Archivio per la categoria ‘Costume’

IL BENGODI INCONSAPEVOLE, di Mario Sechi

Pubblicato il 25 settembre, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Il debito. Berlusconi. Gli scandali. Il realismo. Machiavelli. E poi? «La dolce vita». «Ciao, bella». La Ducati. Gucci. Prada. Dolce e Gabbana. Antipasti di peperoni. Nella mia lettura quotidiana della stampa estera il Financial Times e il Wall Street Journal sono i primi della lista. Dopo viene l’Asia Times con l’imperdibile rubrica di Spengler e qualche quotidiano francese, giusto per avere ogni giorno conferma della non superiorità dei nostri cugini. Anche la lettura di ieri conferma un’altra cosa che apprendiamo solo quando stiamo a lungo all’estero: l’Italia è uno dei posti più belli dove vivere. Siamo stati per lungo tempo un Paese di migranti, di gente in cerca di fortuna. Fatevi raccontare le peripezie e le sofferenze di chi ha lasciato la Patria. Andate a leggere gli epistolari. Scoprirete la grande nostalgia che pervade l’anima di chi è lontano dal villaggio, dalla città, dal sole, dal mare, dalla montagna, dal cibo, dal vino, da quello straordinario cocktail che è l’Italia. Se volete un’altra conferma sul nostro Bengodi inconsapevole, leggete gli annunci delle case da sogno di Sotheby’s e Christie’s, l’Italia è un enorme mercato del lusso, il buen retiro sognato da milioni di super-ricchi. Come fa un Paese con una ricchezza delle famiglie largamente superiore a quella della potentissima Germania a uscire dalla crisi del debito? Come fa una nazione mutevole a ritrovare l’orgoglio, la creatività e la forza del boom economico che tra gli anni Cinquanta e Settanta la risollevò dalle ceneri della guerra? La chiave di quella rinascita fu l’industria, la manifattura, una classe imprenditoriale geniale e infaticabile. I governi ne assecondarono il talento e la affiancarono con una politica industriale da grande potenza. La nostra vita a debito cominciò dopo quel periodo. E fu un errore colossale. Così abbiamo perso il carattere, lo spirito dell’impresa, la visione del futuro. Sì, oggi è il Palazzo il grande imputato, ma cari industriali, rileggete le opere dei vostri padri e nonni, vedrete che facevano meno manifesti e passavano più tempo in fabbrica a sudare e inventare. E se questa politica non vi piace, allora fate voi il passo: misuratevi con la cosa pubblica. Scoprirete che l’Italia è ancora tremendamente ricca e bella, ma riformare gli italiani di oggi è un’impresa titanica.  Mario Sechi, Il Tempo, 25 settembre 2011

IL “CAROGNISMO2 DI SINISTRA TRIONFA…MA NON PASSERA’

Pubblicato il 21 settembre, 2011 in Costume | No Comments »

La carogna è in agguato. Quan­do muore un animale politico, un’ideologia,una passione civi­le, lascia la carcassa con i suoi miasmi. Finisce un’idea, resta un rancore. Dopo il comunismo viene il carognismo. Vedo crescere il carogni­smo intorno a noi. L’antico spirito di guerra civi­le, l’odio e il disprezzo assoluto verso chi non è dalla parte tua, il proposito di eliminarlo si inca­rogni­scono quando non hai un movente positi­vo e costruttivo, ma solo la sua carcassa, cioè re­sta il suo involucro di negazione e si sprigiona il gas mefitico della distruzione. Questo accade nei nostri giorni e non parlo solo della caccia al premier.

Dico, per esempio, la censura e il rogo per Falce e Carrello, che documenta i malaffari delle Coop e le loro sinistre protezioni, sono l’ultimo segnale inquietante. Il carognismo non entra nel merito dei dati e non contrappo­ne altri documenti, no,chiede la riduzione del­­l’altro a cenere e silenzio. O il killeraggio incivi­le del ministro Sacconi impiccato a una battuta e umiliato, offeso e trattato da Sofri su Repub­bli­ca come un volgare demente e additato alla fe­rocia del pubblico come un losco servo della re­azione.

O per farvi un esempio più piccolo e più vici­no, gli insulti, le aggressioni incivili che ho subi­to per aver raccontato semplicemente la verità storica su una pagina bieca dell’ Avanti e di Per­tini: quell’elogio infame di Stalin,dittatore san­guinario. La reazione non è stata di confutarlo, anche perché così evidente da non poterlo fa­re, e nemmeno un’assurda ma coerente difesa di Stalin, (di cui esistono ancora da Bologna a Savona vie Stalingrado). No, solo insulti e mi­nacce, non ti permettere, non osare di sporca­re il suo nome purissimo, vergognati, tu ignobi­le, tu venduto.

Mi era già capitato una volta a Ge­nova in un convegno su Pertini, dove avevo ri­cordato accanto alle luci, le sue ombre e nessu­­no le contestava sul piano storico, no: chiedeva­no semplicemente di togliermi la parola, rumo­reggiavano, qualcuno inveiva. E la volta succes­siva che tornai in quella città i nipoti dei predet­ti compagni assediarono l’università per non farmi presentare un libro. Sono episodi che se fossero accaduti a parti invertite, avremmo mobilitazioni mediatiche e culturali, agitazioni politico-sindacali. Non esiste qualcuno che possa avere idee diverse dalle loro e attingere a fonti storiche da loro ignorate; no, è sempre e solo, per definizione e a priori, un servo losco, un mercenario. Quel che spaventa è il dispositivo mentale che è alla base: se non la pensa come noi, eliminatelo, non fatelo parlare, bruciategli i libri, non fate circolare le sue idee o semplicemente i fatti che racconta. Di questa condanna a morte civile ne sanno qualcosa gli autori non allineati, total­mente cancellati dal carognismo culturale.

