LA LISTA CIVICA DEI MORALISTI FURBETTI, di Stefano Zurlo

Pubblicato il 7 giugno, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

Hanno nomi che pesano. E potrebbero essere i registi o i candidati di quelle liste civiche che sono l’ultima frontiera. A destra come a sinistra. Ma a sinistra, e ci mancherebbe, con il timbro della purezza.

Ezio Mauro

Ezio Mauro, direttore di Repubblica

Solo che a guardare bene si scopre che pure loro sono inciampati, come tanti connazionali, nelle solite inchieste che macinano abusi edilizi, assegni in nero, manovre e manovrine per eludere il fisco. Il paese malato di mediocrità ha contagiato pure loro. O almeno questo raccontano atti e carte. Il codice penale c’entra fino a un certo punto. Contano semmai le schegge che sporcano l’icona, il santino universalmente venerato. Eresia? Perfino Lilli Gruber, Nostra signora di Otto e mezzo, finisce dentro una storia di violazioni, per ora presunte, delle norme ambientali ed edilizie. Capitaneria di porto e Fiamme Gialle piombano a Torre di Stelle, 30 chilometri da Cagliari, e mettono i sigilli ad alcuni manufatti. Scatta il sequestro: 90 metri quadrati di spiaggia sono coperti da uno scivolo a mare. Scandalo. La villa è quella dei Gruber, Lilli ne è comproprietaria. Lei si difende: «Non ne so nulla». Però la Guardia di Finanza è arrivata nel cortile di casa.

Integrità. Rispetto. Osservanza certosina delle norme. Siamo alle latitudini di Fulco Pratesi, guru dell’ambientalismo italiano, autore di memorabili battaglie in difesa del paesaggio. Perfetto. Ma a casa sua Pratesi non si sarebbe speso più di tanto. Siamo all’Argentario, terra da sogno. Ma un vicino di casa, Richard Cardulla, scopre un deposito di immondizia sui suoi terreni. Nasce un bisticcio sempre più feroce con Pratesi: i due si denunciano.

Pratesi esce indenne, ma la sentenza è una brutta didascalia sotto il piedistallo del monumento nazionale, due volte presidente del Wwf Italia e poi parlamentare sempre in prima linea: «Pratesi, una volta venuto a conoscenza della presenza dei rifiuti sul proprio terreno, non si è mai attivato per rimuoverli. A tal proposito – insiste il tribunale di Grosseto – stupisce la risposta del Pratesi alla domanda dove andassero a finire i rifiuti “Questo non lo so, è un vallone, non so dove vanno a finire”». Un atteggiamento incomprensibile quando la pattumiera ti arriva quasi ai piedi e deturpa un fazzoletto di terra che è un incanto. Si combatte per purificare il mondo, ma non si scorgono i rifiuti sotto il naso.

Carlo De Benedetti da sempre tuona per moralizzare tutto e tutti e, secondo le solite indiscrezioni puntualmente smentite e puntualmente riconfermate, vorrebbe lanciare un’Opa sul Pd, il partito che cerca di manipolare come plastilina. Qualche giorno fa però il gruppo L’Espresso, l’argenteria di famiglia, inciampa su una poco nobile storia di tasse e viene condannato dalla commissione tributaria regionale di Roma a pagare la stratosferica cifra di 225 milioni di euro per plusvalenze non dichiarate. La vicenda, tanto per cambiare, è ingarbugliata e la battaglia va avanti, ma per ora si deve registrare una condanna davvero pesantissima. Per un illecito che i nostri segugi hanno contestato chissà quante volte a una legione di imprenditori furbi e furbetti.

Capita. Da uno scivolone ci si può riprendere. Ezio Mauro, prestigiosissimo direttore di Repubblica, la corazzata di casa De Benedetti, è protagonista di un episodio non proprio da galateo. Nel 2000 compra un appartamento nel centro di Roma dal manager Eni Alberto Grotti. Il prezzo pattuito è 2 miliardi e 150 milioni. Problema: Mauro dimentica 850 milioni che vengono pagati con assegni da 20 milioni e uno da 10, con la sua firma. Nel 2007 Franco Bechis racconta l’episodio sul Tempo: anche il direttore di quel partito che è Repubblica avrebbe una discreta ragione per arrossire, lui che fustiga un giorno sì e l’altro pure chi imbocca scorciatoie.

Capita. Un mese fa il giudice Alessandra Cataldi ha condannato a un anno di carcere per abusi edilizi Luca Cordero di Montezemolo.

Montezemolo luccica da tutte le parti: da Italo alla Ferrari. Ma a Capri avrebbe esagerato: trasformando, con un colpo di bacchetta, un’autorimessa nella casa dei custodi. Tu quoque, strillerebbero i classici.

Perfino Michele Santoro, che nei suoi programmi ha scrutato tutto lo scibile umano, ha attraversato le sue sabbie mobili. Santoro compra una cascina su tre livelli affacciata sul golfo di Amalfi. Tutto bene? Il complesso si porterebbe dietro un peccatuccio originale: un abuso che però, a sentire gli autori di un esposto, viene condonato in velocità proprio quando sulla scena compare il conduttore tv. Coincidenze e retropensieri. Troppe volte ci siamo imbattuti in intrecci del genere. Poi la magistratura archivia. E si chiude allo stesso modo, con un’assoluzione, la pratica aperta contro l’ex ministro Vincenzo Visco, nei guai per un dammuso un po’ sporgente a Pantelleria. Sospetti per chi era al di sopra di ogni sospetto. Stefano Zurlo, Il Giornale, 7 giugno 2012

ANCHE IL LONDINESE FIANCIAL TIMES DICE: MONTI NON E ‘ CAPACE DI RISOLLEVFARE L’ITALIA

Pubblicato il 6 giugno, 2012 in Politica, Politica estera | Nessun commento »

Un governo litigioso, una burocrazia radicata e inestirpabile e un primo ministro focalizzato solo sulla scena internazionale“. Giudizi al vetriolo quelli che il Financial Times ha dedicato a Mario Monti.

