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C’ERA UNA VOLTA UN MINISTRO, ARALDO DI CROLLALANZA

Pubblicato il 21 maggio, 2020 in Il territorio | No Comments »

A Bari la Fondazione Tatarella ha ricordato Araldo di Crollalanza nell’anniversario della sua nascita, col suo biografo Domenico Crocco. Quando ero ragazzo, in Puglia e non solo, non c’era persona, di qualunque estrazione sociale e politica, che non si togliesse il cappello al nome di don Araldo. Oggi temo che tocchi spiegare chi era Araldo di Crollalanza e poi vi dirò perché lo faccio. Dunque, partiamo dalla fine. Crollalanza è l’unico ministro fascista, podestà e poi senatore missino a cui Bari, col voto unanime di destra e sinistra, il sostegno dell’Istituto Gramsci e del suo direttore Beppe Vacca, dedicò un busto nel 2001.
Crollalanza è stato il Ministro dei Lavori pubblici più fattivo della storia d’Italia. Nato a Bari da famiglia valtellinese, combattente nella Grande Guerra, giornalista, fascista della prim’ora, dai tempi dei Fasci d’azione rivoluzionaria del 1915 e poi in Piazza San Sepolcro nel 1919, in giovane età vedovo con sei figli, Crollalanza va ricordato per le grandi opere pubbliche che realizzò, la ricostruzione rapida ed efficace dopo il terremoto che lacerò il cuore del sud nel 1930; la bonifica dell’agro pontino e la malaria debellata, il rilancio dell’agricoltura a partire dal Tavoliere, la trasformazione di Bari con la nascita della Fiera del Levante, dell’Università di Bari, lo Stadio, il Lungomare coi suoi imponenti edifici pubblici, il Policlinico, il grande porto. E poi ancora la direttissima Firenze-Bologna, l’istituzione dell’Istituto di previdenza dei giornalisti, la nascita e lo sviluppo delle città di fondazione, come Littoria, Aprilia e Pomezia, acquedotti, strade e ponti che ancora resistono, e molte altre cose.
È memorabile quel che fece da Ministro dopo il terremoto in Irpinia e nel Vulture, novant’anni fa. C’erano stati 4mila morti e decine di migliaia senzatetto. Crollalanza si accampò nelle zone terremotate e vi restò fino al compimento dell’opera, nell’arco di tre mesi; rifiutò soluzioni d’emergenza o tendopoli e in poco tempo ricostruì diecimila case definitive, in muratura. Restituì alla fine quel che era riuscito a risparmiare nella ricostruzione… Ebbe l’encomio delle Nazioni Unite e non ci fu l’ombra di nessun Irpiniagate come poi nel terremoto irpino di cinquant’anni dopo e nei i seguenti. Poi passò a presiedere l’opera nazionale combattenti.
Pur provenendo dal fascismo social-rivoluzionario e mazziniano, Crollalanza rappresentava l’ala pragmatica del regime, amava la concretezza delle realizzazioni, con vero senso dello stato e amore del popolo, ripudiando ogni violenza e fanatismo ma anche ogni vetrina. Pragmatico ma non cinico, di alta dirittura morale; anche nello scegliere collaboratori e dirigenti puntò ai più bravi, anche non fascisti.
Diffidente verso Hitler e la Germania nazista, Crollalanza aderì alla Rsi ma non accettò alcun ministero. Nel dopoguerra fu arrestato ma ogni accusa nei suoi confronti decadde, il ministro dell’interno Romita parlò in suo favore e la commissione d’epurazione non trovò addebiti, né illeciti arricchimenti; Crollalanza non possedeva una casa, terreni né conti in banca. Fu scarcerato e assolto, e riprese dalla gavetta, come giornalista. Aderì sin dalla fondazione al Msi, di cui fu senatore rieletto per ben sette volte consecutive. A Bari per anni si praticò il voto disgiunto: alla Camera la gente votava il partito ideologico o clientelare – la Dc, il Psi o il Pci – ma al Senato votavano per don Araldo. I suoi voti arrivavano a quadruplicare quelli raccolti dal suo partito. Si ricorda solo un episodio sgradevole al Senato: nel 1979, nella seduta d’apertura del Senato toccava presiedere al più anziano ma era Crollalanza. Pur di impedire che un ex fascista anche solo per un giorno presiedesse Palazzo Madama, trasportarono quasi moribondo il più vecchio Pietro Nenni, che di lì a poco morì. Quasi a riparare quel torto, due anni dopo Fanfani conferì a don Araldo la medaglia d’oro del senato per i suoi 90 anni. A proposito di Nenni, Crollalanza una volta raccontò a Beppe Niccolai che l’ultima volta che vide Mussolini sul Garda gli chiese cosa avrebbero dovuto fare dopo la guerra; e Mussolini gli suggerì di guardare al suo ex-compagno Nenni…
Francesco Compagna, anch’egli ministro dei Lavori pubblici, lo indicò come campione di onestà e competenza. Una volta intervistai don Araldo, parlava con un’inflessione barese acuta, come il prof. Aristogitone di Renzo Arbore e si rivolgeva a me chiamandomi “giovanotto”.
Alla sua morte, nel 1986, Indro Montanelli elogiò la sua cristallina onestà ed efficacia, ricordò le numerose sue opere, aggiungendo: “Crollalanza non fece mai mostra di sé, mai partecipò a spedizione punitive, mai si fece un partito o una clientela personale, mai brigò per carriere politiche. Di lui si parlava pochissimo. Non apparteneva alla Nomenclatura del regime e non fece mai nulla per entrarci”. Poi a Montanelli sfuggì un clamoroso lapsus: “Una volta Di Vittorio mi disse: «Senza Crollalanza io non esisterei perché i miei genitori non avrebbero nemmeno avuto la forza di procrearmi». Impossibile confessione, perché Peppino Di Vittorio era coetaneo di Crollalanza, classe 1892, ambedue interventisti e combattenti nella Prima guerra mondiale. E l’opera di Crollalanza nel Tavoliere è a cavallo degli anni Trenta. Svista o testo alterato nella versione digitale? Vero è che il leader sindacale comunista e l’ex ministro fascista continuarono a stimarsi a distanza.
Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché Crollalanza fu l’esempio di una persona seria, onesta e competente al governo, che fronteggiò l’emergenza e realizzò molto apparendo poco. Non fu una banderuola, non cambiò mai casacca e non si sporcò mai di odio o intolleranza. E Crollalanza era pugliese, come Conte, Casalino e il ministro Boccia… Marcello Veneziani, La Verità del 19 maggio 2020

