva nella loro  stessa  vita, trattandoli da sudditi e spesso da prigionieri, del che è ritratto sconvolgente un film premiato con l’Oscar come miglior film straniero nel 2006, appunto La vita degli altri, nel quale viene descritto il ruolo dello stato comunsita nella vita dei singoli individui. E’ quel che la Merkel vuol riproporre nella vita degli stati mebri dell’Unione Europea senza che quest’ultima sia mai stata trasformata in unione politica oltre che monetaria ed economica, cioè acefala del più importante e determinate riconoscimento, quello che proviene dal basso, cioè dai cittadini che sono gli unici che essendone depositari possono delegare funzioni politiche ad organismi che, sinora,   nulla hanno di politico  e democratico, e molto, anzi solo di oligarchico e autoreferenziale. Incurante di quel che accade in Europa, della crisi che ha investito tutti gli stati, demolendo le economie più deboli e quelle dei paesi più esposti, la Merkel,  proprio come l’esercito hitleriano che dilagava in Europa all’inizio della guerra mondiale e tutto distruggeva lasciando dietro di se macerie e rovine, va avanti del tutto indifferente  alle conseguenze di tale politica cieca e senza sbocchi. Anche a casa sua incominciano a pensarla così. Il futuro candidato cancelliere socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, ha questa mattina fortemente contestato alla Merkel la disattenta politica sin qui portata avanti che se per il momento può sembrare fare la fortuna della Germania, in prospettiva ne determinerà l’isolamento. Come in una ipotetica guerra nucleare, al termine della quale,  ove scoppiasse, il vincitore si troverebbe dinanzi al deserto in cui il mondo sarebbe stato trasforamto dalle armi nucleari. Ma se la Merkel va avanti come un carro armato tigre, quello in dotazione ai tedeschi durante la guerra, considerandosi un nuovo Rommel in gonnella, la colpa è anche della fragile capacità degli altri leader europei di frenarla e di imporle un cambiamento di rotta. Anche presunti primi della classe,  tra i quali, anche oggi, il discusso ministro dell’Economia italiano ha arruolato il premier  Monti,  non si avvedono che lasciandola fare, accettandone le teorie e non respingendone la tendenza egemonica, finiranno per essere complici, anzi già lo sono, di una politica che finirà col distruggere il sogno dell’Europa unita che però non era quello dell’ Europa dei banchieri e delle monete, ma l’Europa dei popoli e della gente. A quest Europa, in anni ormai lontani, dedicammo la nostra vita e intitolammo i nostri slogans  – Italia, Europa, Rivoluzione ! – e a questa Europa rimaniamo fedeli. A quella della Merkel non siamo disposti a pagare alcun prezzo, tanto meno a sacrificare  la nostra sovranità nazionale. g.

LA DEMOCRAZIA SECONDO FERRARA

Pubblicato il 16 ottobre, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

Giuliano Ferrara non è tipo che le manda a dire e pur di dirle non si cura di quel che può provocare. Così oggi, sul Foglio, pubblica una sua analisi, spietatamente dura, sul sistema della democrazia, alla luce, evidentemente, degli ultimi accadimenti.  Pubblichiamo qui di seguito il testo dell’articolo di Ferrara non dimenticando, comunque, di sottolineare che,  come diceva Churchill “la democrazia è il peggiore sistema politico, se si escludono tutti gli altri”. g.

Bisogna che gli ottimati del circo mediatico e giudiziario, i palasharpisti di ogni latitudine ideologica, quelli che danno petulanti lezioncine di etica da posizioni di minoranza intransigente, si mettano in testa che la democrazia fa schifo, puzza, è per sua natura e definizione sporcata dalla manipolazione del consenso in regime di suffragio universale diretto.

La democrazia di massa è spettacolo, avanspettacolo, non riflessione; è agitazione di simboli e vitalismi come la favolosa (efficace) nuotata del sessantacinquenne venuto a stupire e a manipolare la Sicilia, l’amico di Casaleggio, il Pataca, il Grillo, piuttosto che elaborazione di idee, progettazione architettonica del futuro politico, convito energizzante dell’eros civile, mito poietico, macché, tutte balle:

l’assessore o il consigliere venuto dal nulla democratico, selezionato nel crogiuolo delle preferenze elettorali, da sempre si procura i voti con ogni mezzo lecito e illecito, una volta sono i soldi arrivati chissà come, una volta i circuiti dipendenti dalla affiliazione lobbista quasi perbene, una volta direttamente la ‘ndrangheta più sprezzante e avida, e quando sgarra oltre la decenza, e quando lo beccano (intendiamoci, solo se e quando lo beccano) finisce in galera come segnacolo di eccezione che conferma la regola.

Dove la società è tendenzialmente pulita o perbenista, puliti per quanto possibile sono gli affari, relativamente pulito è il circuito del denaro, dell’investimento, dell’opera, che ne so, in posti come Casalecchio di Reno o Sesto San Giovanni dove vige il cosiddetto sistema Penati, la funzione di collettore del consenso e dei mezzi per procurarselo la fanno i partiti tutori, la protezione sociale pubblica, le cooperative, lo stato, classi dirigenti senza particolari scrupoli etici ma attente a distinguere interesse collettivo e interesse personale, a tenere sotto controllo gli spiriti selvaggi della democrazia invece che a farsene ingabbiare.