Il presidente del Consiglio, Mario Monti

I problemi interni del BelPaese sembrano crescere e andare oltre la capacità del suo governo tecnocrate di risolverli, anche in vista dell’aggravarsi della crisi del debito nell’Eurozona: una vera e propria stroncatura.

Insomma, per il quotidiano economico londinese, il presidente del Consiglio trascura l’Italia e si concentra troppo sul resto. Ma non è l’unica critica del giornale della City. L’editoriale di Guy Dinmore pone l’accento sui dissidi in seno all’esecutivo, citando lo scontro tra il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera e i suoi colleghi di governo sul pacchetto di misure per lo sviluppo. Pacchetto utile per tirar fuori l’Italia dalla spirale recessiva, pacchetto rinviato però per la seconda volta.

Il quotidiano cita poi un funzionario governativo che, sotto anonimato, palesa i suoi timori: “Oggi è un po’ un tutti contro tutti, ho paura che si stia entrando nella fase tre della vita dell’esecutivo, quella delle recriminazioni, dopo un iniziale luna di miele e il successivo ritorno alla vita vera“.

Secondo il FT, Mario Monti ha cercato di limare le contrapposizioni interne ma un consigliere del governo, che ha chiesto di non essere identificato, ha detto che il vero problema era che il premier aveva perso interesse per le questioni interne, mentre la sua attenzione si è fissata sul suo ruolo crescente nel coordinare le risposte politiche alla crisi del debito della zona euro dall’Unione europea al Gruppo dei Sette paesi industrializzati.

L’analisi del quotidiano continua implacabile: “L’Italia è nelle mani di burocrati che stanno combattendo il cambiamento e di un primo ministro che non si decide a fare i passi decisivi”. Risultato? Un’occasione persa di fare le riforme necessarie.

Infine, conclude il Ft, “i mercati si renderanno conto ad un certo punto che l’Italia non ha fatto molto” in termini di riforme. E forse se ne sono già accorti.

Le preoccupazioni del Ft vertono sulla riforma delle pensioni, su quella del mercato del lavoro, sull’accondiscendenza di Monti nei confronti dei partiti politici e sul fatto che i piani per tagliare la spesa pubblica non siano ancora definiti. Vengono poi citati i tassi di rendimento sui Bot a 10 anni, saliti di recente di nuovo al 6 per cento, il calo di gradimento nei confronti di Monti e la pressione fiscale che comincia a farsi sentire.

Per il quotidiano finanziario “la capacità del governo di spingere importanti, ma impopolari, riforme strutturali in Parlamento si indebolirà“. Fonte Ansa, 6 giugno 2012

ECCO PERCHE’ IL JUKE BOX DI FONZIE MONTI NON SUONA PIU’, di Mario Sechi

Pubblicato il 6 giugno, 2012 in Politica | Nessun commento »

Il governo Monti è un gatto che si morde la coda. Chiamato a salvare l’Italia dal partito dello spread ha applicato in maniera automatica la ricetta berlinese: austerità, controllo di bilancio, tassazione e sobrietà all’italiana che si è tradotta in un bel niente, ma fa tanto elegante. L’esecutivo è partito con il loden e rischia di restare in mutande. E la colpa non è solo di Monti. Alla fine della fiera a invocarne l’arrivo sono stati i partiti che non vedevano l’ora di lavarsene le mani della gestione del Paese. Così è arrivato lui, SuperMario, onusto di gloria accademica, fluente in inglese e con il pettine incorporato, alla Arthur Fonzarelli, noto come Fonzie.
Restiamo nella metafora di Happy Days: se il juke-box non andava, Fonzie gli dava un calcio e quello ripartiva. Provate voi a dare un calcio alla spesa pubblica italiana, minimo vi porta via la scarpa. Ironia a parte, la situazione è grave e anche seria. Il crollo delle entrate tributarie fa tremare i polsi. Il problema, però, è che il gettito anemico di questi primi quattro mesi è causato anche dalla politica economica del governo. Molto rigore. Zero fantasia.
Sì, lo so, è l’economia che fa l’economia e la cancelliera Merkel è un osso duro da convincere. I tedeschi restano tedeschi: hanno distrutto l’Europa due volte con le guerre, ci stanno provando una terza con l’economia. Sul campo c’è già un morto (la Grecia) e i feriti cominciano ad essere gravi: Italia, Portogallo, Spagna, perfino la Francia zoppica e Hollande non è Napoleone.
Non so cos’altro serva per convincere un uomo intelligente come Monti che è giunta l’ora di battere i pugni e spiegare che i popoli alla fine bruciano la casa di chi li affama. I numeri del fisco suggeriscono tre cose: 1. la recessione ha cominciato a mordere sul serio e ora i cittadini se ne rendono conto; 2. bisogna cambiare rapidamente la rotta economica del governo; 3. in queste condizioni non si può cambiare l’esecutivo e le elezioni sarebbero letteralmente un disastro. Chi ha idee migliori si faccia avanti, ma se ne assuma anche la responsabilità di fronte al Paese. Mario Sechi, Il Tempo, 6 giugno 2012