INTERVISTA AL PROF. LUCA RICOLFI, SOCIOLOGO E DOCENTE ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO

Pubblicato il 9 maggio, 2020 in Il territorio | No Comments »

“La nostra società, se non si cambia rotta, molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una ‘società parassita di massa’, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione ‘involutoria’, come forse la chiamerebbe un matematico”. Luca Ricolfi, sociologo che insegna Analisi dei Dati all’Università di Torino, nonché responsabile scientifico della Fondazione Hume, mostra tutti i rischi dell’epoca post-Covid per un paese che da anni si è auto-condannato al declino, come ben spiegato nel suo ultimo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo).

Professor Ricolfi, vado dritto al punto. Secondo lei, questo governo ha un’idea dell’Italia? Ha una visione del futuro di questo paese, cosa ancor più necessaria in una fase di gestione dell’emergenza sanitaria e soprattutto economica post- Covid?

Mi ha molto colpito l’osservazione del vostro De Angelis, secondo cui non si può governare l’Italia senza un’idea di futuro, idea che a questo governo parrebbe mancare. Sottoscrivo al 100% la prima affermazione, ma non la seconda: a mio parere questo governo un’idea del futuro ce l’ha eccome, purtroppo. Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso, infatti, le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque Stelle.

E il più straordinario paradosso politico è che un simile mostro socio-economico, che peserà chissà per quanti anni sul futuro dell’Italia, sia stato accuratamente apparecchiato dall’unica componente riformista e modernizzatrice della sinistra, quella di Renzi.

Proprio da Italia Viva, almeno a parole, sono piovute le critiche per le ricette economiche messe in campo dal governo: secondo Renzi vanno nella direzione di un più puro assistenzialismo, dal reddito d’emergenza ai bonus, passando per la cassa integrazione ordinaria e in deroga. Che effetto avrà nei prossimi anni sulla struttura della nostra società che già in epoca pre-Covid aveva e ha il limite di essere basata sulla rendita più che sul lavoro, come ha descritto nel suo ultimo libro?

La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una “società parassita di massa”, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione “involutoria”, come forse la chiamerebbe un matematico.

Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.

Però l’ex premier Romano Prodi domenica scorsa ha sostenuto la diversa tesi secondo cui da questa crisi si può uscire con una presenza più forte dello Stato nell’economia.

Prodi è la perfetta manifestazione della forma mentis della nostra classe politica: qualsiasi problema si presenti, e più è grande il problema che si presenta, più forte è l’istinto a invocare “più politica”, “più intervento”, “più stato”. E’ un tic mentale, come lo è quello degli europeisti doc, che qualsiasi cosa accada chiedono “più Europa”, e come lo è quello dei liberisti duri e puri, che qualsiasi cosa accada chiedono “più mercato”.

E invece abbiamo bisogno di fantasia, di apertura mentale, non di rifugiarci ognuno nelle proprie credenze di sempre.

Dalle imprese tuttavia s’è visto uno scatto d’orgoglio. Il neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha attaccato duramente il governo su questi primi accenni di politica assistenzialista, per non parlare della reazione dura alle ipotesi di entrata nel capitale nelle aziende che rischiano di fallire nei prossimi mesi. Sorpreso?

Sì, sono rimasto (felicemente) sorpreso. Nonostante io nutrissi parecchie speranze in Bonomi, che mi è parso subito più attrezzato e più coraggioso dei suoi predecessori, mi aspettavo che Confindustria non dismettesse la prudenza (eufemismo) che, almeno dopo i tempi di Montezemolo e del compianto Andrea Pininfarina, ha sempre caratterizzato i suoi rapporti con il potere politico. Da almeno un decennio non ricordavo una presa di posizione così netta contro il governo.