Non mi interessa stabilire se sia un residuo o un rigurgito di comunismo, di estremismo gia­cobino, di brigatismo o altro. La definizione riassuntiva è carognismo. Ai tempi di Stalin o delle Br si eliminava fisicamente il nemico, e poi magari lo si faceva sparire anche dalle foto; oggi lo si elimina mediaticamente, politica­mente, giudiziariamente, culturalmente. Mi spaventa che ciò accada e abbia anche un suo consistente pubblico, eccitato dagli agitatori. C’è un carognismo passivo e un carognismo at­tivo. Se il carognismo spaventa, il pilatismo scon­forta. Mi riferisco al silenzio ossequioso e omer­­toso degli altri, quelli di mezzo, appena interrot­to da isolati e defilati vocii di dissenso. Temono di essere accusati di complicità col Male, e allo­ra tacciono.

È lo stesso meccanismo del passa­to: se difendi il diritto di Caprotti, di Sacconi o di chi volete voi, sei dalla parte oscura delle forze maligne. Ti scoppia una grana che non ti dico, per quieto vivere e più quieto sopravvivere nel­le posizioni di comando meglio abbozzare. E per timore di ritorsioni, i sé-pensanti, versione egoistica dei benpensanti, lasciano fare, dire, eliminare, anzi si accodano a fingere l’inesi­stenza di fatti, autori e storie differenti. Così na­sce l’egemonia culturale del carognismo. Non concludo omeopaticamente, non chie­do di rispondere a carogna con carogna e mez­zo.

Dico da un verso di continuare incuranti delle carogne a testimoniare quel che si ritiene essere la verità e dall’altra a non riprodurre il meccanismo carognesco gettando nel baratro chi non la pensa come te. Combattiamo il caro­gnismo ma non pestiamo le carogne. Sforzia­moci di pensare che anche i più subdoli e furen­ti carognisti hanno il loro lato buono, credono in buona fede alle loro convinzioni, non si può ridurre l’intera loro biografia morale, intellet­tuale ed esistenziale al lato carogna. È un eserci­zio duro e difficile di civiltà prima che di carità, a volte munito dei conforti religiosi… MARCELLO VENEZIANI

L’”ORACOLO” TARANTINI E’ CREDIBILE CONTRO BERLUSCONI, INATTENDIBILE CONTRO MURDOCHMURDOCH

Pubblicato il 19 settembre, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

Le intercettazioni non sono tutte uguali, non tutti i verbali hanno lo stesso peso e lo stesso valore. Ci sono carte che non vengono neppure protocollate, altre che rimangono sepolte per anni nell’armadio di qualche procura, altre che escono e non vengono pubblicate, e altre ancora che conquistano all’istante l’onore della prima pagina e la patente della verità. Nella fattoria degli animali giustizialisti, queste carte sono più uguali delle altre, perché contengono il nome di Silvio Berlusconi (come un tempo quello di Bettino Craxi).

Attenzione, però: queste carte da prima pagina non documentano mai un reato. Sono particolarmente odiose perché non ci aiutano affatto a capire come stanno veramente le cose, ma, al contrario, spostano l’attenzione sul carattere, sugli stili di vita, sulle scelte private della persona, trasformando l’inchiesta in una pubblica e irrevocabile sentenza morale molto prima che un’eventuale sentenza giudiziaria stabilisca la verità dei fatti. In questo modo, tuttavia, il diritto di cronaca e il diritto all’informazione sono asserviti alla propaganda e alla battaglia politica, di cui diventano pedine più o meno consapevoli, mentre la giustizia sempre più frequentemente è considerata dalle parti in lotta l’opposto di ciò che dev’essere: un’espressione di partigianeria.

Eppure le intercettazioni e i verbali fanno bene alle copie e allo share, e sebbene personalmente continui a non capire come sia possibile un tale scempio del primo diritto naturale dell’uomo, quello alla privatezza, c’è da aspettarsi che il fiume di carte non diminuirà né oggi né mai. Lette con voce grave da uno speaker o sceneggiate come una telenovela, protagoniste di sit-com e ricostruzioni più o meno brillanti, le carte delle inchieste dopo i giornali hanno ormai stabilmente conquistato anche l’etere, e ancor più il satellite.
Non si può certo incolpare Sky di spettacolarizzare le intercettazioni ad uso dei propri telespettatori, visto che, chi più chi meno, tutti hanno una bella trave negli occhi. Però si potrebbe chiedere a Sky (come ad ogni altro editore) qual è il criterio di verità che decide se un verbale sia credibile oppure no. Se si sceglie di pubblicare tutte le carte, attribuendo loro implicitamente il crisma della verità, non possono poi esserci eccezioni. Viceversa, se si dichiara formalmente che una carta dice il falso, buon senso vuole che ci si interroghi anche sulla verità delle altre.

Come sanno i lettori del Giornale, che ne ha pubblicati ieri alcuni estratti, un verbale di Gianpaolo Tarantini (interrogatorio del 6 novembre 2009) contiene fra le altre questa affermazione: «Dopo che era esploso lo scandalo D’Addario, ero stato contattato anche da Murdoch che mi aveva proposto un contratto miliardario che avevo rifiutato (…)».

Sky ha subito smentito seccamente di «aver mai offerto compensi in qualsiasi forma, tantomeno improbabili “contratti milionari”, allo stesso Tarantini così come a chiunque altro, allo scopo di ottenere notizie, interviste e informazioni su alcuno».
Ciascuno è libero di credere a «Gianpi» o a Sky: il primo è oggetto di varie inchieste, e prudenza suggerisce di prendere con le molle ogni sua affermazione (e non soltanto quelle su Murdoch); Sky produce uno dei migliori telegiornali d’Italia, ma è pur sempre parte dello stesso impero mediatico di News of the World, costretto alla chiusura proprio per un uso spregiudicato e illecito delle intercettazioni. Ad ogni modo, la smentita è valida fino a prova contraria.