..………….Su una cosa non siamo d’accordo con Sechi. Monti non può battere i pugni per la semplice ragione che non  ha pugni da battere perchè non ha idee per cui batterli. Se a una cosa sono serviti questi sei mesi di pseudo governo “forte” è di aver strappato la maschera ad un falso bravo quale  è sempre  stato “venduto”  Monti. Senza scomodare l’antico adagio secondo il quale “chi sa, fa e chi non sa, insegna” non vi era alcuna prova che Monti fosse in grado di dirigere uno Stato non avendo mai diretto nemmeno un condominio, al quale non può essere nemmeno paragonata la Bocconi dove il Rettore non è il direttore d’orchestra.   Dopo sei mesi durante i quali sono  salite alle stelle, congiutamente,  la pressione fiscale e la tensione sociale, ci ritroviamo come prima se non peggio di prima, cioè in mutande, con in più un’altra casta che si è aggiunta alle altre, cioè quella dei professori. In questi sei mesi nessun guizzo di fantasia, nessuna idea che non fosse la ripetizione delle precedenti, inclusa la stizzosa insofferenza alle critiche, sia politiche, sia, sopratutto, giornalistiche.  E nessun provvedimento, con decreto legge, che sbarraccasse la imponente impalcatura delle spese e desse luogo  ad una  sforbiciata che non fosse solo di facciata. Niente di niente. In compenso, la casta dei politici, vilmente  sottrasttasi alle sue responsabilità, ha continauto imperterrita nei suoi “affari”, supportata da un un governo tecnico che ha solo cura di fare quel che predicava Andreotti un secolo fa: tirare a campare. Perchè a tirare a morire bastano gli italiani per i quali è riservata come al solito il bastone e la carota: il bastone delle tasse e la carota della retorica  a buon mercato di Giorgetto Napolitano che dopo aver ricevuto al Qurinale duemila invitati venerdì sera per pasteggiare a parmigiano e champagne per l’anniversairo della Repubblica e  aver imitato sabato mattina  il presidente  americano portandosi la mano alla testa in un improbabile  saluto militare durante la parata militare voluta a tutti  costi nonostante i lutti dell’Emilia,   domani, finalmente, si recherà nelle terre emiliane dove 16 mila persone da due settimane  dormono sotto le tende, per dir loro che “hanno la tempra per farcela”. Se c’è qualcuno che deve battere i pugni sono gli italiani, e non s0lo i  pugni. g.

BUFERA SU MONTI E MOODY’S

Pubblicato il 5 giugno, 2012 in Economia, Giustizia, Politica | Nessun commento »

Sul web le voci della partecipazione del premier al board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating bollò l’Italia come “Paese a rischio”. Palazzo Chigi smentisce

Un brutto sospetto è circolato nelle ultime ore sul web. Il presidente del Consiglio Mario Monti avrebbe fatto parte del board di Moody’s proprio quando l’agenzia di rating tirava bordate contro l’Italia e faceva affondare l’economia del Belpaese nel baratro della recessione e della crisi economica.

Il premier Mario Monti

Adesso, proprio Moody’s è indagata, insieme a Fitch e a Standard & Poor’s, dalla procura di Trani per manipolazione di mercato. Palazzo Chigi si affretta a spiegare che il Professore è stato membro del “senior european advisory board” dell’agenzia “dal luglio 2005 al gennaio 2009, periodo in cui ricopriva l’incarico di presidente dell’Università Bocconi”.

In Italia scoppia la bufera contro le agenzie di rating. La procura di Trani sta mettendo sotto la lente di ingrandimento le accuse, i giudizi e i tagli di rating che negli ultimi anni hanno colpito il Belpaese contribuendo ad affossarne la solidità e a minarne la tenuta. Giudizi che, molto spesso, venivano comunicati a mercati ancora aperti. Tagli di rating che agli inquirenti sono sembrati un vero e proprio strumento per colpire l’Italia. Proprio oggi la sede di New York di Standard & Poor’s è stata indagata dai pm di Trani per manipolazione del mercato. È un nuovo fascicolo-stralcio che segue la chiusura delle indagini notificata nei giorni scorsi a cinque persone: l’ex presidente di S&P Deven Sharma, l’attuale responsabile per l’Europa Yann Le Pallec e i tre analisti senior del debito sovrano che firmarono i report sotto accusa Eileen Zhang, Frank Gill e Moritz Kraemer. Per quanto riguarda gli uffici italiani il pm di Trani Michele Ruggiero ha indagato l’amministratore delegato Maria Pierdicchi. Nel mirino le ore immediatamente precedenti la comunicazione ufficiale di S&P sul taglio di due gradini del rating al debito sovrano dell’Italia del 13 gennaio scorso: da A a BBB+.

Sulle stesse agenzie di rating i pm di Trani stanno indagando dal 2010 dopo la denuncia congiunta di Adusbef e Federconsumatori. Il 6 maggio del 2010 un report pubblicato da Moody’s bollava l’Italia come “Paese a rischio”. Da quella denuncia l’inchiesta si è allargata a Fitch e Standard & Poor’s per i giudizi che hanno contribuito a far precipitare la situazione politica fino alle dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi. D’altra parte l’ex premier ha ripetuto più volte di aver lasciato la presidenza del Consiglio per il bene del Paese. Sei mesi dopo l’attacco di Moody’s, Mario Monti diventava premier e sul web è stata ventilata da diversi blog l’ipotesi (rilanciata dal sito Dagospia) che il Professore potesse finire coinvolto nell’indagine di Trani. Palazzo Chigi ha subito spiegato che la partecipazione di Monti al board di Moody’s comportava “la partecipazione a due-tre riunioni all’anno”, dal luglio 2005 al gennaio 2009, che non avevano per oggetto, “neppure in via indiretta”, la valutazione di stati o imprese sotto il profilo del rating.

Contattati in mattinata, gli uffici londinesi di Moody’s non ci hanno ancora fatto sapere il ruolo di Monti all’interno dell’agenzia: dopo averci chiesto il motivo del nostro interesse sul ruolo del Prof dentro a Moody’s, sono scomparsi nel nulla. Restiamo in attesa di una risposta ufficiale. Ad ogni modo, presa per buona la smentita di Palazzo Chigi, resta comunque che dal 2005 il Professore era “international advisor” per la Goldman Sachs, una delle più potenti banche del mondo che ha contribuito a mettere in ginocchio l’economia greca. Ma questa è tutta un’altra storia. Forse. Andrea Intini, Il Giornale, 5 giugno 2012

.…………..Quando tuona, piove, recita un vecchio adagio. Aspettiamo per vedere in quali mani ci hanno messo un pugno di politici vili e sprovveduti. g.