La Milano di Umberto Eco, il luogo felice dove potevi uscire con chiunque, senza essere consegnato a una vita riservata e moralmente repellente di ogni contaminazione con il Male, che è il suo consiglio comportamentale per l’oggi, non è mai esistita, questo è appena ovvio. Il miracolo economico, la politica repubblicana dei partiti lo ha provocato e assecondato e accompagnato mangiando a quattro palmenti, generando quel sistema del consenso democratico che ha funzionato finché hanno funzionato le sue coordinate culturali, civiche, e l’antipolitica di vario ordine e grado, e l’influenza indipendente e aggressiva di media e giudici era cosa inconcepibile.

Il patto con il Male c’è sempre stato, è insito in un regime non aristocratico e forse in ogni regime politico, anche quello capace apparentemente di sublimarlo, ma una volta il patto con il diavolo era governato dalla politica, e produceva anche sogni democratici clamorosamente suggestivi, se non belli, poi la politica democratica si è indebolita, e allora abbiamo la nuda e sprezzante ‘ndrangheta e delle facce che non dicono più niente se non si travestono con le teste di maiale.

La democrazia è corrotta nel suo fondamento, è a misura d’uomo e dunque è storta come il legno storto. Recide come sistema ogni rapporto con il divino e il suo diritto, con il sacro, con la tradizione, con uno spazio pubblico occupato dalla storia e dal suo superbo portamento: la democrazia è la tabula rasa, il contare ciascuno per uno e dunque il contare le persone, la massa delle persone, come se fossero soldi, piccioli, birilli, pupi, mezzi e non fini.

E’ una utopia regressiva della quale non possiamo fare a meno per proteggere le libertà civili, i diritti della coscienza e della personalità e della proprietà, i diritti liberali. Ma non possiamo scambiarla per una scuola di misura e di responsabilità etica, è disonesto farlo, bisogna sapere che la sua regola è la dismisura dei mezzi che sopravanzano il fine. Giuliano Ferrara, Il Foglio 16 ottobre 2012

TENUTI IN VITA DA BERLUSCONI

Pubblicato il 16 ottobre, 2012 in Politica | Nessun commento »

C’è un effetto Veltroni in quel che sta accadendo in queste ore nel Pd, ma anche quest’ultimo è figlio di un fenomeno ben più grande che sta mostrando la sua forza: la fine del berlusconismo. E dell’antiberlusconismo. Caduto il primo, non ha più senso il secondo. Vent’anni imperniati sulla figura del Cavaliere – anche quando non governava – non sono come girare la pagina di un romanzo. Con un libro si può tornare indietro e ricominciare la storia, con la realtà il vai e vieni è impossibile. Quando Berlusconi fece il passo indietro, la sinistra festeggiò stappando lo spumante e riversandosi in piazza. Si illuse, ancora una volta, di sopravvivere al moto della storia – come accadde in Italia dopo il crollo del Muro di Berlino – e di poter ricominciare la partita a risiko con la stessa classe dirigente. La fine dell’onda lunga del berlusconismo trascina nel riflusso anche i «nemici» che hanno edificato le proprie fortune politiche (e non solo) sulle gesta del Cavaliere. Simul stabunt simul cadent. Ci sono molte resistenze, colpi di coda e colpi bassi, ma il muro si sta sgretolando. Quando Bersani qualche giorno fa ha detto «non ci ammazza più nessuno» ho avuto la netta sensazione che sia suonata l’ultima campana. I figli di Berlinguer sono riusciti a prendere il potere scalzando prima Natta e poi Occhetto, ingaggiando una guerra feroce, ma trovando nella lotta fratricida il modo di alternarsi alla guida dei postcomunisti. Sembrava un blocco granitico. Ora è un wafer politico. E il tramonto del berlusconismo – vera dinamite – ha aperto crepe enormi. Veltroni, da amante delle buone sceneggiature, ha scelto il momento migliore per uscire di scena. In modo plateale – come si conviene a un protagonista – con il beau geste di quello che non vuole essere emulato da nessuno, ma con l’acuminata consapevolezza del politico che sa di aver innescato un effetto domino. Credo che in lui abbia finalmente prevalso la sua più vera e intima passione, quella per la scrittura e il gusto di scrivere un gran finale biografico. Si divertirà parecchio. Paradossalmente, la nomenklatura del Pd può essere salvata da una sola persona: Berlusconi. Un suo ritorno in pista rimetterebbe in corsia anche gli antiberlusconiani. Cavaliere, per favore, stia fermo. Mario Sechi, Il Tempo, 16 ottobre 2012

..……………………..Ci spiace doverlo dire, ma davvero è meglio per tutti che Belrusconi se ne stia da parte. Non solo contribuirà ad evitare che alle sue spalle continuino a soppravivere dinosauri della politica ma potrebbe essere  questo un vero e reale contributo alla rifondazione del centrodestra italiano. Naturalmente, insieme a Berlusconi se ne stiano da parte in tanti, a destra, e in primo luogo autentici veterani della politica  come Fini e Casini che appena nati si iscrissero  non all’asilo ma al Parlamento, sulla falsariga di Enrico Berlinguer del quale il caustico Giancarlo Paietta ebbe a dire che si era iscritto da bambino alla Direzione del Pci. Ma trano altri tempi e, sopratutto, altri Uomini. Anche se dell’altra parte. g.