Archivio per la categoria ‘Costume’

A CHI GIOVA LA MACCHINA DEL FANGO?, di Giuliano Ferrara

Pubblicato il 5 maggio, 2011 in Costume, Politica | No Comments »

Il rovesciamento della frittata è una specializzazione notoria di certi ambienti editoriali che da un tempo infinito danno la caccia a Silvio Berlusconi con tutti i mezzi, coprendolo di fango e fanghiglia quotidianamente. Sequestrato da Repubblica per le sue campagne militarizzate, il famoso autore di best-seller Roberto Saviano non ha molto senso dell’umorismo quando dice che chi critica il governo finisce «delegittimato».

A chi critica e insolentisce tutti i giorni il governo più delegittimato del mondo succede quel che tutti vedono: vende molto i suoi prodotti sul mercato del disprezzo e del cosiddetto contropotere; ha a disposizione editori a bizzeffe, e perché no anche l’odiato editore-presidente che gli apparecchia la tavola con tovaglie di pizzo; dilaga sui giornali con premio grasso al suo narcisismo, fotografie sofferenti e cristologicamente ispirate, articolesse di e su l’eroe del momento; la costruzione di un alone di santità e di bellezza e di fascino per le masse lo porta in teatri e piazze e concerti sempre pienissimi di gente plaudente, e swinging; è conteso nei salotti del potere culturale e politico; diventa anchorman per la tv pubblica e per altre reti dove la psicologia della piazza distrugge letteralmente interlocutori e avversari sgraditi; gode di campagne di diffamazione dei suoi critici ordinariamente ammannite dai media carcerari e teppistici che sfruttano il rapporto a doppia mandata con i magistrati manettari e comizianti per distruggere gli avversari; ha modo di farsi nuovi titoli da piagnisteo invocando il pericolo della censura; se la censura arriva, naturalmente ben pagata e liquidata in grande spolvero, allora si fa un giretto nel Parlamento europeo; poi torna immancabilmente a concionare lieto nelle case degli italiani in trasmissioni ritmate sul calendario settimanale, senza un giorno di eccezione e di riposo, compresi il sabato e la domenica; gode di un accreditamento internazionale che gli procura la logica da beautiful people tipica degli ambienti liberal anglosassoni e francofoni; e quando vince le elezioni, ciò che accade nonostante la sempre denunciata dittatura televisiva dell’Arcinemico, si prende tutto e si fa una passeggiata nel palazzo del potere, ma senza subire gli strali del contropotere militante della destra, che non esiste o è infinitamente inferiore in perfidia e in efficacia.
Dimentico certamente altri particolari lubrichi e divertenti dell’amplesso con la folla osannante e delle soddisfazioni di mercato politico a cui va incontro chi «delegittima» il governo e finisce in questa valle di lacrime che è l’opposizione in Italia.
E questa sarebbe la macchina del fango di Berlusconi, l’uomo politico più spiato, processato, accusato, pedinato, statuettato sui denti, dileggiato, osteggiato in patria e all’estero che esista al mondo. Ora, capisco che nella logica fintamente ingenua, vittimistica e banale di queste marionette nelle mani del club dei miliardari, quelli che mandano i bambini a recitare le litanie dell’odio, ogni critica, ogni ironia, ogni assalto anche il più fragile e sconclusionato della destra e dei suoi giornali di minoranza è considerato lesa maestà degli intoccabili. Capisco che i caserecci show del premier davanti ai tribunali sono invece esibizione di svergognate claque orwelliane pagate con panini al salame. Ma un po’ di senso dell’umorismo, quando parlano di macchina del fango, non riesce a penetrare i cuoricini beati e le cape fresche degli eroi del mercato che ha in Berlusconi il suo core business? Giuliano Ferrara, Panorama

QUELLA VOLTA CHE AL PAPA FU RACCONTATA UNA INNOCENTE BUGIA….

Pubblicato il 3 maggio, 2011 in Costume, Notizie locali | No Comments »

E' il 14 marzo 1990: un gruppo di alunni della scuola media di Toritto, accompagnati dal sindaco Gagliardi, partecipano alla udienza generale di Papa Giovanni Paolo II nella Sala Nervi.... e al Papa viene raccontata una innocente bugia

Non si trattò proprio di una bugia, piuttosto di una innocente  imprecisazione. Ad accompagnare i ragazzi, gli insegnanti e il sindaco Gagliardi, alla udienza generale – era un mercoledì -  c’era un sacerdote di Grumo Appula con  radici torittesi, don Antonio Ugenti, che a quel tempo lavorava in Vaticano. Don Ugenti,  che ricordiamo sempre con simpatia e affetto, riuscì a far sistemare i ragazzi lungo il corridoio che il Papa avrebbe percorso due volte, all’arrivo e al ritorno dalla Sala delle Udienze:  al Sindaco, a cui aveva fatto  indossare la fascia tricolore, riuscì a riservare una postazione ancor più  a ridosso del percorso papale. Cosicchè,  quando Giovanni Paolo II arrivò lì dove era sistemato il sindaco Gagliardi, don Ugenti, la cui mano destra si vede nella foto mentre lo indica al Papa, chissà perchè, dice al Papa: Santità, questo è il sindaco del paese di Mons. Colasuonno ( non ancora Cardinale). Non era vero,  ma il Papa ovviamente non poteva saperlo. C’è però che Giovanni Paolo II si rivolge al sindaco Gagliardi e gli dice qualcosa che il sindaco non comprende, sia perchè profondamente emozionato,  sia per la gente che come si vede nella foto si accalca per stringere, toccare, salutare il Papa, sia per la particolare tonalità della voce del Papa. Cosa gli avrà detto il Papa? Il sindaco Gagliardi  se lo chiede più volte durante il giorno ma dovrà attendere la mattina successiva, 15 marzo 1990,  per comprendere ciò  che il Papa gli aveva detto: gli aveva  anticipato, credendolo  il sindaco del paese di Mons. Colasuonno,  una notizia, tenuta sino ad allora gelosamente segreta, e  che  proprio quella mattina, dopo essere stata diffusa durante la notte dall’Ufficio Stampa del Vaticano,  “apriva”  tutti i giornali del mondo: il Vaticano, cioè la Chiesa di Roma,  per la prima volta dopo la rivoluzione d’ottobre, cioè dopo più di 60 anni,  aveva nuovamente un proprio rappresentante ufficiale in Russia, un Nunzio Apostolico  e proprio  nella persona di Mons. Francesco Colasuonno, fine e intelligente diplomatico,   che proprio di ritorno dalla Russia riceverà la porpora cardinalizia. La piccola e innocente bugia di don Ugenti aveva indotto il Papa a rivelare una notizia,   e nell’anticiparla certo  intendeva rendere omaggio alla terra natale di Colasuonno che come poi si apprese era stato il primo, straordinario  artefice della ricomposizione diplomatica tra la Russia e la Città del Vaticano a rappresentare la quale il Papa aveva voluto proprio il futuro Cardinale.