I MORTI NON PARLANO: RITRATTO A TUTTO TONDO DEL NEO (E VECCHIO) SINDACO DI PALERMO E DEL SUO INCUBO, GIOVANNI FALCONE

Pubblicato il 4 giugno, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

Si potrebbe senz’altro definire Leoluca Orlando «vecchio arnese della politica», se la parola «arnese» non evocasse qualcosa di utile, cosa che il politico palermitano non è mai stato. Naturalmente dotato fin da giovane – prese la migliore maturità d’Italia del suo anno – ha sempre rovinato tutto per il suo troppo odiare e spargere veleni. Rieletto ora sindaco di Palermo per la quarta volta, dopo un lungo purgatorio, Orlando si è riallacciato al quindicennio, 1985-2000, in cui dominò la scena cittadina. Prosperò nelle brighe.

Si autopromosse denigrando i rivali. Se non gradiva il risultato di un’elezione accusava l’avversario di brogli elettorali o di avere rastrellato voti mafiosi. Usò il metodo anche con il socialista Claudio Martelli che nel 1987, per capriccio, si fece eleggere alla Camera a Palermo. Martelli se lo legò al dito e quando Orlando, nel ‘93, fu rieletto sindaco gli dimostrò che era stato votatissimo nei quartieri più coppoluti: Kalsa, Zen, Ciaculli. Leoluca fece spallucce, perché quello che vale per gli altri non vale per sé, e continuò metodicamente a «mascariare» il prossimo.

Tuttora, che ha 65 anni (in agosto), non ha perso il vizio. A marzo invalidò, nella sostanza, le primarie palermitane della sinistra, gridando come un ossesso, «brogli, brogli» senza averne le prove. Con questa scusa, si è autocandidato sindaco contro il vincitore della lizza e suo ex pupillo, Fabrizio Ferrandelli e ha vinto con il 72,4 per cento dei voti contro il 27,5 di Ferrandelli. Senz’altro un trionfo sull’avversario, ma un fiasco in termini assoluti. Essendo stata l’affluenza inferiore al 40 per cento, ne deriva infatti che solo il 28 per cento degli aventi diritto ha votato Orlando e che il restante 72 si è ben guardato dal farlo.

Questo ripudio di una parte cospicua della città è la sola attenuante che i concittadini di Giovanni Falcone possono invocare per avere scelto come sindaco il suo nemico più subdolo. L’elezione di Orlando è infatti uno schiaffo alla memoria del giudice ucciso.
Per non dimenticare. La sera del 17 maggio 1990, il faccione di Leoluca, anche allora sindaco, fece capolino nella trasmissione Samarcanda di Michele Santoro. L’ospite mise il solito broncio da intrigante e sparò: «Il giudice Falcone nasconde le carte nel cassetto». L’accusa si riferiva a un episodio dell’anno prima: i presunti favori di Falcone ad Andreotti e ai suoi uomini in Sicilia, Salvo Lima, in primis.

All’osso, il sindaco col ciuffo sosteneva che il Divo Giulio fosse «punciutu», cioé avesse stretto con i mafiosi il patto di sangue- dito bucato contro dito- e che affiliati fossero i suoi amici politici. La colpa di Falcone invece – sempre ai suoi occhi – era di non essersi lasciato infinocchiare da un mafioso, certo Giuseppe Pellegriti, pseudo pentito che godeva però della piena fiducia di Leoluca. Costui aveva «rivelato» che fu Lima a ordinare l’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto nell’80.

Falcone capì al volo la panzana e incriminò Pellegriti per calunnia. Ciò scatenò la rabbia del sindaco e dei suoi professionisti antimafia che volevano invece incastrare gli andreottiani e avevano passato il tempo a catechizzare Pellegriti (come rivelerà Falcone al Csm). Questo l’antefatto della «denuncia» di Orlando allo show di Santoro, in cui l’interessato fu aggredito in sua assenza e contro il principio di lealtà.

L’accusa mise Falcone nelle peste. Il giudice che da anni era l’icona della lotta alle cosche viveva un momento delicato. Preso di mira per il suo rigore dai fanatici che confluiranno nella Rete (il partito orlandiano), finì nel tritacarne della «primavera» di Palermo, l’orrida stagione dominata dal duo Orlando- Padre Pintacuda al motto imbecille: «Il sospetto è l’anticamera della verità».

Al punto che perfino l’attentato alla villetta all’Addaura, di cui Falcone fu vittima, si ritorse contro di lui. Sventato con la scoperta in extremis della carica di tritolo, il giudice ne trasse due indizi: che la mafia lo voleva morto e che tentava di ucciderlo adesso perché lo considerava più vulnerabile. Gli orlandiani sparsero la voce che era stata una messinscena di Falcone. La figura di Falcone, più che specchiata fino allora, perdeva smalto. Il Csm volle vederci chiaro e convocò il giudice a Roma.

La seduta si tenne il 15 ottobre 1991. In mezza giornata, di fronte a un sinedrio attento, Falcone smontò la trappola, fece alcune rivelazioni e inchiodò Orlando con alcuni giudizi che lo dipingono per l’eternità.«Orlando-disse-sarà costretto a spararle ogni giorno più grosse. Lui e i suoi sono disposti anche a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura». Spiegò che, contrariamente alle accuse del sindaco, «nei cassetti non c’erano prove, perché ormai erano stati tutti svuotati» e gli eventuali accantonamenti erano solo «indagini fatte male».

Se poi il sindaco si è incattivito, è perché non ha digerito l’arresto di Vito Ciancimino, il mafioso. Ma come proprio Orlando, che dell’antimafia ha fatto una religione, prende cappello se sbattono don Vito in gattabuia? Eh sì, rivela Falcone- e questa è davvero bella- «perché nonostante un sindaco come Orlando (ironia?, ndr ) la situazione degli appalti a Palermo continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare sottobanco…». Ecco, dunque, messi a nudo gli altarini: Leoluca ce l’aveva col giudice perché gli aveva arrestato il Cianci. Oltre, naturalmente, avergli mandato a monte il piano contro Andreotti.

Verso la fine dell’udienza,il giudice fa un affresco della Palermo del duo Orlando-Pintacuda. «Non si può andare avanti in questa maniera… è un linciaggio morale continuo… Facendo come fanno loro le conseguenze saranno incalcolabili. Ma veramente incalcolabili». Le ultime parole dell’arringa sono da incidere nel bronzo: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità; la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo». Poi, prima di lasciar il Csm, il giudice aggiunse stancamente, senza sapere – o forse sì? – quanto fosse profetico: «Mi stanno delegittimando. Cosa Nostra fa così: prima insozza la vittima, poi la fa fuori».