Ma il punto non è affatto questo. Nei tanti interrogatori e nelle tantissime intercettazioni può esserci qualsiasi cosa: la notizia di un reato o un depistaggio, una battuta innocente o un’esagerazione, una menzogna intenzionale o una verità soltanto soggettiva. I verbali non sono fotografie di fatti, ma regesti di opinioni: quello che io dico al telefono o al pm che mi interroga non è un fatto, ma il racconto di un fatto – che potrebbe essere reale o inventato, uguale o diverso dal mio racconto. I processi, del resto, servono proprio a questo: a trovare le prove di colpevolezza (e non, come qualcuno vorrebbe farci credere, quelle di innocenza). Senza le prove, una frase è una frase: flatus vocis. Quando si parla di Murdoch, e quando si parla di Berlusconi. Il Giornale, 19 settembre 2011

ULTIMATUM SCADUTO PER SILVIO

Pubblicato il 19 settembre, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Mentre scrivo, è scaduto da sette minuti l’ultimatum della Procura di Napoli. Sono le 20.07, è partito il conto alla rovescia per l’accompagnamento coatto del fellone di Palazzo Chigi minacciato qualche giorno fa dalla buoncostume vesuviana. Le telefonate hard ci sono, lo sputtanamento pure, Arcore è circondata, la Arcuri è santa ma forse no, fuori i reggicalze, tutti dentro. È un’inchiesta Wonderbra e come in tutte le meraviglie ci sarà il colpo di scena. Vedremo i carabinieri giungere da Napoli con ordini perentori? No, prima le toghe dovranno chiedere l’autorizzazione alla Camera per ascoltare quella che per convenienza investigativa chiamano «la vittima» ma la trattano da imputato. L’Unione delle Camere Penali ha definito bene la scena: «Giocano al gatto con il topo». E saremmo la culla del diritto. Dentro Papa, fuori/dentro Milanese e ora l’attesa per la richiestona che taglia la testa al toro di Arcore, l’accompagnamento coatto di Silvio.
Quando il voyerismo e la pornografia da B-movie diventano atto giudiziario, siamo alla frutta congelata. Berlusconi ci prova, se ne infischia di tutelare la sua vita privata, fa casino. Non sono disponibili filmati (chissà, in futuro), abbiamo solo letto e ascoltato. Basta e avanza per dire che è un pasticcione. Ma ridicolo è anche il gruppo di Interceptor alla Pummarola che ascolta, mette nero su bianco un copione da Edwige Fenech e Alvaro Vitali e non si fa neppure sfiorare il cervello dal dubbio che lo scosciato pedinamento istituzionale e prostituzionale è un boomerang che dirotta il Paese verso la lotta tribale. Nessuna ragion di Stato. A Napoli traboccano di camorristi, ma vuoi mettere l’emozione di occuparsi di un’inchiesta sulla cui competenza territoriale incombono dei legittimi dubbi? Verbali desnudi. Altro che rating, spread, default. Chissenefrega, il dizionario in procura non è quello finanziario: vai col fetish. Coatto, mi raccomando. Mario Sechi, Il Tempo, 19 settembre 2011


CARI PATRIOTI DI SINISTRA, L’ITALIA NON E’ COSA VOSTRA

Pubblicato il 15 settembre, 2011 in Costume, Cultura | No Comments »

Ma si può lasciare il tema del­l’identità nazionale sulle spalle di Giorgio Napolitano? E si può, alle sue spalle, trafugare il corpo del­­l’Italia, la sua storia e la sua passio­ne coltivata dalla destra storica e nazionale, cattolica e popolare, moderata e conservatrice, e affida­re il pacco tricolore alla sinistra? È quel che vedo accadere sul terre­no della politica, dei giornali e del­la cultura. Mentre il governo si oc­c­upa dell’Italia presente e denun­cia lo spirito antinazionale delle opposizioni, che remano contro il proprio paese pur di far cadere Berlusconi, l’idea dell’Italia, dal suo passato al suo futuro, la sua storia e la sua unità, la sua identità e la sua civiltà vengono traslate sul versante della sinistra. Galli della Loggia, nel suo libro dialogo con Aldo Schiavone – Pensare l’Italia – ammette che entrambi hanno«scoperto tardi l’Italia». Ma non so-lo i due intellettuali sono tardivi scopritori dell’Italia: un intero blocco politico, civile, mediatico e culturale ha scoperto l’Italia assai di recente e magari per circostanze un po’ meschine. Si sa come è nato il neo-patriottismo a sinistra: per mettere in difficoltà il governo con l’alleato leghista e per suscitare la reazione degli italiani nel nome della dignità nazionale ferita e discreditata nel mondo, sempre per colpa dello stesso governo. Ma io mi ricordo quando a sedici anni sventolavo il tricolore ed ero considerato per questo un estremista e un sovversivo; ricordo quando era proibito l’amor patrio anche per ragazzi che non avevano vissuto il fascismo, la guerra e la retorica passata; ricordo quanto disprezzo o distacco circondava il tema dell’identità nazionale e del pensiero italiano quando negli anni ottanta pubblicavo saggi sul tema e organizzavo convegni per pensare o ripensare l’Italia. Oggi rivedo gli stessi temi, a volte le stesse parole. E amaramente mi compiaccio.

