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IL “CALIFFO” NON CI INCANTERA’ PIU’

Pubblicato il 31 marzo, 2013 in Costume, Cronaca | No Comments »

Franco Califano è morto ieri nella sua casa ad Aci­lia in seguito a una crisi respiratoria. Era nato a Tripoli, il 14 settembre del 1938.

Cantante, ma anche attore, scrittore e personaggio tv, il «Calif­fo » è stato autore di molti brani di successo. Era malato da tempo ma solo pochi giorni fa, il 18 mar­zo, si era esibito al Teatro Sistina di Roma.Con lui scompare a 75 anni il musicista romano dopo una vita davvero spericolata: piena di successi ma anche di momenti durissimi

C’era, certo che c’era un filo diretto tra la sua voce e quelle pa­role, intense, robuste eppure po­etiche, mai usate per caso e sem­pre nel posto giusto, nella canzo­ne giusta. Gli veniva così, a Fran­co Califano. I suoi toni e il roboa­re dei bassi le vestivano poi con un taglio sartoriale, neppure una piega. Ciao Maestro.
Avete mai sentito Tutto il resto è noia cantata da un altro? È paro­distica, quasi.C’è quel verso,«la barba fatta con maggiore cura», attenzione: «maggiore» e non «maggior»,che non poteva esse­re che suo. Popolano ma aristo­cratico. Agghindato a festa ma per un giorno qualunque. Aveva quel dono, Franco Califano, lo swing che ti porta fino all’aggetti­vo perfetto, alla metafora, all’al­lusione che spiega tutto ma nep­pure lui sapeva spiegarsi come facesse. «Me vengono» sorride­va, e così diceva anche dei suoi sonetti d’amore e di sesso. Oggi che non c’è più,morto da solo in casa, proprio lui che la apriva sempre agli amici, sarà un tem­porale di retorica sul grande au­tore che tutti diranno di aver sempre adorato.
In realtà non è così, e lui lo sa­peva benissimo, se ne rammari­cava, tra sé e sé si chiedeva come mai, ma com’è possibile. Ha scritto testi favolosi che si sono persi nel vuoto, e persino nel suo debutto, lo sconquassato singo­lo Ti raggiungerò del 1965, c’è il guizzo del talento che poi il di­sco L’evidenza dell’autunno ,
1973, aveva spiegato canzone dopo canzone, ammutolendo chi non s’aspettava che questo borgataro alto e spaccone, bello come Marlon Brando e vizioso come Steve McQueen, sapesse anche scrivere versi non eversivi né utopici ma semplicemente poetici, innamorati del bello e non di loro stessi. Mai autorefe­renziale, altro che, il Califfo. «Mi piace scrivere per altri, perché mi siedo lì, mi immagino di esser loro e però di parlare con il mio cuore».
Ha composto Minuetto , capo­lavoro. E ha firmato con Mino Reitano Una ragione di più , uno dei brani più belli, struggenti e passionali della nostra canzone d’autore, spesso sottovalutato perché orfano di impegno politi­co o­di visionarietà ideale ma fra­goroso e italianissimo nella co­struzione e nello sviluppo. An­che per questo Califano, che non ha mai dominato le classifi­che né riempito gli stadi, è diven­tato così popolare, amato, imita­to e parodiato fino alla noia. Se gi­rava per Roma, era realmente il Califfo. Bastava che prendesse la sua spider,e una volta l’ha fat­to anche con me dal centro fino a Fiumicino, e chiunque lo ricono­scesse gli sorrideva, si spostava, lo salutava manco fosse il vicino di casa che gli era andata bene.
Intanto, non sempre gli era an­data così bene. Finché erano i de­ragliamenti d’amore, pazienza, magari faceva arrabbiare qual­cuno ma poi basta. Ma nel 1970, quando finì nei guai nella vicen­da di Walter Chiari per possesso di stupefacenti, e nel 1983 sconfi­nò nel caso Tortora per droga e possesso d’armi, fu sempre as­solto con formula piena dalla corte ma comunque condanna­to dai cortigiani a esser sempre quello lì, quello ai confini, quasi un personaggio da commedia al­l’italiana. «Lo so, ma me ne im­porta poco» diceva. E poi lui era così, soffriva ma non lo ammette­va manco a pagarlo. Anzi: prima di uscire da Regina Coeli trascor­se le ore d’aria della vigilia sem­pre al sole, «così quando mi ve­dono abbronzato capiscono che sto bene e non sono battu­to ».
Già. E sorrideva fuori dalla por­ta, come sorrideva quel giorno. «Dimenticai di colpo un passato folle in un tempo piccolo» scris­se anni dopo in un altro capola­voro come Tempo piccolo , che ha un verso che lo spiega tutto, questo Califano nobile borgata­ro: «Dipinsi l’anima su tela ano­nima e mescolai la vodka con l’acqua tonica».In fondo,che an­dasse al Festival di Sanremo o a Music Farm o che fosse sul palco del Sistina di Roma come pochi giorni fa per l’ultima volta,Califa­no si dipingeva sempre su tela anonima, nel disperato e dolce bisogno di aiuto che ti impone la solitudine quando scopri che è l’unica fidanzata che riesci a non tradire. ……Ci accompagnato, come nessun  altro,   nella nostra giovinezza. Continueremo ad ascoltarlo,  commuovendoci, come sempre.

IL GOLPE DI NAPOLITANO, L’ULTIMO RE DI ROMA di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 31 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

Il presidente Napolita­no ha deciso di non decidere. Non un nuo­vo incarico, non la conferma di quello dato giorni fa a Bersani, non le di­mi­ssioni ventilate nelle ulti­me ore.