Falcone morì sette mesi dopo, il 23 maggio 1992, dilaniato con moglie e scorta dall’ordigno di Capaci. Orlando andò al funerale, ciuffo in doglie e aria del cane bastonato. Sul sagrato della chiesa, Maria Falcone, sorella dell’ucciso, lo affrontò: «Hai infangato il nome, la dignità, l’onorabilità di un giudice integerrimo».

E gli girò le spalle. Leoluca piagnucolò: «È una cosa che mi fa molto male». Di Orlando ci sarebbe molto altro da dire. Ma ho preferito utilizzare lo spazio per riassumere la vera storia tra lui e Falcone. Chi oggi li accomuna, come se fossero stati sulla stessa barricata, mente. I morti non parlano ed è sul silenzio di Falcone che retori e scribacchini hanno creato il gemellaggio fasullo del giudice e del sindaco, mettendoli sullo stesso altare. Chi è dalla parte di Falcone non può stare con Orlando. Ecco perché la scelta elettorale di Palermo è un brutto indizio. Giancarlo Perna, Il Giornale, 4 giugno 2012

LE PAZZE IDEE DI BERLUSCONI? SONO LE MIGLIORI DI CUI DISPONE IL PDL, di Francesco Damato

Pubblicato il 4 giugno, 2012 in Politica | Nessun commento »

Quel richiamo di Silvio Berlusconi, ieri, alle «cento battaglie» combattute per raccogliere «vittorie e sconfitte, come sempre è nella politica e nella vita», ha forse indotto qualcuno dei suoi tanti avversari, rimasti numerosi anche dopo i passi indietro o di lato da lui compiuti negli ultimi mesi, a chiedersi a quale Napoleone poterlo paragonare. A quello dell’Elba, per niente rassegnato alla disfatta e impegnato a tentare la sua disperata rivincita, destinata però a durare i soli e famosi cento giorni? O a quello di Sant’Elena, confinato in un’isola troppo lontana per fargli venire l’idea di rimettersi in gioco?
Di emuli di Napoleone, a loro stessa insaputa, già il buon Giulio Andreotti negli anni più fortunati e disincantati della sua lunga esperienza politica soleva ogni tanto segnalare sarcasticamente la presenza per contrapporre ai loro sogni di gloria la concretezza della sua «aurea mediocrità», come lui stesso si divertiva a definirla. Tra i napoleonidi egli soleva classificare, fra gli altri, quelli che nella sua Dc reclamavano la fine delle correnti o nei giornali, oltre che nelle stazioni, una gestione delle Ferrovie dello Stato finalmente capace di fare arrivare e partire i treni in orario anche in Italia. Dove lui si accontentava che i ritardi si riducessero il più possibile. Che era un po’ l’anticipo di quella filosofia di governo per cui «è meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
A questa filosofia è toccato di adattarsi qualche volta, se non spesso, anche a napoleonidi più o meno avvertiti o autentici, compreso il Cavaliere, almeno nella percezione dei suoi avversari o critici più acrimoniosi. Che proprio per questa sua disponibilità all’adattamento anche alle circostanze più sfortunate e scomode dovrebbero smetterla di scambiarlo per quello che non è, e neppure lui si sente, anche quando glielo dicono con il loro affetto ingenuo i nipotini ricevendone promesse e regali: un superman, visto che non hanno l’età per conoscere la storia di Napoleone e immaginare il nonno come un suo emulo. Arrivato alla politica e alla guida del governo diciotto anni fa proponendosi di rivoltare la prima e il secondo come un calzino, con un’opera di riforma finalmente radicale dello Stato, in un momento peraltro tanto drammatico quanto inquietante, essendosi proposti di rivoltare il Paese appunto come un calzino anche i magistrati della Procura di Milano, imitati da un numero crescente di colleghi e di uffici, Berlusconi ha dovuto poco napoleonicamente fermarsi o arretrare più volte. E ciò è accaduto per i suoi errori, di certo, come gli abbiamo ripetutamente rimproverato anche noi, qui, a Il Tempo, pur apprezzandone i progetti politici e la buona volontà. Ma anche, e spesso soprattutto, per i limiti dei suoi alleati. Fra i quali i leghisti, messisi di traverso nella scorsa estate sulla strada delle misure necessarie per fronteggiare la crisi economica e finanziaria, sono stati solo gli ultimi, non gli unici. Preceduti in anni non proprio lontani dalla destra di Gianfranco Fini e dai centristi di Pier Ferdinando Casini, che quando stavano con il Cavaliere gli impedirono, fra l’altro, la riduzione delle tasse e il contenimento della spesa pubblica, per esempio nel settore del pubblico impiego. Adesso tutto è peggiorato. Il Pdl è in crisi, quasi in evaporazione, anche se Berlusconi non se lo vuole sentir dire, ritenendo forse sufficiente che a saperlo sia lui. Che sa pure di non avere più personalmente il vento sulle vele, neppure quando cerca di soffiarlo con battute e «idee pazze», per ripetere le sue stesse parole, come quella di stampare euro per conto nostro o di uscirne, vista la vita impossibile che vuole propinare all’Europa la cancelliera tedesca fra le proteste e le preoccupazioni dei suoi stessi predecessori. Ma, per quanto «pazze», per quanto fantasiose, per quanto provocatorie, per quanto pronunciate nei panni di «allenatore» e non più di centravanti o capitano della sua squadra, scendendo alle immagini calcistiche che gli sono care e congeniali, quelle di Berlusconi continuano ad essere le sole, o le migliori, di cui disponga il Pdl. E Dio solo sa se potranno bastare a tirare fuori il partito ancora più rappresentato in Parlamento dal drammatico dilemma che il Cavaliere ieri, da uomo «positivo e costruttivo», ha voluto rifiutare contestando sia chi lo spinge a fare piazza pulita di tutto il «gruppo dirigente» sia chi spinge quest’ultimo a fare finalmente piazza pulita di lui. Il Tempo, Francesco Damato, 4 giugno 2012

.…………..Questa di Damato è una fotografia nitida di ciò che è stato e di ciò che è Berlusconi. Nella foto ci sono, insieme alui, tanti altri, citati o no. Ciascuno di questi altri se è senza peccato nell’agonia del centrodestra italiano, al netto di nani,ballerine (come la Fornero) e aspiranti primi attori,  tiri la classica prima pietra. g.