PAPA GIOVANNI PAOLO II: QUANDO L’INVISIBILE DA’ SPETTACOLO

Pubblicato il 1 maggio, 2011 in Costume | No Comments »

Non cercate lontano la prova della santi­tà di Giovanni Paolo II. Non cercatela solo nei miracoli e nelle testimonianze di singoli. La prova immediata e vistosa del­la santità di Giovanni Paolo II fu davanti a un miliardo di persone. Fu un’immagine sacra e leggera, infinitamente ripetuta in tv. L’invisibile dette spettacolo di sé, in mondovisione. Ricordate? Milioni di per­sone in piazza e in video, più i prelati e i potenti della terra. E al centro del colonna­to la nuda solitudine di una bara di cipres­so e un libro che volteggia sulla nuda cas­sa, spiega le ali del Vangelo animate dal vento.

Come un gabbiano. Il vento lo por­tò via con sé. Resterà quell’immagine di vita e di morte a riassumere la cerimonia d’addio del Pontefice. Riaffiorerà oggi che Roma è invasa da tre popoli, pellegrini, fe­stanti e manifestanti, devoti al Papa, al Concerto e al Sindacato. Giovanni Paolo II rese vivo il Vangelo durante il suo apo­stolato; vivo come quel libro che si apriva e si sfogliava su quella cassa di legno sguar­nito, la papa-immobile, per il suo ultimo viaggio.

A vedere quel battito incessante di pagine, pensavi a chi le stava sfoglian­do, quasi a voler dare un ultimo sguardo riassuntivo prima di affrontare l’esame ce­leste. Un’anima sfogliava il Vangelo, si pre­parava per la Casa del Padre. Noi, i viventi, immobili davanti alle sue spoglie; lui, il morto, che animava le pagi­ne in un acconto di resurrezione. Anche da morto il papa- con l’aiuto di un evange­lico vento – fu comunicatore, occupò la scena da protagonista benché assente, la­sciando in ombra il coro dei potenti attor­no al suo feretro e le cerimonie liturgiche solenni.

Carisma e teatro convolarono in­sieme. Sembrava davvero l’anima di un Grande nell’atto finale di spiegare le ali e di salutare la terra. L’anima decollava, sa­lutando i presenti. Poi la voce di Ratzinger cardinale, che ricordò a molti la voce di Karol Wojtyla; è ancora lui che parla trami­te il suo prefetto, pensò la gente. Così fu, in fondo. Lo stesso ritmo e suono, quell’ita­liano e latino con inflessione nordeuro­pea, quell’elegante continuità di parola. In principio fu il Verbo. Il vento gli fu testi­mone. Verbum volat.


PAPA WOJTYLA BEATO, LA FOLLA GRIDA: SANTO SUBITO

Pubblicato il 1 maggio, 2011 in Costume, Il territorio | No Comments »

Piazza San Pietro invasa dai fedeli

In una Roma straordinariamente inondata di sole, un milione e mezzo di fedeli,  giunti da ogni parte del mondo,  ha  salutato  l’annuncio di Papa Benedetto che iscriveva il nome di Giovanni Paolo II fra i Beati della Chiesa di Roma, con un grido alto e forte, sconvolgente e commovente: SANTO SUBITO, riportandoci tutti con la memoria a quella mattina di poco più di sei anni fa quando nella stessa moltitudine di fedeli che partecipavano alle esequie del Papa, si innalzò un grande striscione con la medesima scritta: SANTO SUBITO.

Una invocazione che ha trovato già una prima risposta,  con la beatificazione di Karol Wojtyla, il Papa venuto dall’Est, travolgendo le procedure lunghe e complesse cui da sempre si attiene la Chiesa  prima di procedere alla beatificazione, prima passo per giungere ad innalzare chiunque  agli onori degli Altari. Per Giovanni Paolo II  sembra che più che la Chiesa,  sia stata la moltitudine di fedeli che  abbia “imposto”  la propria volontà e ne abbia preteso la beatificazione al di là di ogni procedura e prassi.