11 SETTEMBRE DIECI ANNI DOPO: LE TORRI DISTORTE (e noi siamo sempre piu’ occidentali)

Pubblicato il 11 settembre, 2011 in Costume, Politica estera, Storia | No Comments »

Dieci anni dopo, l’11 Settembre per molti è un pezzo polveroso di storia. Punto di svolta della contemporaneità, è stato rubricato alla sola voce “guerra” da alcuni, “shock” da altri, ma pochi finora hanno cercato di inquadrarlo come uno dei picchi sismografici di un ciclo che viene da lontano. L’abbattimento delle Torri Gemelle è un’icona dell’immaginario del Ventunesimo Secolo. Il prodotto della diffusione e dispersione dei fatti in immagini. Meno testo scritto e più pixel. Meno parole e più bit. È la dissoluzione del racconto e del senso delle cose. Torri che crollano. Migliaia di volte in tv. Show e assuefazione. Torri distorte. George Steiner nelle prime pagine del suo libro «Nel castello di Barbablù», racconta come l’uso massiccio della posta a cavallo e la dimensione di massa delle guerre napoleoniche abbiano modificato la percezione della realtà. Bonaparte non era solo un formidabile artigliere, ma un uomo della Storia. Mentre Kant e Hegel scrivevano pilastri della filosofia, cannoni e baionette dell’Armèe riordinavano l’Europa. E le notizie galoppavano.
L’informazione/deformazione ha accelerato non solo i processi di incontro e creazione, ma anche di conflitto e distruzione. L’11 Settembre 2001 è stata la prova generale di una società occidentale iperconnessa che conosceva il male di un mondo sconnesso, quello dei talebani e di Osama Bin Laden. L’era degli shock globali si è trasformata in un videogame dove l’Occidente ha cominciato a ripiegare su se stesso.
Quella che alcuni polemisti hanno chiamato la “cultura del piagnisteo” si è diffusa e un micidiale senso di colpa ha pervaso l’animo di chi aveva portato la bandiera del self made man ovunque nel mondo. Questa ritirata delle forze della libertà continua e appare inarrestabile.

La Storia ha virato a Est lasciando l’Ovest scoperto e debole. Il Sud del mondo preme a Nord e la Terra di Mezzo d’Oriente è una polveriera. L’Egitto è un monito per tutti, ci insegna che le minacce covano anche tra i gelsomini, mentre Teheran presto avrà la Bomba e noi, dieci anni dopo, non sappiamo che fare.  Mario Sechi, Il Tempo, 11 settembre 2011 (nella foto: la mattina del 12 settembre 2001 tre pompieri di New York issano la bandiera americana  sulle macerie delle Due Torri a sottolineare l’immediata volontà del mondo libero stretto intorno agli Stati Uniti di non arrendersi al terrorismo)

.……Il decennale della tragedia dell’11 settembre ha vari modi per essere raccontato. Sechi ha scelto quello che a noi sembra il più realistico. Ha tralasciato la facile retorica con cui molti, sia mass-media che politici di ogni genere, da giorni e stamattina ancor più, hanno scelto di ricordare la tragedia che dieci anni fa sconvolse il mondo e lo cambiò. Sechi ha scelto di raccontare come il cambiamento del mondo continui nella direzione che gli attentatori avevano in mente. Non erano profeti ma di certo il loro intento, quello di sconvolgere la vita degli uomini e dell’Occidente, oltre che dell’America, appare perseguito da ciò che nel mondo sta accadendo, con il passaggio di ruolo guida, prima ancora che militare, economico (posto che è  l’economia a indirizzare e determinare le opzioni anche militari, come la recente vicenda della Libia ha dimostrato…)  dall’Ovest all’Est, con la Cina che possiede buona parte del debito pubblico americano e con i paesi emergenti dell’est asiatico  che si muovono da protagonisti sugli scenari del mondo. I principali attori  occidentali del momento, ad  iniziare da Obama con tutte le delusioni che ha provocato, preferiscono la retorica alla realtà, preferiscono nascondersi dietro le commemorazioni piuttosto che affrontare la realtà e tentare di invertirne la tendenza, per restituire all’Occidente il ruolo di centralità che può garantire gli equilibri mondiali con l’Occidente capace di fermare le invasioni dal’est. Ma ora non basta la retorica, non sono sufficienti le commemorazioni, occorrono decisioni coraggiose e determinate, sono necessarie scelte che impediscano al mondo di andare alla deriva. Per questo bisogna lavorare e per questo, così come dieci anni fa, insieme a tutto il mondo,  ci dichiarammo orgogliosamente americani, oggi altrettanto orgogliosamente ci dichiariamo  occidentali. g.

I VOLTAGABBANA DI TRIPOLI? DA BRUTO A FANFANI STORIA -ED ELOGIO! – DEI TRASFORMISTI

Pubblicato il 28 agosto, 2011 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