Non avremo quindi un nuovo governo, né tor­neremo a votare. In com­penso due commissioni composte da presunti saggi incaricati da Napolitano stesso tenteranno di sbro­gliare la matassa. Cioè il nul­la assoluto, ben sapendo che in Italia le commissioni si insediano quando si vuo­le prendere tempo invece che risolvere il problema. Ma non solo. Detto con ri­spetto, il Quirinale non ce la dice giusta, né tutta. Per questo ci poniamo qualche domanda. 1) Napolitano l’altra sera aveva lasciato intendere che in mancanza di soluzio­ne si sarebbe dimesso per accelerare la nomina del suo successore, non poten­do lui sciogliere le Camere in scadenza di mandato. Perché nella notte ha cam­biato idea, allontanando co­sì il voto? E con chi si è consi­gliato? Forse le stesse «enti­tà » che lo spinsero, nel no­vembre del 2011, al blitz che insediò Monti e il gover­no dei tecnici pur di sbarra­re la strada sia a Berlusconi sia alle elezioni anticipate? 2) Come mai il custode della Costituzione ha fatto una scelta senza preceden­ti e palesemente incostitu­zionale come quella di dare il mandato esplorativo a due commissioni? E per­ché permette a un governo, quello di Monti, di restare in carica e operare senza aver avuto la fiducia del nuovo Parlamento? La co­sa non sta in piedi da qua­lunque parte la si giri.
3) Grillo ha teorizzato che si può governare senza go­verno (dove non vuole né può entrare) perché basta il Parlamento (dove lui è deci­sivo). È un caso che questa operazione lo accontenti?
4) Ed è ancora un caso che a trarre enorme vantag­gi­o da questa melina sia so­lo il Pd, sconfitto prima nel­le urne e poi dall­a sciagura­ta scelta di Bersani di esclu­dere il Pdl? La sinistra era in­fatti con le spalle al muro: o elezioni o accordo con Ber­lusconi. Napolitano le ha spianato la via d’uscita e concesso il tempo per rior­ganizzarsi. Più in là saran­no eventuali elezioni, più è possibile per il Pd rottama­re definitivamente Bersani e schierare Renzi, avversa­ri­o ben più ostico per il cen­trodestra.
5 ) Come mai a Bersani non è stato ritirato il manda­to esplorativo ch­e gli era sta­to affidato la scorsa settima­na? Strano, no?
6) Sta di fatto che l’amico (di Napolitano) Mario Mon­ti potrà continuare a con­trollare indisturbato le leve economiche del Paese in mesi complicati e decisivi. Non è che per caso la Ger­man­ia e le centrali finanzia­rie e bancarie internaziona­li, che con Monti si trovano benissimo, abbiano chie­sto a qualcuno garanzie in tal senso?
7) Insomma, chi coman­da in questo Paese? C’è più che qualcosa di losco in que­sta operazione. Sa di golpe, di un tentativo per congela­re gli inaspettati otto milio­ni di voti raccolti dal centro­destra e imbrigliare la vo­lontà popolare. Non c’è da fidarsi. Alessandro Sallusti, 31 marzo 2013

……Cosicchè non siamo stati gli unici a sobbalzare sulla sedia nell’ascoltare le decisioni di Napolitano dopo la constatazione che Bersani non aveva i numeri per fare il governo, cioè la nomina di una decina di persone, chiamati enfaticamnete  “saggi”  con il compito di mettere d’accordo quelli che non si sono messi d’accordo sinora. Peggio è stato apprendere i nomi dei saggi. Brave persone, come una decina di milioni in Italia, uno più,  uno meno. I quali dovrebbero mettere su o giù sulla carta  ciò che da una decina d’anni non riesce ai partiti di cui tutti o quasi  questi cosiddetti saggi sono espressione: una nuova legge lettorale che piaccia a tutti, interventi urgenti in materia economica e per la crescita  condivisi tutti, rimodulaziine dell’IMU che piaccia  a tutti, etc, etc. Da ridere. Senza tralasciare che tra i cosiddetti saggi incaricati di trovare la “quadra” su questo pò pò di problemi c’è anche il presidente dell’ISTAT, il prof. Giovannini, lo stesso che incaricato di analizzare e confrontare le indennità dei parlamentari di tutta Europa al fine di omologare le indennità dei parlamentari italiani alla media europea, dopo una decina di mesi di indubitabile indefesso lavoro gettò la spugna dichiarandosi incapace di espletare il lavoro non riuscendo a districarsi nella giungla delle indennità parlamentari europee. Ovviamente le indennità dei nostri parlamentari, salvo la ridicola riduzione di 500/600 euro sono rimaste inalterate e, diciamolo, salvaguardate. Per carità. Non dubitiamo che il prof. Guiovannini ce l’avà messa tutta ma il risultato è quello: abbandono. Ora in sette/10 giorni, lui e gli altri, dovebbero riuscire lì dove da anni non si riesce a cavare una ragno dal buco? Barzellette. La verità è che Napolitano ha solo preso e perso  tempo. Incoronandosi nuovo e ultimo re di Roma. g.

ABBIATE PIETA’, di Antonio Polito

Pubblicato il 30 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

Il Venerdì Santo di quindici anni fa, nel gelo del Castello di Stormont a Belfast, le due fazioni irlandesi che si erano combattute per trent’anni e tremila morti fecero pace. Alla trattativa erano presenti uomini che, dal versante cattolico e da quello protestante, avevano guidato milizie armate e avevano personalmente ordinato uccisioni e stragi degli avversari. Eppure ne nacque un governo comune dell’Irlanda del Nord.