Ed è giusto così. Papa Wojtyla non è stato solo un grande Papa, non è stato solo un grande innovatore e uno straordinario comunicatore, è stato ed ha significato la rinascita della Chiesa che ha riscoperto il gusto e la volontà di essere se stessa, di riscoprire la sua dedizione alla crociata per la salvezza degli uomini. Ogni momento, ogni atto, ogni azione di Giovanni Paolo II  sono stati dedicati alla lotta contro l’ateismo e il laicismo per riaffermare la grandezza del messaggio divino.  Ogni suo gesto, sopratutto quel suo incessante bisogno di raggiungere gli uomini e le donne del grande gregge di Dio in ogni luogo più remoto del mondo,  hanno rappresentato un grande esempio di umiltà e nello stesso tempo di grandezza morale di un Papa che più di chiunque altri aveva sperimentato su se  stesso il peso della schiavitù ideologica asservita agli interessi di parte.

Non a caso e non per caso,  la più grande battaglia di Wojtyla è stata quella combattuta contro il comunismo delle cui aberrazioni conosceva le conseguenze per averle  conosciute e sperimentate nella sua natia e tanto amata Polonia, la più cattolica delle nazioni dell’Est europeo sotto il giogo sovietico, la prima che ebbe il coraggio  di scontrarsi con il duro regime assolutistico che la governava: coraggio straordinario,  che ebbe in Solidarnosc lo strumento pratico, ma ebbe la sua forza morale e dirompente in Papa Giovanni Paolo II che ne sostenne da lontano ma pur spiritualmente vicino l’azione che doveva sfociare nella caduta,  prima del regime polacco e poi, man mano, nello sbriciolamento del gulag sovietico che imprigionava milioni e milioni di uomini. Anche per questo anche noi,  stamane,  eravamo spritualmente presenti, come tutti gli uomini liberi, nella piazza piena di sole che si ritrovava per celebrare la grandezza di un Papa indimenticabile. Che presto sarà Santo. g.


CELENTANO IN DELIRIO:”I NUCLEARISTI? DEMENTI”. E SE IL DEMENTE FOSSE LUI?

Pubblicato il 29 aprile, 2011 in Costume, Economia | No Comments »

Farneticazioni deliranti. Insulti intrisi di odio e conditi con una pseudo coscienza ambientalista. L’ultima lettera di Adriano Celentano – ormai troppo vecchio per vestire i panni del ragazzo della via Gluck – è indirizzata alla redazione del Fatto Quotidiano. Un appello a “studenti, comunisti, fascisti, leghisti e operai costretti a lavorare nell’insicurezza” per affossare il nucleare in Italia: “Essere nuclearisti  non è solo una bestemmia, ma significa essere dementi fin dalla nascita”. Ma a leggere lo sproloquio del Molleggiato viene da chiedersi se il demente non sia proprio lui.

C’era un tempo in cui Celentano inviava le sue lettere al Corriere della Sera. Erano i tempi in cui il cantautore cercava di accreditarsi come il guro ambientalista super partes. Arci noti i suoi attacchi contro i palazzinari milanesi. Oggi il Molleggiato fa un salto avanti. E scrive al quotidiano di Travaglio & Co. per sostenere – apertamente – la battaglia dell’idv di Antonio Di Pietro. Il referendum conhtro il nucleare, contro la privatizzazione dell’acqua e contro il legittimo impedimento. Il bersaglio – manco a dirlo – è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, colpevole di “sfidare l’intelligenza anche di chi lo ha votato, nella sua demoniaca voglia di avvelenare gli italiani”.

Celentano ne ha un po’ per tutto. Anche per il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani. “Che peso può avere oggi la saggezza degli italiani – si chiede il cantautore – se poi chi ci governa fa dei discorsi cretini”. Perché per Celentano chi non la pensa come lui è un cretino, un demente. “Berlusconi – attacca – è ormai in preda a uno stato confusionale”.

Eppure a leggere la lettera di Celentano viene proprio da chiedersi se sia stata scritta da una persona non disturbata. Il Molleggiato si rivolge, infatti, a Silvia, cioè “ciò che è rimasto della coscienza” del premier. “Per meglio identificarla a chi legge – spiega Celentano – la chiamerò con lo stesso nome del presidente del Consiglio, ma al femmile, poiché mi piace immaginare che la voce della coscienza abbia piuttosto i modi dolci e gentili di una bella figura femminile che non quelli rudi e maschili”. Un delirio, appunto. Un delirio infarcito di insulti in cui si accosta il nucleare al caso Ruby, “il malsano gesto di Lassini” alle berzellette del Cavaliere. “Non si tratta più di destra o sinistra – continua nella farneticazione – per capire che un uomo come Berlusconi non solo non può governare l’Italia, ma nessun paese. Al massimo lui e i suoi falsi trombettieri possono andare bene per una piccola tribù, dove tutti quanti, raccolti intorno al capo, si nutrono a vicenda della loro stessa falsità“.

Ci vuole un immane sforzo per portare a termine la lettura. Non solo perché i deliri del Molleggiato sono pesanti da digerire, ma anche perché il nuovo tribuno del Fatto – nell’intento di smascherare le “spaventose bugie” di un premier “senza un minimo di pudore” – non ha né capo né coda. Chiama a raccolta le truppe anti Cav per far cadere il governo ma, come al solito, non va oltre allo scherno e agli insulti. Ancora una volta non si capisce a quale titolo Celentano dia titoli a destra e a manca: sta a vedere che lo strambo sia il Molleggiato e non il Cav… Andrea Indini, Il Giornale, 29 aprile 2011

……Premesso che noi siamo, da sempre, nuclearisti convinti, e premesso che non ci passa “manco per la capa” di dare del demente a chi nuclearista non lo è, capita spesso che chi non abbia molti argomenti a supporto delle sue tesi e talvolta quando avverte disagio a sostenerle , dia del demente a chi non  la pensa come lui. Ma si dà il caso che spesso ad essere demente davvero (da ricovero immediato negli appositi reparti psichiatrici) è proprio chi dà del demente all’altro….torneremo sull’argomento perchè ci capita per le mani un caso di demenza semigiovanile che merita approfondimenti. g.

