Il Venerdì Santo di quindici anni fa, nel gelo del Castello di Stormont a Belfast, le due fazioni irlandesi che si erano combattute per trent’anni e tremila morti fecero pace. Alla trattativa erano presenti uomini che, dal versante cattolico e da quello protestante, avevano guidato milizie armate e avevano personalmente ordinato uccisioni e stragi degli avversari. Eppure ne nacque un governo comune dell’Irlanda del Nord.
Nel Venerdì Santo del 2013 i partiti italiani, che non escono da una guerra civile e che dovrebbero avere nel loro Dna l’attitudine al compromesso su cui si basano le democrazie, non sono stati capaci di dire di sì al presidente Napolitano e di dar vita a un governo. Non c’è neanche un punto di contatto fra i tre maggiori partiti: Grillo non vuole fare niente, Berlusconi vuole fare solo un governissimo impossibile perché il Pd lo rifiuta, e il Pd accetterebbe solo un governicchio dopo il fallimento di Bersani.
La gravità della crisi che sta sconvolgendo la Repubblica è tutta qui. La legge elettorale non riesce più a dare una maggioranza al Parlamento. Il Parlamento non riesce più a dare un governo al Paese. Il presidente è chiamato costantemente a riempire i vuoti di una democrazia parlamentare che ormai cammina come un ubriaco sull’orlo della Costituzione. E meno male che si tratta di Giorgio Napolitano, uomo di cui nessuno, né Berlusconi che sette anni fa si rifiutò di votarlo, né Grillo che appena qualche mese fa lo insolentiva, osa più negare l’imparzialità e il senso patriottico.
Però neanche Napolitano può più fare miracoli. È in scadenza di mandato. Non dispone dell’arma dello scioglimento anticipato. Non può forzare la mano ai partiti costringendoli a un governo del presidente, perché tra qualche settimana il presidente sarà un altro.
Stavolta solo un accordo tra i partiti può risolvere il rebus. Solo se c’è un compromesso, Napolitano può dargli un nome e una forma. Se non ci sarà, se nessuno mollerà neanche un po’ delle sue ambizioni elettorali, personali o processuali, i partiti aggraveranno la crisi di sistema fino a coinvolgervi la Presidenza stessa, costringendo quella attuale a rinunciare anzitempo al mandato. Sarebbe una scelta drammatica, più un atto di accusa che un atto di dimissione, soprattutto da parte di un uomo come Napolitano che al servizio delle istituzioni non ha mai rinunciato. E sarebbe un parto prematuro della Presidenza futura, esposta al rischio di nascere con la tara di una scelta partigiana che contrasta con la lettera e lo spirito della Costituzione.
Nella lunga notte della politica italiana che dura da due settennati, solo il Quirinale è finora uscito miracolosamente indenne dall’incendio delle istituzioni. Coloro che abbiamo eletto stanno per appiccare il fuoco anche all’ultimo Colle della Repubblica? Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 30 marzo 2013
.…….Non è un grido di dolore nè una invocazione quella di Polito, ex senatore del PD e per questo ancor più credibile in quwesta sua esortazione. Che è un imperativo per quanti in queste ore hanno nelle mani il futuro del nostro Paese, dal quale non possono e non debbono disertare. Anche se sono capaci di farlo.g.
Ho fatto un sogno. Bersani torna al Colle (meglio tardi che mai) e ci torna a mani vuote. Senza un «sostegno parlamentare certo» al proprio tentativo, come gli aveva invece chiesto il presidente. Sicché quest’ultimo lo accompagna alla porta, sia pure con rammarico; e si prepara a sparare un secondo colpo di fucile. Subito, perché di gran consulti ne abbiamo visti troppi, e perché di tempo non ce n’è. Dunque Napolitano individua un nuovo vate, ma nel mio sogno pure lui incespica sui veti, pure lui torna al Quirinale senza voti.
Perciò arriviamo più o meno al 5 aprile, quando mancano quaranta giorni all’insediamento del prossimo capo dello Stato. Ma intanto il vecchio presidente non ha più cartucce da sparare, né tantomeno può usare l’arma atomica, lo scioglimento anticipato delle Camere. Non può perché è in semestre bianco; il colpo di grazia, semmai, spetterà al suo successore. E nel frattempo? Stallo totale, blocco senza vie di sblocco. I partiti si danno addosso l’uno all’altro, mentre i mercati infuriano, le cancellerie s’allertano, le imprese fuggono, i disoccupati crescono, le piazze rumoreggiano. L’Italia si trasforma in un bersaglio mobile (anzi no, immobile). Il mio sogno si trasforma in incubo.