Nel Venerdì Santo del 2013 i partiti italiani, che non escono da una guerra civile e che dovrebbero avere nel loro Dna l’attitudine al compromesso su cui si basano le democrazie, non sono stati capaci di dire di sì al presidente Napolitano e di dar vita a un governo. Non c’è neanche un punto di contatto fra i tre maggiori partiti: Grillo non vuole fare niente, Berlusconi vuole fare solo un governissimo impossibile perché il Pd lo rifiuta, e il Pd accetterebbe solo un governicchio dopo il fallimento di Bersani.

La gravità della crisi che sta sconvolgendo la Repubblica è tutta qui. La legge elettorale non riesce più a dare una maggioranza al Parlamento. Il Parlamento non riesce più a dare un governo al Paese. Il presidente è chiamato costantemente a riempire i vuoti di una democrazia parlamentare che ormai cammina come un ubriaco sull’orlo della Costituzione. E meno male che si tratta di Giorgio Napolitano, uomo di cui nessuno, né Berlusconi che sette anni fa si rifiutò di votarlo, né Grillo che appena qualche mese fa lo insolentiva, osa più negare l’imparzialità e il senso patriottico.

Però neanche Napolitano può più fare miracoli. È in scadenza di mandato. Non dispone dell’arma dello scioglimento anticipato. Non può forzare la mano ai partiti costringendoli a un governo del presidente, perché tra qualche settimana il presidente sarà un altro.

Stavolta solo un accordo tra i partiti può risolvere il rebus. Solo se c’è un compromesso, Napolitano può dargli un nome e una forma. Se non ci sarà, se nessuno mollerà neanche un po’ delle sue ambizioni elettorali, personali o processuali, i partiti aggraveranno la crisi di sistema fino a coinvolgervi la Presidenza stessa, costringendo quella attuale a rinunciare anzitempo al mandato. Sarebbe una scelta drammatica, più un atto di accusa che un atto di dimissione, soprattutto da parte di un uomo come Napolitano che al servizio delle istituzioni non ha mai rinunciato. E sarebbe un parto prematuro della Presidenza futura, esposta al rischio di nascere con la tara di una scelta partigiana che contrasta con la lettera e lo spirito della Costituzione.

Nella lunga notte della politica italiana che dura da due settennati, solo il Quirinale è finora uscito miracolosamente indenne dall’incendio delle istituzioni. Coloro che abbiamo eletto stanno per appiccare il fuoco anche all’ultimo Colle della Repubblica? Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 30 marzo 2013

.…….Non è un grido di dolore nè una invocazione quella di Polito, ex senatore del PD e per questo ancor più credibile in quwesta sua esortazione. Che  è  un imperativo per quanti in queste ore hanno nelle mani il futuro del nostro Paese, dal quale non possono e  non debbono disertare. Anche se sono capaci di farlo.g.

IL BERSAGLIO IMMOBILE, OVVERO UN PAESE ALLO SBARAGLIO

Pubblicato il 28 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

Ho fatto un sogno. Bersani torna al Colle (meglio tardi che mai) e ci torna a mani vuote. Senza un «sostegno parlamentare certo» al proprio tentativo, come gli aveva invece chiesto il presidente. Sicché quest’ultimo lo accompagna alla porta, sia pure con rammarico; e si prepara a sparare un secondo colpo di fucile. Subito, perché di gran consulti ne abbiamo visti troppi, e perché di tempo non ce n’è. Dunque Napolitano individua un nuovo vate, ma nel mio sogno pure lui incespica sui veti, pure lui torna al Quirinale senza voti.

Perciò arriviamo più o meno al 5 aprile, quando mancano quaranta giorni all’insediamento del prossimo capo dello Stato. Ma intanto il vecchio presidente non ha più cartucce da sparare, né tantomeno può usare l’arma atomica, lo scioglimento anticipato delle Camere. Non può perché è in semestre bianco; il colpo di grazia, semmai, spetterà al suo successore. E nel frattempo? Stallo totale, blocco senza vie di sblocco. I partiti si danno addosso l’uno all’altro, mentre i mercati infuriano, le cancellerie s’allertano, le imprese fuggono, i disoccupati crescono, le piazze rumoreggiano. L’Italia si trasforma in un bersaglio mobile (anzi no, immobile). Il mio sogno si trasforma in incubo.

No, quaranta giorni così non li possiamo proprio vivere. Sarebbe da pazzi, un suicidio nazionale. Ma sta di fatto che il seme della follia ha ormai attecchito nella nostra vita pubblica. Il Pdl accetta patti col Pd se quest’ultimo patteggia il Quirinale: lo scambio dei presidenti. A sua volta, Bersani inaugura una singolare forma di consultazioni: le consultazioni al singolare. Ossia con singoli individui (Saviano, Ciotti, De Rita), oltre che con il Club alpino e il Wwf. Nel frattempo il suo partito discetta sull’ineleggibilità di un uomo politico (Silvio Berlusconi) già eletto per sei volte. La minuscola pattuglia di Monti viene dilaniata da lotte intestine: la scissione dell’atomo. Il Movimento 5 Stelle disdegna tutti i partiti rappresentati in Parlamento: l’onanismo democratico. E per sovrapprezzo il ministro dimissionario d’un governo dimissionario (Terzi) si dimette in diretta tv: le dimissioni al cubo.

Come ci siamo ridotti in questa condizione? Quale dottor Stranamore ha brevettato il virus che ci sta contagiando? Perché il guaio non è più tanto d’essere un Paese acefalo, senza un governo sulla testa. No, la nostra disgrazia è d’aver perso la testa, letteralmente. Stiamo in guardia: come diceva Euripide, «quelli che Dio vuole distruggere, prima li fa impazzire». Eppure in Italia non mancano intelligenze né eccellenze. C’è un sentimento d’appartenenza nazionale che non vibra unicamente quando gioca la Nazionale. C’è una domanda di governo che sale da tutti i cittadini. E a leggere i programmi dei partiti, i punti di consenso superano di gran lunga quelli di dissenso, come la legge sul conflitto d’interessi: sicché basterebbe lasciarla in quarantena per un altro po’ di tempo, in fondo la aspettiamo da vent’anni.