L’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI SI INFILTRA NELLE UNIVERSITA’ PER FARE PROPAGANDA CONTRO LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

Pubblicato il 27 aprile, 2011 in Costume, Giustizia | No Comments »

“L’Associazione nazionale magi­s­trati sarebbe interessata a pro­muovere incontri di tipo infor­mativo con gli studenti degli atenei, in merito al progetto di riforma costituzio­nale della Giustizia”. È una lettera invia­ta in questi giorni alla presidenza della facoltà di Architettura di Napoli, mica di Giurisprudenza. E diramata a tutte le cat­tedre. L’iniziativa non sarebbe solo loca­le.

Non sono un giurista o un cultore di questioni giudiziarie, ma non riesco a tro­vare precedenti a un’iniziativa del gene­re. Mi pareva già un cedimento dei magi­st­rati accogliere inviti per dibattiti “politi­ci”. Ora addirittura i magistrati stessi pro­muovono quei dibattiti, chiedono di co­miziare per propagandare le proprie tesi contrarie alle leggi varate dal Parlamen­to. Non riesco a trovare analogie di indottrinamento studentesco da part­e di un organo dello Stato se non in Paesi sotto tutela dei militari o dei guardiani della Rivolu­zione, tipo pasdaran. Fino a qualche tem­po fa coltivavo un’idea sacra della giusti­zia e un rispetto istituzionale della magi­stratura, almeno prima di averne fatto esperienza da cittadino. Tuttora rifiuto di tifare nel derby dei poteri tra legislati­vo, esecutivo e giudiziario; trovo avvilen­ti le tifoserie. Ma qui siamo all’ultimo sta­dio. Prima si perse la sobrietà del ruolo, il rigore impersonale, dandosi ad uno sfre­nato protagonismo che debordò dalle se­di giudiziarie ai media fino alla letteratu­ra e al teatro. A Bari i magistrati sono stati protagonisti e registi di rappresentazio­n­i teatrali con attori istituzionali in costu­me, come il presidente della Regione Pu­glia Vendola e altri politici, in spettacoli finanziati con denaro pubblico da Regio­ne, Comune e Provincia. Ora siamo alla predicazione e all’istigazione studente­sca. Conosco l’alibi: siamo sotto una dit­tatura, la Costituzione è in pericolo, dun­que ogni reazione è ammessa. A quando le ronde togate, la trasvolata di magistra­ti su Montecitorio con lanci dimostrativi e le spedizioni punitive? Succedeva al tempo dei giacobini che i tribuni confu­tassero in assemblea le proposte di leg­ge. Però non esercitavano il potere giudi­ziario. Erano tribuni, non magistrati. Marcello Veneziani

IL PROFESSORE FA STUDIARE FACCETTA NERA PERCHE’ RACCONTA UN’EPOCA: SCOPPIA LA POLEMICA

Pubblicato il 22 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Lo spartito originale di «Faccetta nera» del 1935Lo spartito originale di «Faccetta nera» del 1935

Nel mezzo delle polemiche sulla scuola che indottrina i ragazzi arriva dal Veneto un caso che aggiunge benzina sul fuoco: «Faccetta Nera» cantata a scuola, in una media del Vicentino, per iniziativa del professore di musica. La canzone simbolo della presenza «civilizzatrice» dell’Italia fascista in Abissinia, è stata proposta agli alunni della media di Pove del Grappa (Vicenza) nel corso di un programma multidisciplinare che prevede lo studio sul fascismo e la musica del Ventennio. Peccato che quando hanno sentito i figli provare a casa sullo spartito «Faccetta Nera», ma anche «Giovinezza» – come riferisce Il Mattino di Padova – alcuni genitori siano rimasti di stucco. Ora sono intenzionati a chiedere spiegazioni alla scuola, perché loro – spiegano – delle canzoncine del ventennio fascista nel programma non sapevano nulla. Si difende il professore di musica, Nicola Meneghini. Quelle canzoni, come anche Va’ Pensiero e la Leggenda del Piave studiate per il periodo della prima Guerra Mondiale, rientrano «in un ciclo di lezioni che hanno cercato di contestualizzare i periodi storici anche con la musica». «Conoscere non significa nè abbracciare nè sposare una causa – chiarisce la preside della scuola, Luisa Caterina Chenet – La cosa è stata contestualizzata. Non c’è alcun indottrinamento. La nostra è una scuola seria. Forse è stata una scelta culturale un po’ ingenua, ma l’insegnante non voleva certo sostenere alcuna posizione politica». Il docente di musica, però, già rilancia: per lo studio della seconda Guerra Mondiale i ragazzini troveranno sui banchi anche lo spartito di Lili Marlene». (Ansa)