Un po’ sfacciatella,nel suo cambio di casac­ca, la giornalista televisiva libica Hala Mi­srati lo è indubbiamente stata. Presentata­si in video con pistola in pugno ed espressione eroica, una settimana fa si dichiarò pronta a esse­re martire della causa di Gheddafi. Adesso, dopo l’arresto, gli si è rivoltata contro e parla di «regime del tiranno». Una bella faccia tosta da affiancare ad altre facce non meno toste. Come quelle del pri­m­o ministro del governo transitorio Mahmoud Ji­bril, o di Mustafa Jalil presidente del Cnt, un tem­po entrambi ferventi seguaci del Colonnello. I ripensamenti libici non sono che gli ultimi esempi d’una cultura del voltagabbanismo che percorre tutta la storia millenaria delle relazioni tra potentati e tra potenti. Tanto da sollecitare un interrogativo che i moralisti della politica potran­no anche ritenere improponibile, ma che a me sembra invece molto sensato. I voltagabbana so­no stati e sono, negli eventi dei popoli, una vergo­gna, o una risorsa, o tutte e due le cose in­sieme? Prendiamo proprio il caso libi­co. A chi è meglio affidarsi, per assi­curare una transizione morbida, senza ammazzamenti rappresa­glie e vendette dalla dittatura di Gheddafi al regime prossimo ven­turo? Non certo ai fanatici del fon­damentalismoislamicoche, incor­rotti e incorruttibili, aspirano a in­staurare in Libia, e possibilmente dovunque, clericocrazie autorita­rie, munite di temibili polizie per la salvaguardia dei costumi e del cora­no. E nemmeno a intellettuali elita­ri che sognano per il terzo mondo istituzioni ricalcate sul modello delle più solide e antiche democra­zie. I traghettatori lì si sono dovuti cercare-nella speranza d’averli tro­vati- altrove: proprio tra gli ex preto­riani e cortigiani del raìs sconfitto. Infatti è di là che viene il nerbo della nuova- si fa per dire- dirigenza libi­ca. Tutti ostentano buoni motivi per i loro pentimenti, ci sono i trom­bati con il dente avvelenato, ci so­no i furbi che hanno subodorato il fatale declino d’un despota in sella da 42 anni, ci sono gli acrobati del salto all’ultima ora,appena in tem­po per accodarsi alla turba inneg­giante ai vincitori e imprecante contro lo sconfitto. Saranno loro, forse,cherisparmierannoall’Occi­dente il pericolo di trovarsi di fron­te, sulla sponda africana, un bloc­co politico-religioso intollerante e aggressivo. I voltagabbana come lubrifican­te della storia. Può essere sconfor­tante ammetterlo ma è così. Si può tradire per mille diversi motivi, per i più nobili ideali come Bruto: o per venalità come i condottieri rinasci­mentali che si mettevano al servi­zio di questo o quel signore dietro lauto pagamento: o per alti e anche lodevoli disegni politici. Si diceva d’un principe di casa Sa­voia che non finisse mai una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva co­minciata, e se questo ac­cadeva era perché ave­va cambiato campo due volte. In determinate epoche, prima cioè che la politica e i conflitti ve­nissero rivestiti a torto a ragione di panni ideali, queste trasmigrazioni erano normali. Apparte­nevano alla lotta per il dominio e per il potere. Machiavelli ha dato si­stematicità e dignità a questo brutale procede­re degli avvenimenti che coinvolgono i re­gnanti, a Cesare Borgia detto il Valentino nessu­no avrebbe mai chiesto d’essere coerente, gli si chiedeva d’essere – e non lo fu – vincente. La figura del voltagab­bana- o se vogliamo del mercenario militare, pronto a mettere la sua spada al servizio del mi­gliore offerente – si è in­cupita e avvilita quando l’ideologia ha rivestito di fini salvifi­ci o patriottici le guerre, le conqui­ste, le vittorie, le sconfitte, i patteg­giamenti. Fu esaltata la resistenza della Francia rivoluzionaria all’as­sedio dell’ancièn régime. Ma toccò proprio a Napoleone I,l’erede del­la Rivoluzione che ne portò in tutta Europa il verbo – seppure correda­to di ori imperiali – di patire i più brucianti abbandoni. Quello del maresciallo Ney che passò ai reali­­sti, nei cento giorni dopo la fuga dal­l’-Elba tornò agli ordini di Napoleo­ne e, dopo Waterloo, fu infine dai re­alisti fucilato per tradimento. Ci vuole, per sopravvivere come volta­gabbana, un talento che a Ney man­cava. O quello-l’abbandono-di Char­les Maurice Talleyrand, volta a vol­ta vescovo, rivoluzionario, mini­stro bonapartista, orditore di com­plotti contro Napoleone, rappre­sentante della Francia al congres­so viennese della restaurazione. Il «Girella emerito» del Giusti che, per àncora d’ogni burrasca teneva – cito a memoria- «da dieci a dodici coccarde in tasca».Servì più padro­ni, ma servì alla Francia o la danneg­giò? Camillo Benso conte di Cavour fu un voltagabbana? Di sicuro lo fu. Gli avversari gli rimproverarono la spregiudicatezza con cui nel 1852, per avere la nomina a primo mini­stro, si alleò alla sinistra di Urbano Rattazzi. Avevaungrandedisegno, e nessuna esitazione nell’essere,al­l’occorrenza, ambiguo o bugiardo tout court. Nell’«italietta» post ri­sorgimentale Agostino Depretis diede un’etichetta quasi ufficiale alle giravolte della sua esperienza di governo, alla sua arte di navigare senza fulgori ma anche senza gli gIà, SIAMer­rori di cui si rese poi colpevole Cri­spi tra opposte sponde e scogli affio­ranti. La si chiamò,quell’esperien­za, trasformismo. Se la qualifica di voltagabbana si addice anche agli Stati, la merita senza dubbio l’Italia del 1914-1915 passata, dopo lo scoppio della Grande Guerra, dall’alleanza con l’Austria alla neutralità e infine al­l’intervento a fianco dei francesi e degli inglesi.
Ci saremmo esibiti in analoghi e peggiori voltafaccia an­che nella seconda guerra mondia­le, quanto ci schierammo con la Germania trionfante e l’abbando­nammo allorché fu in difficoltà. Con zelo servile dichiarammo infi­ne guer­ra ai nostri ex alleati Germa­nia e Giappone. Alla caduta del fascismo la voca­zione italiana per il voltagabbani­smo- ma non è un’esclusiva,basta pensare alla Francia tra Pétain e De Gaulle- emerse prepotentemente. Il maresciallo Badoglio, protagoni­sta negativo di Caporetto, conqui­statore dell’Etiopia, vecchio arne­se del regime fascista, si scoprì de­mocratico, Vittorio Emanuele III, che aveva apprezzato Giolitti e su­bìto mugugnando ma obbedendo Mussolini, riluttò all’abdicazione, riteneva d’essere adatto per tutte le stagioni. Un popolo che era stato compattamente in camicia nera di­chiarò da u­n giorno all’altro d’aver­la sempre aborrita, e Amintore Fan­fani che aveva tessuto in un suo li­bro le lodi del corporativismo fasci­sta si ritrovò tra gli uomini più pro­mettenti della Dc. Possiamo anche aggrottare il sopracciglio per certe deambulazioni sfrontate, ma non senza riconoscernel’utilità.Nel tra­monto- non foss’altro che per moti­vi anagrafici- della stagione berlu­sconiana, si profilano altri travesti­menti e mascheramenti. Preparia­moci a tutto. Mario Cervi, Il Giornale, 29 agosto 2011
.…………….L’avvertimento di Cervi è superfluo, come del resto questo breve excursus nella storia del trasformismo, anzi, chiamiamolo per nome, del tradimento, sta a dimostrare.