Una cosa, però, dovrebbe essere chiara. Se fallisce il governo dei partiti (quello incarnato da Bersani), c’è spazio solo per un governo del presidente, votato in Parlamento ma sostenuto dall’autorità di Giorgio Napolitano. Anche se quest’ultimo a breve lascerà il suo incarico, anche a costo di sperimentare l’ennesima anomalia istituzionale: il governo dell’ex presidente. Michele Ainis, Il Corriere della Sera, 28 marzo 2013

…..Il prof. Ainis è un illustre costituzionalista, docente di diritto costituzionale alla Università Roma 3, autore di molti saggi di politica e anche di costume. L’ultimo dei quali, da poche settimane in edicola,   ha un titolo che è un programma: Privilegium ed è nello stesso tempo un trattato giuridico e di costume. E’ una elencazione dei privilegi di cui godono infinite caste italiane la maggior parte dei quali fonda sul sistema delle deroghe. Scrive Ainis che le deroghe alla regola sono di per sè e sempre  privilegi per alcuni, spesso per pochi. Di qui, scrive Ainis, la peggiore anomalia italiana. Anche questa nota che racconta di un sogno che è invece sempre più una terribile realtà è una nota di costume che affonda le sue radici nel diritto: il diritto degli italiani ad essere governati, possibilmente saggiamente,  da quelli che abbiamo eletto a nostri rappresentanti.  Ma forse anche questo è solo un sogno….g.

NON TOGLIETECI (ANCHE) L’OTTIMISMO

Pubblicato il 27 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

Se la situazione non fosse seria, anzi drammatica, ci sarebbe da ridere. Bersani, alla ricerca del sostegno per una maggioranza di governo, su incarico di Napolitano e in attesa del miracolo, ieri ha fatto alcuni giri di valzer che, vista l’ora (era fissata la Direzione farsa del Pd) non hanno compreso anche il portiere di casa sua. Era veramente urgente e plausibile parlare con Saviano, con don Ciotti, con la Gioventù federalista? Non se ne abbia il segretario Pd se poi sui social network si sprecano i commenti di fuoco. È proprio necessario arrivare fino a giovedì per riferire al presidente Napolitano che non perde occasione per ricordargli di far presto?
Inascoltato il grido d’allarme del leader di Confindustria Squinzi, anche il segretario Cgil, Susanna Camusso, di certo non grillina, ha insistito su più spesa pubblica, meno imposte e, addirittura quasi berlusconianamente, togliere il pagamento dell’Imu sulla prima casa fino a mille euro. Con un’ultima frecciata al compagno Pier Luigi: la trasparenza nei costi della politica non deve essere la priorità. Bersani invece mentre continua a respingere al mittente la proposta del Pdl, di un governo di larghe intese con lui stesso premier e il segretario del Pdl vice, preferisce immaginare un cambiamento sostenuto da «corresponsabili». Ovvero? Grillo e Monti? E se il rischio implosione del Pd non lo tange, le voci di un possibile downgrade di Moody’s non lo sfiorano e neanche le parole del presidente Dijsselbloem lo spaventano: il salvataggio di Cipro, con il prelievo sui conti bancari, è un nuovo modello da seguire in tutti i Paesi a rischio. Italia compresa.
Bersani sta perdendo tempo. Gli italiani stanno perdendo tutto. Compreso l’ottimismo.Sarina Biraghi, Il Tempo, 27 marzo 2013

IL BUON SENSO E’ ORMAI MERCE RARA

Pubblicato il 26 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

«Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Questo giudizio di Alessandro Manzoni – riferito alla psicosi collettiva legata alla peste raccontata nei Promessi sposi – potrebbe ben applicarsi anche all’attuale situazione politica italiana. Una situazione nella quale il buon senso sembra appunto essersi eclissato, a giudicare dalle dichiarazioni e dai comportamenti dei principali attori politici. Il M5S non si stanca di ripetere che non voterà mai per alcun governo, considerando le trattative e gli scambi che pure costituiscono l’essenza della politica come qualcosa di totalmente inaccettabile. Ma, data questa situazione, stupisce che allora gli altri due principali attori, Pd e Pdl, non riescano a consentire la nascita in qualunque forma di un governo limitato a pochissimi (e sostanzialmente obbligati) punti programmatici. La necessità di un tale governo appare tanto più stringente visto che eventuali elezioni rischierebbero di produrre, con ormai tre blocchi di quasi eguale consistenza, una situazione di ingovernabilità forse perfino maggiore dell’attuale (nessuno può escludere infatti che le nuove Camere possano avere due diverse maggioranze).

Son cose che si fa perfino fatica a ripetere ancora, tanto dovrebbero essere ovvie, per chi abbia conservato un minimo di buon senso. Ma, appunto, il buon senso sembra essere fuggito via, sotto il dilagare impetuoso di un senso comune caratterizzato dal pregiudizio antipolitico. Non si dirà mai abbastanza, naturalmente, che un tale pregiudizio aveva e ha molte giustificazioni nei privilegi di un ceto politico spesso incapace di guardare ad altro che agli interessi di partito o addirittura ai vantaggi personali dei suoi singoli appartenenti (in termini di denaro, potere, influenza). Ma una parte dell’establishment politico del centrosinistra, dopo non aver fatto nulla per ridurre davvero i propri privilegi (in questo perfettamente imitato dal Pdl), sembra ora soprattutto incline a rincorrere le opinioni e idiosincrasie degli elettori cinquestelle, nella speranza che in tal modo i voti persi possano tornare a casa. Abbiamo visto i neopresidenti di Camera e Senato che, dopo aver tagliato del 30% le proprie indennità, hanno finito per modificare il senso della propria autonoma e saggia decisione accettando subito la richiesta di un ulteriore ribasso (-50%) venuta da Grillo. Abbiamo visto in Val di Susa un esponente del Pd che, non si sa bene a quale titolo, offriva ai grillini uno scambio tra la fiducia a Bersani e l’archiviazione della Tav.