….Sin qui la notizia così come l’ha diffusa l’ANSA e l’ha ripresa il Corriere della Sera di oggi. Ci domandiamo: si può censurare anche la musica che, come giustamente sottolinea l’insegnante, contribuisce a  raccontare una determinata epoca della storia italiana? E se si può censurare Faccetta nera che non era una canzone razzista, anzi era una canzone che accumunava i neri “occupati” ai bianchi “occupanti”, si dovrebbe anche censurare il Piave che era una canzone di guerra che può  per questo dispiacere i pacifisti. E poi c’è  la struggente  Lili Marlene,  che fu cantata dai soldati di tutto il mondo durante la seconda guerra mondiale, ma che fu lanciata dai microfoni della Germania nazista per voce della sua prima indimenticabile interprete, l’ungherese Lale Anderson, e poi cantata  dai microfoni degli alleati dalla più nota attrice di quei tempi, dalla bellissima Marlene Dietrich, tedesca,  a cui si è di certo ispirata la splendida e affascinante Serena Autieri quando l’ha  cantata qualche sera fa alla TV  nel corso di una delle trasmissioni di Vespa e Baudo dedicate all’Unità d’Italia. Insomma, non il è davvero caso di mescolare il sacro con il profano, la musica con i fatti accaduto durante il tempo in cui una certa musica, talvolta un brano, una canzone, sono andati di moda. Se così dovesismo fare dovremmo dimenticare e distruggere,  e non solo per la  musica, tanta parte della cultura del passato. g.

PAOLO MIELI, L’HABITUE’ DELLE CAUSE PERSE

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

Con una petulanza un po’ da sfaccendato, Paolo Mieli torna a dire che il Cav non ha comprato la villa di Lampedu­sa. L’ex direttorone del Corse­ra si è nuovamente presenta­to ieri in tv, Agorà su Rai Tre, per ripetere che a due settima­ne dall’annunciato acquisto ci sono solo caparra e compro­messo. Lo scopo di Mieli è riaf­fermare che il Berlusca gli sta sulle scatole e lo piglia per i fondelli:«Ha detto “l’ho com­prata”. Come dice spesso, “l’ho fatto”oppure “Lampe­dusa è tra le cose fatte” che poi uno va vedere e la cosa non è come Berlusconi l’ha presentata». È la terza volta che Mieli ci batte, considerandola la sua intuizione forte di questo scorcio di primavera. La pri­ma sortita è stata a Ballarò il 5 aprile, dando manleva a Fini che in un video criticava la vi­sita all’isola del Cav in quelle ore. Paolo, in studio, salta su trionfante e dice: «Conosco il proprietario di quella villa e so per certo che non è stata ac­quistata da Berlusconi. È una bugia».

Gongolano gli antipa­tizzanti del Cav e afferra il mi­crofono Walter Veltroni che chiede al Premier di dimetter­si. I toni sono drammatici da quacchero dolente: «Se non è vero quello che il premier ha detto di fronte a tante perso­ne che soffrono, dovrebbe fa­re quello che si fa in un Paese civile: un passo indietro». Mieli si gonfia e la sua calvizie sprizza bagliori di aureola. Due giorni dopo il Foglio pub­blica i documenti della com­pravendita e sbugiarda il di­rettorone. Ma lui ignora. Va ad Annozero e insite. Ieri re­plica. Riguardiamo la scena. Emerge l’antipatia di Mieli per il Cav e, specularmente, la sua consonanza con i politi­ci che detestano il Cav. Si è vi­sto come in tv Paolo sia anda­to in soccorso di Fini e Veltro­ni abbia fatto da spalla a Pao­lo. Ma la lista dei pupilli di Mieli è più vasta perché il gior­nalista- richiamandosi ad an­t­iche figure della professione, Albertini, Missiroli, Scalfari, altri – è ossessionato dall’am­bizione di guidare i governan­ti in veste di maitre à penser.

A questa debolezza umana va anche ricondotta la tensione col premier che, in fondo, è frutto di delusione. Il Cav, in­fatti, aborre l’idea di farsi me­n­are il naso da una mosca coc­chiera, tanto meno da un ex sessantottino qual è Paolone. Quando il Cav scese in poli­tica nel 1994, Mieli dirigeva il Corsera già da un anno e mez­zo. Rimase per un po’ guardin­g­o in attesa che l’astro nascen­te gli desse retta. Insoddisfat­to, gli presentò il conto. Men­tre il Cav presiedeva a Napoli un vertice mondiale, pubbli­cò sul suo quotidiano l’avviso di garanzia del pool di Milano che incriminava il Capo del governo. Era guerra: Mieli aveva schierato contro il pre­mier il quotidiano, fin lì, più governativo d’Italia. Il Corrie­re non fa uno scoop per farlo, come faremmo noi del Gior­nale , più incoscienti. Sui pro e contro ci fa notte. In questo, Paolone è un callido volpone.

In un’altra occasione, quan­do un suo cronista giudizia­rio, Carlo Vulpio, rivelò in una corrispondenza nomi de­­licati – Nicola Mancino vice del Csm, Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Cassazione, altri – lo sollevò dell’inchiesta con una secca telefonata, portandolo al li­cenziamento. Dopo Napoli, tra Cav e Mie­li calò la saracinesca. Lascia­to il Corriere nel 1997, Paolo­ne- che non si sentiva valoriz­zato – si dette una spolveratu­ra asettica, al punto che nel 2003 (legislatura berlusconia­na) fu designato come «presi­dente di garanzia» alla Rai. Ma era una sceneggiata e l’aspirante capì che in realtà non lo voleva nessuno. Si legò al dito la disavventu­ra e, tornato per la seconda volta alla guida del Corriere (mai accaduto prima) lo schierò deciso contro il Cav. Un mese prima dell’elezione dell’aprile 2006, stampò un’editoriale di benservito a lui e una sviolinata rivolta Ro­mano Prodi. Scrisse: in cin­que anni Berlusconi ha «bada­to alle sue sorti personali» e ha deluso; «siamo invece con­vinti che la coalizione di Pro­di abbia i titoli per governare al meglio per prossimi cinque anni».