BANDIERE ROSSE E PRIVILEGI D’ORO: ECCO LA “CASTA” DEI SINDACALISTI

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume | No Comments »

Strumenti utili
Con leggi e leggine si sono rita­gliati privilegi su privilegi. Una norma qui, un articolo là e tutto s’incastra al punto giusto. I sinda­cati dovrebbero tutelare i lavora­tori, ma in realtà sono, come ha in­­titolato un suo libro il giornalista dell’ Espresso Stefano Livadiotti, l’altra casta. Una nomenklatura che spesso si sovrappone e si con­fonde con quell­a ospitata sui ban­chi di Palazzo Madama e Monteci­torio. Nella scorsa legislatura 53 deputati e 27 senatori, per un tota­le di 80 parlamentari, provenivano dalla Triplice. Secondo Livadiotti costituiscono il terzo gruppo par­lamentare, insomma formano una lobby agguerrita quanto se non più di quella degli avvocati. E nel tempo hanno strutturato un si­stema di potere studiato fin nei dettagli.Non che non abbiano me­riti storici impo­rtantissimi nell’af­francamento di milioni di italiani, ma col tempo i sindacati hanno cambiato pelle. E anima. Basti dire che i rappresentanti dei lavoratori hanno un patrimo­nio immobiliare immenso, ma non pagano un euro di Ici. Si fa un gran parlare di questi tempi delle sanzioni di cui gode la Chiesa cat­tolica ma i sindacati non versano un centesimo. Altro che santa eva­sione. Il lucchetto è stato fabbrica­to col decreto legislativo numero 504 del 30 dicembre 1992, in pie­no governo Amato. Con quella tro­vata, i beni sono stati messi in sicu­rezza: lo Stato non può chiedere un centesimo. Peccato, perché non si tratterebbe di spiccioli. Per capirci la Cgil dice di avere 3mila sedi in giro per l’Italia. È una sorta di autocertificazione perché, al­tra prerogativa ad personam , i sin­dacati non sono tenuti a presenta­re i loro bilanci consolidati. Sfug­gono ad un’accurata radiografia e non offrono trasparenza, una mer­ce che invece richiedono punti­gliosamente agli imprenditori. Dunque, la Cgil dispone di un al­bero con 3mila foglie ma la Cisl fa anche meglio: 5mila sedi. Uno sproposito. E la Uil, per quel che se ne sa, ha concentrato le sue pro­prietà nella pancia di una spa, la Labour Uil, che possiede immobi­li per 35 milioni di euro. Lo Stato che passa al pettine le ricchezze dei contribuenti non osa avvici­narsi a questi beni. Il motivo? La legge equipara i sindacati, e in ve­rità pure i partiti, alle Onlus, le or­ganizzazioni non lucrative di utili­tà sociale. Dunque la Triplice sta sullo stesso piano degli enti che raccolgono fondi contro questa o quella malattia e s’impegnano per qualche nobile causa sociale. Insomma, niente tasse e map­pe s­fuocate perché in questa mate­ria gli obblighi non esistono. E pe­rò lo Stato ha alzato un altro ponte levatoio collegando il passato al presente con un balzo vertigino­so. Risultato: le principali sigle hanno ereditato le sedi dei sinda­cati di epoca fascista. Gli immobi­li del Ventennio sono stati asse­gnati a Cgil, Cisl Uil, Cisnal (l’at­tuale Ugl) e Cida (Confederazio­ne dei dirigenti d’azienda). Senza tasse, va da sé, come indica un’al­tra norma: la 902 del 1977. Leggi e leggine. Così un testo ad hoc , questa volta del 1991, permet­te alle associazioni riconosciute dal Cnel di poter creare i centri di assistenza fiscale. I mitici Caf. Qui i lavoratori ricevono assistenza prima di compilare la dichiarazio­ne dei redditi. Attenzione: la con­sulenza è gratuita perché, ancora una volta, è lo Stato a metterci la faccia e ad allungare la mano. Per ogni pratica compilata lo Stato versa un compenso. È un busi­ness che vale (secondo dati del 2007) 330 milioni di euro. Soldi e un trattamento di lusso. Altro capitolo, altro scivolo, altro privilegio: quello dei patronati. Ogni sindacato ha il suo. Il moti­vo? Tutelare i cittadini nel rappor­to con gli enti previdenziali. Co­me i Caf, ma sul versante pensio­nati. Questa volta la legge è la 152 del 2001. Lo Stato assegna ai patro­nati lo 0,226 dei contributi obbli­gatori incassati dall’Inps, dal­l’Inpdap e dall’Inail. Altri trecen­to e passa milioni che servono per far cassa. E per tenere in piedi la baracca. Le stime, in assenza di bi­lanci, sono approssimative ma i sindacati mantengono un appara­to di prima grandezza e hanno cir­ca 20mila dipendenti. Sono i nu­meri di una multinazionale che però si comporta come un’azien­dina con meno di 15 dipendenti. Altrove, vedi lo Statuto dei lavo­­ratori, le tute blu sono tutelate tan­t’è che Berlusconi a suo tempo aveva provato, invano, ad aprire una breccia proponendo la can­cellazione dell’articolo 18. Ma dal­le parti della Triplice valgono al­tre regole, diciamo così, più libe­ral o, se si vuole, meno restrittive. Un’altra leggina, questa volta del 1990, offre a Cgil, Cisl, Uil la possi­bilità di mandare a casa i dipen­denti senza tante questioni. In­somma, è la libertà di licenzia­mento. Una bestemmia per gene­razioni di «difensori» degli ope­rai, dei contadini e degli impiega­ti. Ma non nel sancta sanctorum dei diritti. Due pesi e due misure. Come sempre. O almeno spesso. Per non smarrire le ragioni degli ultimi si sono trasformati nei pri­mi. Creando appunto un’altra ca­sta. Ora, la Cgil di Susanna Camus­so proclama lo sciopero generale per il 6 settembre e chiama a rac­colta milioni di uomini e donne. Un appello, legittimo, ci manche­rebbe. Ma per una volta i sindaca­ti farebbero bene a guardarsi allo specchio. Forse, qualcuno non si riconoscerebbe più. Stefano Zurlo, Il Giornale, 27 agosto 2011
.……E Zurlo dimentica le migliaia di sindacalisti, pagati dalle aziende e sopratutto dallo Stato, posti comando o in distacco  retribuiti che lavorano (se lavorano!) per i sindacati. Altro che casta. E una banda di delinquenti che sfrutta i lavoratori per farsi i propri affari.  Come quell’ analfabeta insegnante  (sic!) di tecnica nelle scuole media che si è inventato un sindacato che conta due o tre iscritti, grazie ai quali ottiene distacco retribuito e riesce a farsi incaricare dirigente scolastico. Uno che al più in una scuola seria e libera dai sindacati avrebbe potuto fare il puliscia cessi.