È stata l’affannosa rincorsa del senso comune antipolitico a dar vita anche alle liste di eventuali ministri che filtrano dai vertici pd: ministri scelti appunto con l’intento primario di ottenere il voto di una parte almeno dei senatori grillini. In una politica così priva ormai di lucidità (qualcuno ha sentito esponenti del Pd o del Pdl riflettere sul serio sui – rispettivamente – 3,5 e 6 milioni di voti persi alle ultime elezioni?) c’è da sperare che almeno la scelta del nuovo presidente della Repubblica avvenga all’insegna di un ampio consenso. Ogni candidatura che fosse, o soltanto apparisse, dichiaratamente di parte rappresenterebbe, infatti, proprio ciò di cui un Paese diviso – per vent’anni politicamente spaccato in due, oggi addirittura in tre – ha meno bisogno. Il Corriere della Sera, Giovanni Belardelli, 26 marzo 2013 | 8:12

PERCHE’ NON C’E’ UN RENZI NEL PDL

Pubblicato il 25 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

È possibile che il complicato dopo voto produca un governo di tregua. Ma un governo di tregua per fare cosa? Per fare tre cose, si suppone. In primo luogo, tenere a galla la zattera con qualche provvedimento che assicuri un po’ di affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Ma basterà che, in qualsiasi momento, una Cipro qualunque inneschi una valanga e tutto sarà rimesso in discussione. In secondo luogo, fare una nuova legge elettorale. Ma si dà il caso che sia più facile dirlo che farlo. Come si capisce appena si pone la domanda: quale nuova legge elettorale? In terzo luogo, dare ai partiti il tempo necessario per modificare le proprie offerte politiche in modo da riagganciare l’elettorato che li ha abbandonati scegliendo la protesta.


Delle tre cose da fare l’ultima è forse la più complicata. Come prova il fatto che nell’anno e passa di tregua assicurato dal governo Monti non c’è stata traccia di seria ristrutturazione di quelle offerte politiche. E il risultato si è visto alle elezioni.
Ci sono buone ragioni per pensare che un cambiamento dell’offerta politica (che significa cambiamento di leadership , di assetti organizzativi e di programmi), urgente per tutti, lo sia in particolar modo per la destra. Perché essa resta comunque la componente più fragile del sistema. Perché ha perso molti più voti di quelli che ha perso il Pd. Perché il reingresso di Berlusconi sulla scena elettorale dopo il suo annunciato ritiro ha solo rinviato il momento della verità: il momento in cui il Pdl (o qualunque cosa lo sostituisca) dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe, senza più il padre padrone a comandarlo. E perché, soprattutto, sarebbe vitale per il Paese che, una volta finita la tregua, una volta tornati alle elezioni, dalle urne uscisse quello che un tempo si sarebbe definito un solido governo borghese.

Al Pdl serve urgentemente un Renzi di destra, uno che non debba baciare l’anello a Berlusconi, uno che sappia parlare al Paese con un linguaggio fresco. E che, a differenza di Berlusconi, sia molto meno vulnerabile dal punto di vista giudiziario. Sia chiaro, un tale (ipotetico) Renzi di destra non dovrebbe affatto piacere alla sinistra: il processo di autoaffondamento politico di Gianfranco Fini cominciò quando, rotto con Berlusconi, egli diventò per un certo periodo l’eroe dei giornali di sinistra. Sinistra e destra sono ovunque separati da interessi contrapposti, da opposte visioni del mondo, da opposti codici morali. Nel nostro Paese, poi, gli elettorati di sinistra e di destra (basta ascoltarne le conversazioni) nutrono gli uni nei confronti degli altri più o meno gli stessi sentimenti che il Ku Klux Klan nutre nei confronti dei neri. È vero, come accennava ieri Galli della Loggia, che la sinistra ha avuto finora più successo nel convincere persino l’establishment che gli elettori di destra siano solo buzzurri impresentabili. Ma si conoscono anche tanti elettori di destra che pensano la stessa cosa di quelli di sinistra.

Il Renzi di destra dovrebbe fare, anche lui, orrore alla sinistra. Tanto più ci riuscirebbe quanto più coerentemente e aggressivamente (che non significa urlare: significa avere la solidità culturale necessaria per dare efficacia e un alto profilo alla propria proposta) fosse capace di rappresentare idee e interessi che hanno da sempre una precisa connotazione: l’individualismo come valore, la proprietà privata come diritto fondamentale, e fonte di libertà, anziché come colpa da espiare, l’idea che sia il «vil commercio», che siano i mercanti, e non i Savonarola, i costruttori di società decenti.


Il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma. Un governo che investa sulla crescita (altro che «decrescita felice»), che blocchi il processo di impoverimento nell’unico modo possibile: dando di nuovo alle classi medie indipendenti la voglia e l’incentivo per rischiare e investire. Voglia che non tornerà fin quando non ci saranno garanzie che i frutti del proprio lavoro non verranno in gran parte confiscati da uno Stato famelico. Il che significa tagliare le tasse, colpire la burocrazia, colpire i mercati protetti. Significa non commettere l’errore che commise Berlusconi il quale, per mantenersi al potere, venne a patti con le corporazioni che contribuiscono a strozzare la crescita.
Si è detto qualche volta che, non essendone capace la destra, in Italia tocca alla sinistra fare il lavoro della destra. Ma sono fole: la sinistra può fare solo la sinistra, ridistribuire il reddito in un regime di tasse alte. Se è la crescita ciò che si vuole, o la propizierà la destra o non lo farà nessuno.