E giù una serie di osser­vazioni incantate sugli alleati del Prof: Rutelli che «ha crea­t­o un moderno partito liberal­democratico », Fassino «il grande traghettatore», il radi­cale Pannella e il socialista Bo­selli con «il loro mix di laici­smo moderato e istanze libe­rali », Bertinotti che ha fatto «approdare i suoi sulle spon­de della non violenza» e via con i solfeggi. Senza dimenti­care qualche benevolo pas­saggio rivolto a Fini e Casini, i «saggi» del centrodestra. Mie­li, occhio di lince, intuiva che intrigavano e li allettava. Que­sta carrellata di consigli, ca­rezze e ammonimenti è la ve­ra natura di Paolone che, per badialità dei gesti e voce sal­modiante, è il Budda del no­stro secolo. Sappiamo bene come sia­no finiti suggerimenti e previ­sioni. Prodi dopo due anni gettò la spugna inseguito dal­le toghe. Rutelli va in pedalò. Fassino è tornato a Torino. Pannella si è fatto crescere le trecce, Boselli ha perso i ca­pelli, per vedere Bertinotti bi­sogna andare a un cocktail.

Gli restavano Fini e Casini, ri­masti in sella grazie al Cav. Finché ha avuto il Corsera (2009), li ha coccolati con pif­feri e fanfare. A Pierferdy ha lasciato in dote un gioiellino tra il 5 e il 7 per cento. All’ami­co e editorialista Galli Della Loggia, ha raccomandato Gianfry. Galli, pasqualmente felice per la sprovvedutezza culturale dell’allievo,gli ha in­dicato con articoli di fondo le nuove praterie in cui pascola­re: la Destra storica, il laici­smo cavourriano, quello ospedaliero delle clonazioni, dei bimbi in provetta, delle fe­condazioni eterologhe. E lì, Gianfry ha brucato fino a ri­dursi alla controfigura di Boc­chino. Oggi, questo amabile burat­tinaio, autore di storia e buon conversatore tv, ha 62 anni. È figlio d’arte. Renato, il babbo, è tra i fondatori dell’Ansa nel dopoguerra, diresse l’Unità, fu segretario di Togliatti. Poi, aprì gli occhi, lasciò il Pci e scrisse un libro meraviglioso sulle malefatte del Migliore nella guerra di Spagna, To­gliatti 1937 . Nei suoi ultimi an­ni, collaborò col Giornale e Montanelli. L’arcobaleno di Paolone è simile. Quando en­tra all’ Espresso di Eugenio Scalfari a 18 anni, è un putti­no biondo e ceruleo. Poi di­venta un ceffo di Potere Ope­raio. Ma sta solo seguendo la moda, ben altri i suoi destini.

Dall’aio Eugenio succhia il gu­sto del potere. A 40 anni acca­lappia Agnelli che lo fa diretto­re della Stampa , due anni do­po è al Corriere , stesso milieu. Ha due figli dal primo matri­monio, una dal secondo con Barbara Parodi Delfino. A pre­sentargli la bella, fu Luca di Montezemolo che aveva avu­to una figlia da lei. Barbara era tiepida. «Mi sembra di una noia mortale», diceva. Dopo la convivenza, oggi fini­ta da tempo, precisò il giudi­zio: «Paolo ha la testa veloce e il corpo lento. Odia lo sport». Perciò non si darà all’ippica e imperverserà in tv. Il Giornale, 21 aprile 2011

IO VOTO LASSINI E MORATTI, di Alessandro Sallusti

Pubblicato il 21 aprile, 2011 in Costume, Giustizia, Politica | No Comments »

Da quasi tragedia a farsa. Roberto Lassini, il candidato consigliere comunale di Milano che Letizia Moratti non vuole più in lista («O me o lui») per via dei manifesti contro i giudici, sembra non possa fare un passo indietro. La legge elettorale non permetterebbe infatti modifiche alla lista dopo che questa è stata depositata in tribunale. E allora che fare? Pare che si vada verso la seguente soluzione: un impegno del reietto a dimettersi in caso di elezione.

In attesa di notizie certe, anticipo la mia intenzione: alle urne voterò entrambi, Moratti sindaco e Lassini consigliere. Mi sembra che i due possano tranquillamente convivere nel più grande partito popolare della Seconda Repubblica. Letizia Moratti ben rappresenta la testa del Pdl, e merita senza dubbi una riconferma. Lassini è invece portavoce della pancia del popolo berlusconiano, che non ha meno titoli e diritti di altre componenti. Chi pensa che questa sia una buona scelta, da oggi può associarsi