L’ASSOLUZIONE DELL’EX GOVERNATORE DELLA BANCA D’ITALIA, FAZIO, E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURE IN UN CLAMOROSO CASO GIUDIZIARIO

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Giustizia | Nessun commento »

ANTONIO FAZIOANTONIO FAZIO

Per una inchiesta della magistratura che ha fatto acqua da quasi tutte le parti, la Bnl è finita in bocca ai francesi di Bnp Paribas, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, si è dovuto dimettere insieme al capo della vigilanza, sono stati cambiati assetti di potere rilevanti in Italia parteggiando per alcuni e danneggiando altri. È stata violentata la storia stessa di questo paese, con un episodio che non è stato insignificante nel renderlo più debole e più suddito all’interno dell’Unione europea.

Non c’è solo una raffica di assoluzioni per non avere commesso alcun tipo di illecito nella sentenza di appello sulla scalata Unipol-Bnl del 2005. C’è soprattutto il mutamento artificiale degli assetti di potere economico e in fondo anche politico sulla scelta della magistratura di entrare a piedi uniti (e senza ragioni) in una vicenda finanziaria per modificarne il corso, come voleva all’epoca il gruppo di interessi politico-economici che si univa intorno al capitale della Rcs-Corriere della Sera.

Basterebbe andare a riprendersi le cronache di quel 2005 per trovare la violenza con cui quegli interessi si saldarono e vinsero la partita proprio grazie all’intervento della magistratura. Basta metterla confronto con la sentenza di appello di mercoledì per vedere come il film dell’epoca si fosse svolto tutto in contrasto con la verità, in ogni suo passo. La memoria evidentemente difetta a tutti, compreso l’attuale presidente della Bnl, che ha commentato la sentenza di appello sostenendo che la magistratura non fu all’origine di nessuna scelta societaria, perché alla fine fu Bankitalia a bloccare la scalata di Unipol alla Bnl aprendo la strada ai francesi che se la papparono.

Questo però avvenne nel gennaio 2006, quando ormai la spallata politico- finanziario-giudiziaria era avvenuta. Fazio e Frasca, capo della vigilanza, si erano già dimessi, l’offensiva giudiziaria infondata era nel pieno del suo fragore, la spallata mediatica contro la cordata Caltagirone- Statuto-Ricucci-Coppola e bresciani era già stata assestata con colpi che avevano tramortiti. Quel che avvenne dopo, compresa la firma dell’allora direttore generale della Banca d’Italia, Vicenzo Desario, allo stop che aprì le porte ai francesi, fusegno di una resa inevitabile,provocata da tutto il resto.

Piero FassinoPiero Fassino

Avevano ragione gli avvocati difensori degli imputati assolti mercoledì a dire che grazie ai pubblici ministeri di quella inchiesta l’Italia aveva perso una banca. La storia l’ha certificato, e la sentenza di appello ora l’ha semplicemente suggellato. Come la storia stessa ha tragicamente dimostrato la lungimiranza della politica di difesa del sistema nazionale del credito adottata dall’allora governatore Fazio di fronte alle scorribande di grandi gruppi stranieri con bilanci gonfi di titoli spazzatura.

Molti degli assalitori dell’epoca oggi non ci sono nemmeno più, finiti gambe all’aria e travolti dai derivati e della crisi finanziaria che li ha mostrati fragili e inconsistenti. Gran parte dell’aggravarsi della crisi italiana di questi anni è responsabilità di chi allora fece di tutto per fermare la Banca d’Italia e quella regia- poi rivelatasi assai saggia- del suo governatore.

MASSIMO DALEMA NICOLA LATORREMASSIMO DALEMA NICOLA LATORRE

Oggi Fazio si gode l’assoluzione con la famiglia e non cerca rivincita (ha risposto grato e rapido agli amici che gli hanno telefonato nelle ultime ore), ma sa che quella storia che lo mise fuori gioco oggi va profondamente riscritta. Nella sentenza Unipol-Bnl è restata una sola doppia condanna, e un solo fatto illecito: quello delle telefonate fra Consorte e i vertici dei Ds dell’epoca, da Piero Fassino, Massimo D’Alema e Nicola Latorre. In quei colloqui fu consumato il reato di insider trading, fornendo agli interlocutori informazioni finanziarie di cui il mercato non era in possesso.

Questo fatto -l’unico fatto della sentenza di appello- ieri non è stato nemmeno citato in titoli e occhielli di tutta la stampa italiana (con rarissime eccezioni). Né sono arrivate le scuse di Eugenio Scalfari che nel 2005 tuonò contro chi (Maurizio Belpietro e Gianluigi Nuzzi e Il Foglio) pubblicò quelle telefonate dove si era compiuto il solo reato di tutta la vicenda definendo le cronache giornalistiche «una mattanza contro i Ds». Franco Bechis, Libero, 2 giugno 2012

PUO’ LA POLITICA DICHIARARSI AUTONOMA DALLA MORALE? SECONDO IL LIBERAL DEMOCRATICO oSTELLINO SI, DI DIVERSO AVVISO MASSIMO FINI CHE SCRIVE…

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

In un pensoso articolo pubblicato sul Corriere del 20/5 Piero Ostellino ci spiega, in termini filosofici, la storia italiana degli ultimi decenni. È stato grazie all’”autonomia della politica dalla morale” (linea culturale che nel nostro Paese ha una lunga tradizione da Machiavelli a Croce) se l’Italia ha potuto progredire e prosperare attraverso, “piaccia o non piaccia”, l’evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, l’illegalità diffusa.