Ma il punto debole di questo ragionamento non consiste forse nel fatto che del Renzi di destra qui ipotizzato non c’è, nella realtà, traccia alcuna? Sì e no. La destra, in Italia, esiste solo da venti anni. Ma in questo lasso di tempo è cresciuta una generazione di italiani che, spesso nel male ma qualche volta nel bene, non è più debitrice delle culture politiche dei grandi partiti, accomunati dal pregiudizio antiborghese, che dominarono la Prima Repubblica. Ci sono in giro diversi giovani colti, preparati, con esperienze di studio o di lavoro all’estero, e talvolta anche con un po’ di palestra nella politica locale, che cercano un varco per farsi strada. La ristrutturazione dell’offerta della destra non potrà prescinderne.
Angelo Panebianco, 25 marzo 2013, Il Corriere della Sera

LA DIFFICILE RICETTA DI UN TAVOLO TRIPARTISAN PER LE RIFORME

Pubblicato il 24 marzo, 2013 in Politica | No Comments »

La «Bicamerale» per le riforme, presieduta da Massimo D'Alema, nel 1997

ROMA – Nella testa del presidente del Consiglio designato, lo schema di gioco prevede un doppio tavolo di confronto tra i partiti: il primo ha come oggetto di discussione il programma di governo e la formazione dell’esecutivo; il secondo, «aperto a tutte le forze rappresentate in Parlamento», si occupi invece di modificare la legge elettorale, di ridurre il numero dei parlamentari e di scardinare il bicameralismo perfetto istituendo una Camera delle autonomie. Ci sono due tavoli, dunque, nelle intenzioni illustrate da Pier Luigi Bersani al capo dello Stato. Ma questo modulo di gioco, nella sintesi teorica del costituzionalista Stefano Ceccanti, prevede anche «tre cerchi»: «Nel primo cerchio ci sono le forze politiche che danno vita al governo, nel secondo quelle che votano o favoriscono la fiducia, nel terzo quelle che siedono al tavolo delle riforme. Per cui è molto difficile che, in mancanza di un accordo sulla nascita del governo, poi si possa avere l’intesa sulle riforme…».

Rimane una nebulosa, almeno in questa fase, la proposta di Bersani di mettere in campo una «Convenzione» bipartisan (o tripartisan, visto l’esito delle elezioni) con il compito di metter mano anche alla seconda parte della Costituzione. Il nodo, infatti, è ancora politico e lo spiega, con la consueta schiettezza, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Pdl): «Vedremo cosa saprà fare Bersani. Certo, non può pensare di darci in “premio” la guida della Convenzione, o Bicamerale che sia, tenendoci poi fuori dal tavolo intorno al quale si decide il programma di governo. Che fa Bersani? Ci dice: “Andate al bar mentre noi facciamo il governo e dopo ci vediamo tutti al tavolo delle riforme”? Questo schema del doppio tavolo di confronto per ora lo vedo di difficile attuazione…». Anche perché, conclude Gasparri lasciando intendere che non c’è spazio per inciuci sottobanco, «i quindici voti che mancano a Bersani per ottenere la fiducia a Palazzo Madama non verranno certo dai nostri senatori…».

Ma mettiamo pure che Pdl e Movimento cinque stelle ci stiano a sedersi al tavolo delle riforme con un governo a guida Pd: anche in questo caso restano da affrontare tempi lunghi e difficoltà tecniche per consentire l’avvio di un nuovo organismo costituzionale.

I precedenti ci sono ma hanno avuto tutti e tre esito sfortunato. Tra il 1983 e il 1985, ha lavorato, grazie a una legge ordinaria, la commissione di studio presieduta dal liberale Aldo Bozzi: 20 senatori e 20 deputati che proposero un bicameralismo differenziato col principio del silenzio assenso finalizzato a snellire il procedimento legislativo. Poi, tra il ‘92 e il ‘94, è comparsa la seconda bicamerale guidata da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti: 30 senatori e 30 deputati insediati prima in commissione di studio (con legge ordinaria) e in corso d’opera come commissione redigente (con legge costituzionale). Infine, si arriva alla più recente e conosciuta Bicamerale dei 70 presieduta da Massimo D’Alema e sponsorizzata da Silvio Berlusconi (istituita nel ‘97 con legge costituzionale) che, a torto o a ragione, è ancora considerata come la madre di tutti gli inciuci tra centro destra e centro sinistra. Ora però – vista l’urgenza di varare almeno la legge elettorale – i tempi sarebbero assai stretti, non compatibili con i quattro passaggi parlamentari richiesti per una legge istitutiva di rango costituzionale: «Dunque – suggerisce Ceccanti – il modello è quello della commissione De Mita-Jotti che parte come organismo di studio, inizia ai suoi lavori e poi diventa commissione redigente». Tutto questo, però, implica la formazione di un governo senza il quale non si va da nessuna parte.