……

.…………..Diciamolo francamente.  Il PDL sta paurosamente incamminandosi sulla strada rovinosa che già fu della Democrazia Cristiana, quella del centrosinistra e poi del compromesso storico che aprì la strada al suo dissolvimento, prima ancora che giudiziario, politico. Mi spiego. La Dc, più o meno nel suo generale insieme, salvo qualche onorevole distinguo, ogni qual volta la sinistra, di ogni tipo e sfaccettatura, montava in cattedra per criticare i singoli esponenti della DC, dagli anni 70 in poi, non ci fu mai una sola volta che la DC, nei suoi vertici o anche nei suoi singoli esponenti, salvo, come ho già detto qualche sporadico caso isolato, prendesse le difese dei suoi esponenti aggrediti dalla sinistra. Basterebbe rileggere le cronache giornalistiche di quei tempi per constatare quanto affermo. Questo atteggiamento rinunciatario, se non vile,  della DC,  ne indeboliì la struttura, sopratutto politica e morale, tanto che quando poi si trovò coinvolta in tangentopoli non possedeva più anticorpo capaci di reagire. Unico e ultimo sussulto di dignità  fu quello di Moro che, sia pure per difendere un suo pupillo, Luigi Gui, comunque un galantuomo, in Parlamento osò dire che “mai la DC si sarebbe fatta processare nelle piazze”. Vuoi per l’alta qualità morale di Moro, vuoi per i toni straordinari, considerati quelli a cui Moro aveva abituato i suoi interlocutori, nessuno osò “processare” Moro per quelle sue parole. Ma fu l’ultima volta che la DC ebbe un soprassalto di dignità e reagì al fuoco nemico, cioè al PCI che come sempre guidava l’orda aggressiva della sinistra contro  la DC e il centrismo. Come allora la DC, anche ora il PDL, sebbene si stringa, non foss’altro che per soppravvivere, intorno al presidente Berlusconi e faccia quadrato per impedirne la morte – politica -, ogni volta, però,  che di mezzo non c’è direttamente Berlusconi, singoli esponenti del PDL non esitano a “delegittimare” (aborrisco usare questo abusato verbo di natura comunista doc) i loro colleghi un pò più temerari. Prima di arrivare a Lassini, e solo per fermarmi a questi ultimi giorni: Larussa ha in Aula uno scatto (giustificato!) di nervi contro Fini? eccoti lo Scaiola di turno che inveisce contro Larussa con uno stentoreo “vergognoso” (ma lui è quello di Biagi e della casa al Colosseo, ben più vergognosi dello scatto di Larussa); Pisanu, ex consigliere del buon Zaccagnini, arruolato da Berlusconi nel 1994 e da questi resuscitato politicamente, ora da tempo in zona “critica” del PDL,  sottoscrive una lettera congiunta con Veltroni – PD –  per invitare Berlusconi a farsi da parte per dare vita a una nuova stagione di decantazione politica (sic); sul Corriere della sera la signora Stefania Craxi, che ama chiamare il suo papà non “papà” ma Craxi, col cognome,  dà del “vecchio” a Berlusconi che secondo lei dovrebbe uscire di scena prima di farsi ridere dietro… (salvo poi giustificarsi con la scusa che ciò che l’ha spinta ad insultare Berlusconi, senza del quale lei starebbe dov’è suo fratello Bobo, è il gran bene che gli vuole..chissà cosa avrebbe scritto e detto se gli avesse voluto un gran male….; ieri, non più tardi, un deputato del PDL ha presentato una proposta di legge mirata a riscrivere l’art 1 della Carta (vezzosamente anch’io non aggiungo Costituzionale perchè come è noto in Italia c’è solo lei di Carta….) per precisare che la nostra Democrazia ha nel Parlamento, liberamente eletto dal Popolo, in libere elezioni, la sua centralità….apriti Cielo da parte delle opposizioni che definiscono la proposta “eversiva”…addirittura…..ma non era la centralità del Parlamento che rivendicava il Pci (lo ha ricordato Cicchitto) negli anni 70 e sino a d oggi e più di recente non lo ha rivendicato in tutte le salse l’ex fascista Fini, quello che qualche anno addietro avrebbe  volentieri ripristinato il Gran Consiglio da sostituire al Parlamento? Ebbene  l’on Lupi, di solito uno dei migliori e dei più accorti dirigenti del PDL, ha chiuso la faccenda con un lapidario “occupiamoci delle cose serie”.  Eppure la riscrittura dell’art. 1 non modifica alcunchè nella sostanza in quanto, per esempio, il Capo dello Stato, l’attuale Napolitano come il defunto picconatore  Cossiga, è il Parlamento che li ha eletti in nome  e per conto del Popolo che a sua volta ha eletto il Parlamento. Quindi….E veniamo a Lassini. Io non voto a Milano ma se votassi a Milano io  voterei la preferenza a Lassini,  ad onta di tutto e anche  delle dichiarazioni della signora Moratti che a sua volta dimentica che a votarla e ad eleggerla (mi auguro) ci saranno migliaia e migliaia  di milanesi che la pensano esattamente come Lassini, a proposito non della Magistratura nel suo complesso, ma di alcuni magistrati militanti che usano la giustizia per fare politica. Lassini, poi, una qualche ragione per essere “arrabbiato” con la Magistratura pur ce l’ha, se è vero come è vero, che negli anni 90, quando arrestare un sindaco, specie se DC,  era uno sport cui taluni magistrati si dedicarono con notevole superficialità – e il caso Lassini lo dimostra – negli anni 90, dicevo, Lassini fu arrestato, tenuto in cella 45 giorni, processato e assolto con ampia e liberatoria sentenza perchè il fatto di cui era accusato non sussisteva e risarcito, poi, con appena 5 mila euro, mentre da una parte il Pm suo accusatore, senza prove, faceva carriera e lui, invece, s’era vista distrutta la vita e la carriera, perchè essere stato in carcere, sia pure da innocente, è un marchio che non ti toglie più nessuno. Chissà… se la signora Moratti avesse subito le stesse “attenzioni” riservate a Lassini, forse non sarebbe stata così drastica e draconiana nei suoi confronti, ingiungendogli di lasciare la lista, sebbene una volta in lista, dovrebbe saperlo la Moratti, lì rimane e se i milanesi dovessero votarlo, come gli auguro, Lassini comunque siederà in Consiglio comunale,ad onta di tutte gli sdegni e le indignazioni del mondo, che per essere vere devono riguardare tutti, anche il Presidente del Consiglio che è una istituzione dello Stato, al pari del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle due Camere, quella alta e quella bassa, nella quale, anche nel corso dell’ultimo voto,  s’è sentito un tal Di Pietro definire Berlusconi “coniglio” senza nè che il presidente della Camera sentisse il dovere di togliergli immediatamente la parola, nè si è appreso che l’indomani, dall’alto del più alto Colle il suo attuale inquilino stilasse un doveroso comunicato di sdegno e di indignazione, simile ai tanti che vengono emessi e che, come sempre quando abbondano, fniscono per perdere significato e valore. g.