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Insomma la politica ha affermato il primato del “principio di realtà“, di ciò che effettivamente è, sul moralismo, così lo chiama Ostellino, del “dover essere”. A parte che non si vede alcuna ragione ragionevole per cui questa “autonomia dalla morale” spetti solo alla politica e non anche al singolo individuo nel perseguimento dei suoi interessi, il discorso di Ostellino, gli piaccia o no, è prettamente hegeliano: “Tutto ciò che è reale è razionale”.

PIERO OSTELLINO - Copyright PizziPIERO OSTELLINO -

E quindi finché rimane tale deve prevalere su ogni altra considerazione se non si vuole andare a sbattere il muso contro “le dure repliche della Storia”. Solo che questa primazia del “principio di realtà” sulla morale (che in politica estera prende il nome di “real politik”) porta molto lontano. Porta al grido disperato di Ivan Karamazov: “Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”.

Se non c’è Dio, se non c’è un principio superiore, religioso o laico che sia, che regoli i rapporti fra umani al di fuori e al di là del “principio di realtà“, tutto diventa lecito. Perché mai Hitler non avrebbe dovuto, in nome di quel principio, sterminare gli ebrei, padroni della finanza tedesca, fino al loro ultimo discendente? Perché non si dovrebbero ammazzare, se ciò viene comodo, bambini siriani o afghani?

Perché, più modestamente, non si dovrebbe rubare, taglieggiare, corrompere se questo aiuta, poniamo, l’economia? La questione da etica diventa puramente estetica. Non è bello rubare, non è bello inchiappettare i bambini, non è bello stuprare, ma se non esiste la morale, se è il “principio di realtà“, che è poi il diritto del più forte, a dover prevalere, in nome di che dovrei impedirmi di soddisfare i miei appetiti?

NietzscheNietzsche

Il mio non è un discorso moralistico e nemmeno morale. Friedrich Nietzsche, in Genealogia della morale, ha splendidamente spiegato che la morale non ha nulla a che fare con la morale. Ma con l’utilità. Nasce perché gli uomini seguendo liberamente i propri appetiti non si massacrino l’un l’altro (“homo homini lupus”) finendo così per autodistruggersi e per distruggere la comunità in cui vivono. Che è proprio il contrario dell’individualismo sfrenato, liberaldemocratico, sostenuto da Ostellino.

Una comunità non si sostiene e sopravvive solo sul principio di Libertà ma anche, e forse soprattutto, su quello di Autorità senza il quale si dissolve. La diarchia Libertà/Autorità non è così pacificamente scioglibile a favore della prima come noi crediamo. Fedor Dostoevskij nell’apologo de Il Grande Inquisitore inserito ne I fratelli Karamazov, ha messo a fuoco questo eterno dilemma in trenta straordinarie pagine che restano le più profonde dedicate alla questione.

Ma per scendere dall’empireo dei Grandi sulla terra, cioè su questa povera, indecente, inguardabile Italia, vale ciò che disse venti anni fa in Tv l’infinitamente più modesto Beppe Grillo e che gli costò la cacciata dalla Rai: “Se tutti rubano non resta più nessuno a cui rubare”.

Non c’è più trippa per i gatti. Ed è esattamente la situazione in cui, grazie anche alle elucubrazioni di Ostellino e di tutti gli innumerevoli Ostellini di questo Paese, siamo precipitati. Massimo Fini, Il Fatto quotidiano, 2 giugno 2012

……………..Ha ragione Massimo Fini, pur nella estremizzazione della interpretazione del pensiero di Ostellino che di certo non pensa che Hitler abbia potuto trovare giustificaizoni nel genocidio degli ebrei

L’UNICO TERREMOTATO AL QUIRINALE: IL GRANA PADANO…

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Costume, Politica | Nessun commento »

Di terremotati al Quirinale c'era solo il Grana Padano

L’unico modo per evitare polemiche sulla festa del 2 giugno al Quirinale mentre un’intera Regione, l’Emilia Romagna, è in ginocchio per il terremoto era non celebrare quella festa. O farlo diversamente. Con meno invitati, spesso imbucati o semplice vippume assai poco rappresentativo della Repubblica, Oppure organizzare l’evento in una città simbolo come Reggio Emilia, patria del Tricolore e a poche decine di chilometri dai luoghi disastrati del sisma. Ma il presidente Giorgio Napolitano ha detto no, perché la parata militare ai Fori Imperiali a Roma (più dimessa rispetto agli ultimi anni) si doveva fare in quanto già organizzata. Ma il pomo della discordia è quel cocktail sul Colle che ha raccolto 2.000 persone tra politici, giornalisti, attori, saltimbanchi e varia fauna difficilmente classificabile. L’intellighenzia che si merita quest’Italia, insomma. E per fortuna che si parlava di sobrietà: dare un’occhiata alle foto pubblicate da Libero e Liberoquotidiano.it per farsene un’idea. L’unico terremotato presente al Quirinale con ogni probabilità era il Grana Padano, presente in gran quantità per allietare gli invitati (tra cui non c’erano, nota di merito per gli assenti, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani).