E anche la proposta «minima» del M5S, quella di far partire almeno le commissioni parlamentari permanenti pur in assenza di un esecutivo legittimato da un voto di fiducia, divide due ex presidenti emeriti della Consulta, come Valerio Onida, favorevole, e Carlo Alberto Capotosti, contrario. Tuttavia, soprattutto al Senato, si fa strada una scuola di pensiero intermedia visto che già questa settimana dovrà nascere la commissione speciale per la conversione dei decreti legge varati dal governo Monti (in carica per gli affari correnti): per cui, è l’ipotesi allo studio degli uffici, perché escludere a priori che almeno la commissione Affari Costituzionali (quella che si occupa di materie tipicamente parlamentari) possa funzionare anche in assenza di un governo legittimato da un voto di fiducia? Il percorso appare comunque tortuoso ma risulterebbe l’unico utile per riprendere in tempo utile il confronto sulla legge elettorale. Altrimenti, se tutto va a rotoli, si torna a votare con l’odiato-amato Porcellum, col rischio di produrre un risultato fotocopia del 25 febbraio.Dino Martirano, Il Corriere della Sera, 24 marzo 2013

.……………La peggiore delle iatture che potrebbero capitare al popolo italiano, ai 50 milioni e passa di elettori, è di tornare a votare con la legge elettorale attuale. Ipotesi che diviene reale se davvero Bersani si ostinasse nel suo disegno, surreale e anche un pò stupidotto, e tipicamente “provinciale”, di due diversi tavoli di trattative: uno per fare il governo e un altro per fare le riforme. E quello del tavolo  delle riforme, intanto senza certezze che arrivi a fatti conclusivi, utilizzato per ottenere che le forze politiche escluse dal governo, votino o almeno non votino contro il governo di minoranza che allo stato dei numeri  sembra l’unico  che Bersani possa mettere su,   che non è detto riceva il placet di Napolitano che sulla questione pare la pensi diversamente. Se il tentativo sempliciotto, da furbastro di campagna, che Bersani sta tentanto non riesce, l’alternativa, l’unica possibile è di ritornare al voto. Con il porcellum,  con grande gioia dei tanti uomini della casta che non conosce distinzioni tra  destra, sinistra e centro con l’aggiunta dei “nuovi”, cioè i grillini che di certo non disdegneranno di usare il porcellum per consolidare la “fortuna” loro arrisa dalla circostanza di candidature scelte sul web da poche centinaia di persone. Per questo, se davvero Bersani avesse a cuore le sorti del Paese e i diritti, quelli reali e tangibili dei cittadini, dovrebbe turarsi il naso, ammesso che ve ne siano le ragioni, e varare un esecutivo a termine con il PDL,  con il compito esclusivo di provvedere alle determinazioni economiche che incombono sul Paese e fare le riforme che necessitano: dal taglio dei parlamentari alla legge elettorale. E solo dopo, subito dopo,  andare al voto con due obiettivi: riconsegnare ai cittadini il diritto-dovere di scegliere i parlamentari   e  stabilire chi debba governare a pieno titolo e coin i voti necessari  Paese. Se facesse questo si meriterebbe un posto d’onore nella galleria dei “presentabili” della storia politica italiana. Ma Bersani vuol essere un “presentabile”  o gli piace di più essere il contrario? g.

MONTI E I SUOI TRADITORI DELL’ITALIA

Pubblicato il 23 marzo, 2013 in Costume, Cronaca, Politica estera | No Comments »

Un Paese non può vivere di solo spread, di tagli agli stipendi della casta o di presunti conflitti di interesse.

Mario Monti con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone

Qualsiasi agenda deve avere al primo punto il rispetto della bandiera simbolo della nazione, dignità e orgoglio, difesa di chi serve lo Stato rischiando la vita. Tutto il resto ne discende. E invece siamo ripiombati nell’italietta di inizio secolo scorso: debole, confusa, pasticciona, ingrata, senza nerbo e parola. Lo dobbiamo a Monti e al suo governo. Nel giro di una settimana prima hanno tradito la parola data agli indiani, poi quella a noi italiani e al mondo intero. Il caso è quello dei due marò del San Marco arrestati in India. Ce li avevano rispediti in licenza per qualche settimana con l’assicurazione di un loro ritorno per il processo. Abbiamo annunciato con squilli di tromba che ce li saremmo tenuti, ma di fronte all’India che ha mostrato i muscoli (e non solo quelli) abbiamo calato le braghe: sono già in volo verso New Delhi, con tante scuse.

Questo è Monti, l’uomo che doveva ridarci la credibilità internazionale che ci avevano fatto credere persa. Questo è Terzi, il ministro già ambasciatore in America. Questa è l’Italia dei tecnici voluta e sostenuta dai salotti di banchieri e intellettuali, dai giornaloni della sinistra. Una manica di incapaci, egoisti ed egocentrici, senza alcuna legittimazione, traditori di parole date (ricordate il «mai mi candiderò» di Monti?). Volevano suonare l’Italia e gli elettori li hanno suonati, volevano cantarle all’India e il mondo l’ha cantata a loro. Hanno preso ordini non dagli italiani ma da capi di Stato e governo stranieri.

Altro che Grillo e democrazia pop a Cinque stelle. Quando qualcuno pensa di prescindere dalla politica, il risultato è quello oggi dei marò e domani delle banche chiuse su disposizione della Merkel o chissà cos’altro. Quello che serve è un governo politico e forte. Bersani sta ripetendo l’errore-orrore di Monti: pensare alla sua salvezza e non alla nostra e del Paese. Dice no a un patto col Pdl, l’unica soluzione indicata dalle urne. Anche noi siamo molto, ma molto scettici. Ma allora la soluzione è una sola: tornare a votare e subito. O cambia idea, oppure ogni giorno che Bersani perde nella speranza di rubare il consenso a un pugno di grillini è un giorno in più in cui l’Italia viene umiliata e messa sempre più a rischio. Anche se ci riuscisse, cosa improbabile, il suo sarebbe un governo talmente debole che saremmo in balia del mondo intero più di quanto lo siamo con Monti. Napolitano ci pensi bene prima di avventurarsi su strade ad alto rischio.  Alessandro Sallusti, 23 marzo 2013