L’IMMODESTIA DI SCALFARI, IL SUER EGO MILIONARIO DEI FONDATORE-VATE

Pubblicato il 17 aprile, 2011 in Costume | No Comments »

La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa­dronisce di un uomo, e un fu­tile compiacimento di sé si insinua nel suo cuore, perfino la di­sperazione di vivere diventa ridi­cola. Prendiamo Eugenio Scalfari, il Fondatore della Repubblica , il giornale che ha esercitato ed eser­cita con successo una pedagogia autoritaria ma non autorevole (glielo disse addirittura l’avvocato Agnelli, sempre attento al quoti­diano- cognato). Da una sua bella vecchiaia, magari orgogliosa e su­perba, ma non vanitosa, avrem­mo avuto tutti qualcosa da guada­gnare. Un bel vecchio sicuro della propria debolezza poteva riflette­re sulla sua boria fascista d’antan (scriveva allegramente su giornali del Duce, ma non se ne è mai as­sunto la responsabilità civile, reci­tando invece nella parte di un eroe longanesiano dell’eterno an­tifascismo bacchettone); poteva indagare sulle miserie di una sca­lata sociale e mondana che ha de­formato e massificato commer­cialmente la tradizione liberale del Mondo di Pannunzio, ma ha preferito lasciarsi pigramente coc­colare dai beautiful people di una Roma carina e indulgente; sareb­be stata una bella lezione intro­spettiva il suo riandare ai giorni in cui divenne un riccastro, sacrifi­cando a un pacco di miliardi debe­nedettiani le bellurie dolosamen­te bugiarde che raccontava sul­l’editore puro, e sul giornale che ha per soli padroni giornalisti libe­­ri e lettori, libertà inesistente scam­biata per solida paghetta nella ur­gente necessità di mettere insie­me la dote per le figlie, come disse giustificandosi, spudorato e inge­nuo; sarebbe stato bello se avesse denunciato il suo conflitto di inte­ressi con il proprio editore nella ventennale crociata antiberlusco­niana per st­rappare tanti bei milio­ni di euro all’Arcinemico, che ave­va rilevato Retequattro dal falli­mento degli eletti mondadoriani e poi la Mondadori dai suoi vecchi azionisti, lasciandogli la Repubbli­ca e il tesoretto dei giornali locali per imposizione politica di Craxi e Andreotti, intermediario Ciarrapi­co; e una meraviglia, sarebbe sta­to, uno Scalfari sereno, con qual­cosa di venerando sotto la sua or­namentale barba bianca, uno Scalfari equilibrato e non vacuo, non rancoroso, autoironico sul suo non facile rapporto di attrazio­ne verso la cultura che lo possiede ma che lui non possiede, la filoso­fia che biascica da liceale del se­condo banco, e magari capace di capire che la laicità è un valore lai­co e liberale, non una stupida con­fessione di fede e di ceto. Niente da fare. Il Fondatore af­fonda sempre di più nell’immode­stia scritta, orale e televisiva. Si guarda pensare allo specchio, in­contra il cardinal Martini per sug­gerire una spiritualità severa, pro­fonda, ma la sua, non quella del prelato di riferimento. Butta fuori a ripetizione libri ariosi e primave­rili, bozze di un banale giornali­smo culturale di serie B, per farseli recensire con gridolini di pensosa delizia sul suo giornale. S’incarta nelle varie «biennali della demo­crazia », dove i suoi scudieri neopu­­ritani, giuristi e ideologi altrettan­to vanagloriosi, gli apparecchiano un simulacro di idee e di pubblico che fa mercato, che fa soldi, che fa politica con mezzi spesso indecen­ti, da cinepanettone porno. Que­sto per la coltivazione dell’amor proprio dal basso. Intanto il suo italianista de chevet , debole in con­giuntivi, lo sprona a tirare le conse­guen­ze dei suoi ragionamenti sul­l’Arcinemico, a chiamare i Carabi­ni­eri e la Polizia di Stato per conge­lare le Camere in una bella prova di forza dall’alto. Il liberalismo del 113. In molti, tra i miei amici, aveva­no provato a restituire a Scalfari un po’ di fiducia in se stesso,solle­citandolo a essere come vorrebbe apparire, una specie di piccolo Montaigne meridionale, un diari­st­a introspettivo di magagne trop­po umane, e non una caricatura di filosofo, un guru pomposo e sem­­plicista per una élite di ignoranti in molta fregola, pieno di albagìa e di intolleranza. Non c’è stato ver­so. Viltà e vanità sono il carattere, evidentemente indelebile, del chierico italiano medio, il suo stig­ma botanico, la parte che riceve quella che Jonathan Franzen de­scrive come «l’impollinazione cul­turale » dei liberal derelitti e medio­cri nonostante tanta volgare pre­sunzione di sé. Peccato, e pazien­za. Bisognerebbe sottoporre il pe­tulante narciso alla cura del silen­zio, che gli farebbe un gran bene. Non fosse che per questo Paese soffocato dai cercatori di applau­so, intontito dagli amplificatori di un senso comune forcaiolo e fazio­so, la cura delle vanità è un sottile quotidiano veleno, fa male, sfini­sce, imbruttisce. GIULIANO FERRARA, 17 APRILE 2011