IN SIRIA IL REGIME SPEZZA LE MANI AL VIGNETTISTA ANTISADAT. E NESSUNO FIATA

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume, Politica estera | No Comments »

DAMASCO – Aveva disegnato Assad che faceva l’autostop con Gheddafi e altre vignette satiriche anti regime. Lo hanno pestato a sangue e gli hanno spezzato le mani.

Così gli agenti dei servizi di sicurezza di Damasco hanno dato una lezione al celebre vignettista siriano Ali Ferzat per ridurlo al silenzio. Gli hanno detto, ha riferito un familiare dell’artista, che si è trattato «solo di un avvertimento» e gli hanno ordinato di smettere di disegnare.

Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat Le vignette di Ali Ferzat

«Le nostre vite sono in pericolo», ha spiegato l’uomo. Fondatore di un giornale satirico chiuso dopo numerosi attacchi e censure, il disegnatore ha un sito dove pubblica i suoi disegni (www.ali-ferzat.com) che ieri è stato a tratti oscurato. Alla vigilia del 25esimo venerdì consecutivo di proteste, gli attivisti hanno denunciato l’uccisione di almeno quindici persone in 24 ore, tra cui una donna. Il Corriere della Sera, 27 agosto 2011

…. Fin qui il Corriere della Sera che in prima pagina, come hanno fatto ieri nunmerose testate televisive, hanno dato notizia del pestaggio cui è stato sottoposto il vignettista satirico siriano Alì Ferzat come punizione per le vignette  contro il dittatore siriano che a parole promette democrazia e nei fatti reprime il dissenso, anche quello della satira che, come si sa, uccide più delle baionette. Naturalmente il silenzio delle diplomazie internazionali è assordate. Non osiamo pensare cosa sarebbe accaduto se, per esempio, qualche cosa molto, molto meno simile fosse accaduto al Vauro di Santoro o al Crozza di Floris. Sorvoliamo. E ci domandiamo. Dove diavolo sono Cameron e Sarkozy che mossi da irrefrenabile preoccupazione per le vittime del sanguinario Gheddafi hanno scatenato una guerra contro un Paese sovrano, membro dell’ONU, sganciando tonnellate di esplosivo sulle città libiche che hanno mietuto, pare,  oltre 20000 mila morti, la maggior parte dei quali tra i civili inermi che si sono trovati nella traiettoria delle bombe? E contro la Siria di Sadat, che nelle ultime settimane, senza l’aiuto delle bombe democratiche  francesi e inglesi , ha falciato centinaia di inermi cittadini la cui unica colpa era ed è quella di aspirare alla libertà di cui la democrazia è una conseguenza, perchè mai nottetempo i due campioni sopradetti non hanno concordato l’invio dei superjet armati di missili  per sforacchiare il regime  e costringerlo a lasciare liberi i siriani? E perchè il Tribunale penale dell’Aia, sempre pronto a reclamare imputati quando questi non sono più in grado di reagire, non chiedono l’immediata estradizione di Sadat dinanzi a quel Tribunale per rispondere, come Gheddafi e i suoi figli,  e prima di lui, Milosevic, e gli altri brutti ceffi del genocidio serbo,  dei crimini contro l’umanità? Ci viene il dubbio che al duo Cameron-Sarkozy dei libici non gliene fregasse più di tanto e che ad indurli alla guerra  non sia stata la commossa preoccupazione per la le loro vite, bensì i loro affari e quelli dei loro amici e delle loro aziende petrolifere. Quanto al Tribunale penale dell’Aia, ci fa  venire alla mente che da sempre i vinti hanno torto e i vincitori scrivono la storia. Spesso genuflettendola ai propri interessi.  g.