….,..Nemmeno l’Italietta giolittiana, quella dei giri di valzer e dei valzer senza giri, era riuscita a tanto. A farsi prendere per i fondelli, non una, ma due volte. E’ riuscito all’Italietta di Monti e ai suoi bravos alla mortadella, dal ministro degli esteri, l’uomo di Fini, Terzi di Santagata, al ministro della difesa De Paola il cui unico obiettivo è quello di  accappararsi incarichi per “arrotondare” la già più che  pingue pensione. Il caso dei due Marò restituiti all’india dopo aver solennemente dichiarato che rimanevano in Italia è da manuale e da oggi farà parte del kit dei boy-scouts americani. Non è il caso che ricapitoliamo la storia che si trascina da quasi un anno. Contano sopratutto le ultime 24 ore. I due ritornano in India   perchè, dichiara il sottosegretario che ha il nome di un prodotto agricolo, De Mistura, l’India ha aassiocurato che non rischiano la pena capitale. Oh bella! Perchè se gli danno 30 anni da scontare in una putrida galera indiana c’è da stare allegri?  Ma l’India fa sapere, dopo che i due sono ritornati in India,  che non c’è nessun impegno in  questo senso. Cioè, per dirla tutta, l’India  fa intendere che i due rischiano proprio la pena capitale. Che figura di merda per Monti e i suoi compagni. Sopratutto per quella faccia di pietra di Monti che quando i due ritornarono in Italia per “licenza elettorale” li ricevette a Palazzo Chigi, proprio come si faceva nella putridissima prima Repubblica, quando tutto faceva brodo per far voti, dalle Madonne pellegrine ai trattori di Stalin. E tutto ciò mentre il mondo ci ride dietro: siamo stati offesi e gabbati e forse per una manciata di quattrini  (eggi affari) ci prendiamo in faccia non soltano lo scherno del mondo universo ma anche la possibilità di avere sulla coscienza se non due morti morti due morti vivi. Bella roba per uno che doveva riscattarci da Berlusconi. Ma Berlusconi mai avrebbe consentito che questa farsa che può trasformarsi in dramma  fosse rappresentata. g.

IL GUERRIERO DI BARLETTA, di Michele Pennetti

Pubblicato il 22 marzo, 2013 in Sport | No Comments »

Il Corriere del Mezzogiorno dedica l’editoriale di oggi a Pietro Mennea, scomparso ieri a 61 anni.La sua storia, scirve Penneti,  andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare. Per questo lo pubblichiamo, dedicandolo alle nuove generazioni per esortarle a guardare a Menna, alla sua storia, alle sue battaglie, non solo sportive, per trarne insegnamento ed esempio.

Una personificazione del riscatto meridionale, l’allegoria della forza di volontà. Con Pietro Mennea muore un amico – anche del Corriere del Mezzogiorno, per il quale scrisse numerosi articoli durante le Olimpiadi di Atene del 2004 – uno degli uomini del Sud più popolare e amato degli ultimi cinquanta anni, oltre che uno dei più grandi campioni nella narrazione dello sport italiano. La sua storia, trapuntata di fatica e sacrifici, andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole. La sua esperienza, finita troppo presto, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare ai propri pazienti cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare dinanzi alle prime contrarietà. Il suo candore, precisamente palesato dai libri-denuncia e dalle perenni battaglie globali contro il doping, resta un soggettivo strumento di difesa dal mondo (dello sport, ma non solo) che, cambiando per il dio soldo e asservendosi alla tecnologia, oggettivamente regredisce.

C’era sempre tanta semplicità nei gesti del barlettano che, se avesse attraversato un’epoca passata, sarebbe diventato un guerriero. Anche la sua apparente tracotanza, amalgamata alla sottolineatura della propria straordinarietà pronunciata con flebile voce, rivelava la genuinità del personaggio e la sua proletaria origine. Se ha peccato in qualcosa, Mennea, è stato nel volersi spendere troppo dopo aver smesso di correre. Un po’ l’avvocato (nello studio della famiglia di Manuela, la sua dolcissima moglie), un po’ il politico (venne eletto europarlamentare), un po’ lo scrittore, un po’ il dirigente nelle società di calcio (alla Salernitana). Come se fosse indispensabile, a se stesso, stare almeno un centimetro sopra la media. Come se una bulimia di mestieri e di interessi, concatenata alla collezione di lauree, potessero conservare eternamente splendente la sua immagine di eroe dei due mondi, dall’oro di Mosca al primato del mondo di Città del Messico. Non ce n’era, in fondo, bisogno. Perché nessuno, anche un acerrimo nemico, si sarebbe mai permesso di contestare la sua eccezionalità. Si fosse risparmiato, probabilmente Pietro Mennea avrebbe vissuto meglio e più a lungo. Mantenersi di rendita, però, non era nel suo stile. Non apparteneva ai codici comportamentali di un ragazzo spigoloso e irraggiungibile, il più veloce di tutti nei 200 metri per diciassette anni, un fascio di muscoli e nervi che faceva dell’umiltà una leva e della rabbia un biglietto da visita. E poi l’orgoglio, l’altro suo documento di riconoscimento. Non c’era vittoria che non gli impedisse di alzare il dito al cielo, l’indice dell’emancipazione di chi arrivava da dietro e dal basso, un simbolo di tenacia del Mezzogiorno buono e profondamente legato alla sua radice. Non c’era sconfitta che non gli procurasse una feroce percezione di rivalsa, serbata però in rigoroso silenzio. Alla stregua del male che l’ha stroncato con tempi e modi brutali. L’unico avversario che Pietro Mennea, sul traguardo di una vita di successo e di una carriera leggendaria, non è riuscito a battere. di Michele Pennetti, Il Corriere del Mezzogiorno, 22 marzo 2013