Al Quirinale ieri sera è andata in scena la più ostentata delle feste della Repubblica sobria. L’ha voluta fare a tutti i costi, Giorgio Napolitano, ma non è riuscito ad avvisare per tempo tutti i duemila invitati sugli abiti da scena da indossare per l’anti-evento. Così qualche signora ha varcato lo stesso l’ingresso laterale di via XX settembre pensando di andare alla prima della Scala. Saranno state una cinquantina almeno, di tutte le età, le lady che hanno sgarrato al protocollo imposto dal Colle per la grande sceneggiata. Il costo del grande evento non è naturalmente cambiato di un centesimo rispetto al budget di una settimana prima: i contratti sono contratti e vanno rispettati, altrimenti si pagano penali praticamente uguali al preventivo. E così è accaduto con il catering Nicolai, ormai legato al nome di Napolitano come quello del Relais le Jardin era legato a quello di Gianni Letta. “Aperitivo rinforzato”, era il nuovo ordine allo stesso prezzo di prima. E aperitivo rinforzato è stato: tartine, e parmigiano reggiano al centro delle tavolate giusto per metterci qualcosina che ricordasse il terremoto in Emilia. Vino intitolato a Placido Rizzotto e comprato dalla associazione Libera di don Luigi Ciotti, per ostentare un po’ di sobrietà in più. Musi lunghi fra gli ospiti. E soprattutto il gran desiderio di non essere pizzicati dai fotografi e finire sui giornali. Libero, 2 giugno 2012

BERLINO RIPETE L’ERRORE E DISTRUGGE L’EUROPA, di Marlowe

Pubblicato il 2 giugno, 2012 in Economia, Politica | Nessun commento »

La disoccupazione in Italia vola al 10.9% nel primo trimestre 2012, era all’8.6 un anno fa. Si tratta di 646 mila donne, uomini e soprattutto giovani che hanno perso il lavoro. A loro si aggiungono altri 38 mila tra marzo e aprile. Il resto d’Europa non sta meglio: la zona euro (11 per cento di disoccupazione) peggio dell’Unione a 27 (10.3), il che la dice lunga su che cosa sia diventata la moneta comune.
E attenzione: nell’eurozona provvedono ad abbassare la media la Germania, con disoccupati in calo al 5.4, l’Austria (3.9), l’Olanda (5.2). Se volevamo una rappresentazione sulla pelle della gente di che cosa sia lo spread, eccola. La Germania e i suoi alleati, che si finanziano a tasso zero il debito pubblico e forniscono denaro al settore privato, aumentano posti di lavoro e retribuzioni. Tutti gli altri nel girone infernale: noi come la Francia, e la Spagna che ha ormai più disoccupati della Grecia.
Colpa solo dell’egoismo teutonico? Certo che no: Atene, lo sappiamo, ha truccato i conti (ma questo accadeva tre anni fa), Madrid ha le banche in disordine. Ciò che però aumenta in misura direttamente proporzionale all’acuirsi dei problemi è l’indifferenza dell’establishment berlinese. Poche ore dopo la diffusione dei dati sul lavoro, la Bundesverband deutscher Banken (Bdb), l’associazione delle banche tedesche, si è detta contraria a un fondo europeo di garanzia dei depositi. È una misura minima – in Italia funziona dalla crisi del 2008 – per evitare l’assalto agli sportelli. Peccato che la stessa Bdb abbia comunicato con preoccupazione l’esposizione di Francoforte e dintorni – soprattutto la Commerzbank – verso la Spagna, con investimenti immobiliari per 112 miliardi di euro che ora il sistema finanziario renano cerca di ridurre con un ritiro di capitali da 90 miliardi. In questo caso nulla da dire in fatto di azzardo morale, denaro dei contribuenti e quant’altro? Oltre tutto sarebbe il caso di ricordare che già nel 2009 il governo della Merkel ha fatto approvare dal Bundestag una legge che consente di nazionalizzare le banche, tagliata su misura per la Hypo Real Estate, specializzata in «pfanbriefe»: la versione germanica dei subprime americani. Ma secondo Berlino se la Spagna (e anche noi) ricapitalizzasse le banche dovrebbe mettere l’equivalente nel bilancio pubblico; la Germania no, potrebbe conteggiarlo a parte utilizzando le deroghe impiegate a mani basse per la riunificazione.
La faccenda è stata al centro di una lite tra la Merkel, Barack Obama, Francois Hollande e Mario Monti durante la teleconferenza di mercoledì pomeriggio. La Cancelliera ha pronunciato tutti «nein»: «Non regaleremo soldi alle banche spagnole». Ecco perché poche ore dopo Monti ha detto «la Germania deve riflettere profondamente e rapidamente». Parole chiare solo agli addetti ai lavori, e infatti un’altra caratteristica di questa crisi è l’opacità delle informazioni a opinioni pubbliche sempre più allarmate. Che però capiscono quanto basta: il lavoro si riduce ovunque, tranne in Germania e dintorni. Il denaro si restringe per tutti, a eccezione della Germania. Ma la Germania impone alla Grecia, con il 25 per cento di disoccupati ed il 50 per cento tra i giovani, di tagliare immediatamente 15 mila posti di lavoro nel settore pubblico, e altri 200 mila nei prossimi anni. E chiede alla Spagna, dopo averne foraggiato le speculazioni finanziarie, di cavarsela da sola, possibilmente non disturbando le vacanze sulla Costa del Sol dei pensionati di Colonia e Monaco di Baviera. In tutto ciò lampeggiano sinistri bagliori di storia. Non solo ad Atene o a Roma. Ha detto al Corriere della Sera Joschka Fischer, già ministro degli Esteri della coalizione rosso-verde di Gerhard Schroeder: «Per due volte nel Ventesimo secolo la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l’integrazione europea abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo». In termini più pragmatici lo conferma lo stesso Schroeder: «Quello che fa il governo tedesco non ha alcun senso né politico né economico». Ma allora perché la Merkel dice solo dei no? «Semplice: perché pensa in termini elettorali, di potere politico interno. E sbaglia: perderà le elezioni». Non sappiamo se l’ex cancelliere difenda il proprio orto. Ma osserviamo certi segnali, che spesso valgono più di tante analisi. La vittoria dei socialisti in Francia su una linea anti-Merkel ha fatto esultare chi non ha mai pensato di votare a sinistra. Esattamente come l’80 per cento degli europei (stime dei network televisivi) ha fatto il tifo per il Chelsea nella finale di Champions contro il Bayern. Ieri Silvio Berlusconi ha detto: «Si deve porre il problema della Germania in Europa. Se continua così, esca dall’euro». Questo, e non l’«idea pazza», anzi balorda, che l’Italia cominci a stampare euro con la propria zecca, è il nocciolo del problema. La Germania contro il resto d’Europa? Misurate i fischi alle Olimpiadi di Londra. Marlowe, Il Tempo, 2 giugno 2012