CASO PENATI: RINUNCIATE ALLA PRESCRIZIONE

Pubblicato il 27 agosto, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Il Pd sta perdendo la battaglia di Stalingrado. Se continua così, finirà che gli iscritti dovranno fare una class action contro Filippo Penati. Il danno che la vicenda di Sesto San Giovanni sta infatti arrecando al partito di Bersani è molto serio, e ogni mossa dell’indagato tende ad aggravarlo.
Alla notizia che il gip aveva confermato «l’esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione», ma non li aveva considerati «concussione» evitandogli così l’arresto, Penati ha infatti festeggiato con una dichiarazione surreale, come se fosse stato assolto. Poi ieri qualcuno deve averglielo fatto notare, ed è arrivata l’autosospensione dal partito e dal gruppo consiliare alla Regione Lombardia, la procedura standard che si usa nel Pd per evitare l’espulsione. Con essa, la carriera politica dell’uomo che era stato incaricato da Bersani di strappare il Nord a Berlusconi si può considerare praticamente finita.
Stavolta infatti non si può neanche dire «aspettiamo il processo», perché il processo non ci sarà per avvenuta prescrizione. Penati potrebbe certo rinunciare alla decorrenza dei termini, per ottenere un proscioglimento nel merito o la sentenza di assoluzione. Ma ieri, pur dichiarandosi innocente, non ha anticipato niente del genere. È suo diritto, ovviamente, e il garantismo consiste anche nel difendersi dal processo, oltre che nel processo. Però Bersani deve sapere che d’ora in poi l’argomento contro il ricorso alla prescrizione, tante volte rinfacciato a Berlusconi e agli indagati dell’altra parte politica, non potrà mai più essere usato dal Pd. Per un partito che ha obbligato i suoi parlamentari a votare per l’arresto di Tedesco, accusato di fatti meno gravi di quelli contestati a Penati, è un brutto contrappasso.
Ma non è questo l’unico danno che la vicenda arreca al Pd. Il punto cruciale, infatti, è che Penati non può essere trattato come una «mela marcia». Non c’è niente di «marcio» in quest’uomo politico che si è fatto le ossa nella gavetta comunista, prima da sindaco e poi da presidente di Provincia, salendo un po’ alla volta fino a diventare il braccio destro di Bersani, alle cui truppe aveva portato la bandiera dei riformisti lombardi. Penati non commerciava in Rolex falsi e non girava in Ferrari. Se ha preso le mazzette che gli vengono contestate, le ha prese per finanziare la sua ascesa politica e quella dei suoi compagni. Ed è sgradevole che il gip, seguendo una moda ormai invalsa tra i magistrati, infili nella sua sentenza gratuiti commenti da corsivista, scrivendo che si è comportato come un «delinquente matricolato».
Ma è proprio perché Penati non è delinquente matricolato che il Pd è nei guai. Quello emerso a Sesto San Giovanni è infatti un «sistema», anzi un «sistemone» di finanziamento della politica. Non c’è solo Penati. C’è il suo capo di gabinetto, c’è l’assessore della giunta seguente, e per una vicenda minore è indagato anche l’attuale sindaco. Il pm parla di un «direttorio finanziario democratico» in opera da almeno 15 anni, di un vero e proprio «peccato originale». È di quel peccato originale che il vertice del Pd sta ostinatamente evitando di parlare, assumendo un atteggiamento da vergine offesa che le circostanze davvero non giustificano. Se infatti le cose funzionavano così a Sesto San Giovanni, che era un po’ la boutique del governo della sinistra nel Nord, se coinvolgevano le Coop, se proseguivano nell’inquinamento probatorio fino ai giorni nostri, se perfino il successo elettorale a Milano poteva diventare occasione per reiterare il reato tacitando l’imprenditore amico, titolare per altro di una società il cui nome, «Caronte», diceva già tutto; beh, allora vuol dire che si trattava di una pratica radicata, antica ed evidentemente tollerata. Il punto è: quanto è estesa? Troppe fondazioni, troppe correnti, troppi feudi locali nel Pd cercano risorse per vivere, affermarsi e contare a Roma un po’ come ha fatto Penati in questi anni.

Non so se nel Pd ci sono ancora i probiviri come c’erano una volta nel Pci. Ma, se ci sono, Bersani dovrebbe sguinzagliarli in giro per l’Italia, dovrebbe essere lui a promuovere un’inchiesta, a scrutare dentro e dietro i potentati piccoli e grandi che esistono nel suo partito, alcuni dei quali – Penati e le Coop di sicuro – fanno parte integrante della sua constituency personale. Il Pd ha proposto nella «contromanovra» un drastico taglio dei costi della politica. Ma non c’è nessun aspetto della politica italiana che costi più della corruzione. La credibilità di un partito che vuole curare il Paese sta anche nella capacità di curare innanzitutto se stesso. Antonio Polito, Il Correre della Sera, 27 agosto 2011

…….Penati non è l’unico che festeggia una prescrizione come una assoluzione. Fece altrettanto il geom. Giorgio Gaetano detto Nino all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione per le lottizzazioni abusive di via Fleming e di via Vinci. Giorgio,  dipinto  dalla Cassazione  come partecipe della “concreta attuazione del disegno criminoso diretto a condizonare la riserva pubblica della programmazione territoriale”, ha beneficiato della prescrizione, proprio come Penati, ma ciò non toglie l’accertata responsabilità per la quale però non deve rispondere,  diversamente da quelli che si erano fidati delle sue rassicurazioni e che ora trepidano, a causa sua e delle macchinazioni poste in essere grazie alla sua carica politica,  per il bene casa per il momento confiscato.  Giorgio si è guasrdato bene  dal  rinunciare alla prescrizione  e con la faccia tosta che è tipica di chi se ne infischia delle regole si atteggia a martire.  Proprio come farà Penati di qui a qualche mese, o anche meno. g.