No, quaranta giorni così non li possiamo proprio vivere. Sarebbe da pazzi, un suicidio nazionale. Ma sta di fatto che il seme della follia ha ormai attecchito nella nostra vita pubblica. Il Pdl accetta patti col Pd se quest’ultimo patteggia il Quirinale: lo scambio dei presidenti. A sua volta, Bersani inaugura una singolare forma di consultazioni: le consultazioni al singolare. Ossia con singoli individui (Saviano, Ciotti, De Rita), oltre che con il Club alpino e il Wwf. Nel frattempo il suo partito discetta sull’ineleggibilità di un uomo politico (Silvio Berlusconi) già eletto per sei volte. La minuscola pattuglia di Monti viene dilaniata da lotte intestine: la scissione dell’atomo. Il Movimento 5 Stelle disdegna tutti i partiti rappresentati in Parlamento: l’onanismo democratico. E per sovrapprezzo il ministro dimissionario d’un governo dimissionario (Terzi) si dimette in diretta tv: le dimissioni al cubo.
Come ci siamo ridotti in questa condizione? Quale dottor Stranamore ha brevettato il virus che ci sta contagiando? Perché il guaio non è più tanto d’essere un Paese acefalo, senza un governo sulla testa. No, la nostra disgrazia è d’aver perso la testa, letteralmente. Stiamo in guardia: come diceva Euripide, «quelli che Dio vuole distruggere, prima li fa impazzire». Eppure in Italia non mancano intelligenze né eccellenze. C’è un sentimento d’appartenenza nazionale che non vibra unicamente quando gioca la Nazionale. C’è una domanda di governo che sale da tutti i cittadini. E a leggere i programmi dei partiti, i punti di consenso superano di gran lunga quelli di dissenso, come la legge sul conflitto d’interessi: sicché basterebbe lasciarla in quarantena per un altro po’ di tempo, in fondo la aspettiamo da vent’anni.
Una cosa, però, dovrebbe essere chiara. Se fallisce il governo dei partiti (quello incarnato da Bersani), c’è spazio solo per un governo del presidente, votato in Parlamento ma sostenuto dall’autorità di Giorgio Napolitano. Anche se quest’ultimo a breve lascerà il suo incarico, anche a costo di sperimentare l’ennesima anomalia istituzionale: il governo dell’ex presidente. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 28 marzo 2013
…..Il prof. Ainis è un illustre costituzionalista, docente di diritto costituzionale alla Università Roma 3, autore di molti saggi di politica e anche di costume. L’ultimo dei quali, da poche settimane in edicola, ha un titolo che è un programma: Privilegium ed è nello stesso tempo un trattato giuridico e di costume. E’ una elencazione dei privilegi di cui godono infinite caste italiane la maggior parte dei quali fonda sul sistema delle deroghe. Scrive Ainis che le deroghe alla regola sono di per sè e sempre privilegi per alcuni, spesso per pochi. Di qui, scrive Ainis, la peggiore anomalia italiana. Anche questa nota che racconta di un sogno che è invece sempre più una terribile realtà è una nota di costume che affonda le sue radici nel diritto: il diritto degli italiani ad essere governati, possibilmente saggiamente, da quelli che abbiamo eletto a nostri rappresentanti. Ma forse anche questo è solo un sogno….g.
Se la situazione non fosse seria, anzi drammatica, ci sarebbe da ridere. Bersani, alla ricerca del sostegno per una maggioranza di governo, su incarico di Napolitano e in attesa del miracolo, ieri ha fatto alcuni giri di valzer che, vista l’ora (era fissata la Direzione farsa del Pd) non hanno compreso anche il portiere di casa sua. Era veramente urgente e plausibile parlare con Saviano, con don Ciotti, con la Gioventù federalista? Non se ne abbia il segretario Pd se poi sui social network si sprecano i commenti di fuoco. È proprio necessario arrivare fino a giovedì per riferire al presidente Napolitano che non perde occasione per ricordargli di far presto?
Inascoltato il grido d’allarme del leader di Confindustria Squinzi, anche il segretario Cgil, Susanna Camusso, di certo non grillina, ha insistito su più spesa pubblica, meno imposte e, addirittura quasi berlusconianamente, togliere il pagamento dell’Imu sulla prima casa fino a mille euro. Con un’ultima frecciata al compagno Pier Luigi: la trasparenza nei costi della politica non deve essere la priorità. Bersani invece mentre continua a respingere al mittente la proposta del Pdl, di un governo di larghe intese con lui stesso premier e il segretario del Pdl vice, preferisce immaginare un cambiamento sostenuto da «corresponsabili». Ovvero? Grillo e Monti? E se il rischio implosione del Pd non lo tange, le voci di un possibile downgrade di Moody’s non lo sfiorano e neanche le parole del presidente Dijsselbloem lo spaventano: il salvataggio di Cipro, con il prelievo sui conti bancari, è un nuovo modello da seguire in tutti i Paesi a rischio. Italia compresa.
Bersani sta perdendo tempo. Gli italiani stanno perdendo tutto. Compreso l’ottimismo.Sarina Biraghi, Il Tempo, 27 marzo 2013
«Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Questo giudizio di Alessandro Manzoni – riferito alla psicosi collettiva legata alla peste raccontata nei Promessi sposi – potrebbe ben applicarsi anche all’attuale situazione politica italiana. Una situazione nella quale il buon senso sembra appunto essersi eclissato, a giudicare dalle dichiarazioni e dai comportamenti dei principali attori politici. Il M5S non si stanca di ripetere che non voterà mai per alcun governo, considerando le trattative e gli scambi che pure costituiscono l’essenza della politica come qualcosa di totalmente inaccettabile. Ma, data questa situazione, stupisce che allora gli altri due principali attori, Pd e Pdl, non riescano a consentire la nascita in qualunque forma di un governo limitato a pochissimi (e sostanzialmente obbligati) punti programmatici. La necessità di un tale governo appare tanto più stringente visto che eventuali elezioni rischierebbero di produrre, con ormai tre blocchi di quasi eguale consistenza, una situazione di ingovernabilità forse perfino maggiore dell’attuale (nessuno può escludere infatti che le nuove Camere possano avere due diverse maggioranze).
Son cose che si fa perfino fatica a ripetere ancora, tanto dovrebbero essere ovvie, per chi abbia conservato un minimo di buon senso. Ma, appunto, il buon senso sembra essere fuggito via, sotto il dilagare impetuoso di un senso comune caratterizzato dal pregiudizio antipolitico. Non si dirà mai abbastanza, naturalmente, che un tale pregiudizio aveva e ha molte giustificazioni nei privilegi di un ceto politico spesso incapace di guardare ad altro che agli interessi di partito o addirittura ai vantaggi personali dei suoi singoli appartenenti (in termini di denaro, potere, influenza). Ma una parte dell’establishment politico del centrosinistra, dopo non aver fatto nulla per ridurre davvero i propri privilegi (in questo perfettamente imitato dal Pdl), sembra ora soprattutto incline a rincorrere le opinioni e idiosincrasie degli elettori cinquestelle, nella speranza che in tal modo i voti persi possano tornare a casa. Abbiamo visto i neopresidenti di Camera e Senato che, dopo aver tagliato del 30% le proprie indennità, hanno finito per modificare il senso della propria autonoma e saggia decisione accettando subito la richiesta di un ulteriore ribasso (-50%) venuta da Grillo. Abbiamo visto in Val di Susa un esponente del Pd che, non si sa bene a quale titolo, offriva ai grillini uno scambio tra la fiducia a Bersani e l’archiviazione della Tav.
È stata l’affannosa rincorsa del senso comune antipolitico a dar vita anche alle liste di eventuali ministri che filtrano dai vertici pd: ministri scelti appunto con l’intento primario di ottenere il voto di una parte almeno dei senatori grillini. In una politica così priva ormai di lucidità (qualcuno ha sentito esponenti del Pd o del Pdl riflettere sul serio sui – rispettivamente – 3,5 e 6 milioni di voti persi alle ultime elezioni?) c’è da sperare che almeno la scelta del nuovo presidente della Repubblica avvenga all’insegna di un ampio consenso. Ogni candidatura che fosse, o soltanto apparisse, dichiaratamente di parte rappresenterebbe, infatti, proprio ciò di cui un Paese diviso – per vent’anni politicamente spaccato in due, oggi addirittura in tre – ha meno bisogno. Il Corriere della Sera, Giovanni Belardelli, 26 marzo 2013 | 8:12