Perché, secondo lei, Bonomi ha assunto una posizione così critica?

Me lo sono chiesto anch’io, mi sono chiesto, in particolare, se sia in corso una manovra per sostituire un premier la cui inadeguatezza, dopo gli ultimi errori, è divenuta difficile da nascondere dietro i fumi delle parole e la mortificante soggezione di una parte dei media.

Poi però mi sono dato un’altra risposta, molto più semplice: “è la sopravvivenza, bellezza!”. Persino un coniglio, se sta per essere inghiottito da un pitone, combatte la sua estrema battaglia per non morire. Figuriamoci una potente organizzazione come Confindustria.

La mia impressione è che il mondo dei produttori, specie nelle regioni del centro-nord, abbia perfettamente capito quel che sta succedendo, e viva una sorta di presentimento di morte. Poiché molte imprese sono già morte, altre agonizzano, altre sanno che non potranno durare, le imprese superstiti cercano disperatamente di non scomparire. E avendo capito che la sopravvivenza delle imprese non è in cima alla lista delle priorità di questo governo, tentano l’ultima battaglia per salvare sé stesse dalla catastrofe che si annuncia.

Insomma, voglio dire che il governo Conte è riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese. E meno male che ciò sta accadendo, perché in questo momento (preciso: in questo momento, non sempre e comunque) dare la priorità alle imprese è l’unico modo di difendere l’interesse collettivo e nazionale. Sul piano economico-sociale (lascio perdere quello sanitario, per non infierire) la più grande bugia di questo governo è stata di lanciare il messaggio: nessuno perderà il lavoro, nessuno sarà lasciato indietro.

E invece no: se il Pil perderà il 10 o il 20% in un anno, come è verosimile, spariranno milioni di posti di lavoro, e vivere di sussidi sarà l’unica possibilità per milioni di famiglie.

Cerchiamo appunto di guardare ai prossimi mesi. Il Covid alla fine ci potrà dare una vera spinta per evitare il declino – lei lo definisce “argentinizzazione lenta” – verso cui da anni ci siamo incamminati? Pensa che davvero si creerà un clima da ricostruzione post-bellica o è solo retorica e propaganda politica?

Molto dipenderà da tre fattori. Il primo è che la base produttiva non subisca una distruzione catastrofica (caduta del Pil superiore al 10-15%). Il secondo è che le imprese vengano messe, per la prima volta nella nostra storia, in condizione di lavorare senza ostacoli burocratici e vessazioni fiscali. Il terzo è il fattore-Churchill: ovvero, avere al comando una classe dirigente seria, e possibilmente non frutto di manovre di palazzo.

Per ripartire e ricostruire c’è però bisogno di una generazione che se ne faccia carico, un po’ come quella che ha fatto tanti sacrifici nel Dopoguerra e che però ha portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60. Dovrebbe, almeno teoricamente, essere quella degli attuali giovani, fra i 20 e i 40 anni. Ma si tratta di quella stessa generazione che si è abbandonata all’opulenza negli ultimi anni, preferendo consumare ricchezza invece che creare reddito. Mi sembra un bel dilemma, non crede?

Sì, la riconversione dei cosiddetti Neet (che alcuni chiamano bamboccioni, o generazione choosy) è un’impresa difficile, specie se di lavoro ce ne sarà ancora meno che oggi.

Proprio per questo tendo a pensare che, se ricostruzione ci sarà, sarà grazie all’apporto di tutti, compresi anziani e pensionati, non certo soltanto o principalmente per opera degli attuali 20-40enni. Ma soprattutto penso che, a differenza che in passato, si dovrà puntare sull’auto-imprenditorialità, più che sull’attesa messianica del posto di lavoro.

E se poi uno dei motori della ricostruzione fosse formato da quegli immigrati che lavorano in condizioni para-schiavistiche e che sono funzionali alla società signorile di massa come braccianti, colf, badanti e via dicendo?

Di alcuni segmenti di quella che nel mio libro definisco la “infrastruttura para-schiavistica” della società italiana sarà difficile fare a meno. Ma mi piacerebbe che il dopo-Covid fosse anche l’occasione per attenuare il loro giogo: i fiumi di miliardi che oggi vanno a sussidiare chi non fa nulla, o lavora in nero senza pagare le tasse, troverebbero una destinazione più degna di un paese civile se servissero a trasformare i nostri attuali para-schiavi in veri lavoratori, restituendo loro il rispetto che la civiltà del lavoro ha sempre riservato al mondo dei produttori, compresi i più umili.

IL FASCISMO TOTALITARIO DI MUSSOLINI, di Antonio Carioti

Pubblicato il 26 aprile, 2020 in Il territorio | No Comments »

Antonio Carioti, scrittore e storico, commenta la uscita di una collana di  20 saggi sul fascismo a cura del Corriere della Sera il cui primo volume è “Fascismo, Storia e interpretazione”, di Emilio Gentile, il più illustre storico italiano  del Fascismo dopo DeFelice.

è Dalla caduta del fascismo deriva l’attuale ordinamento democratico del nostro Paese, la Repubblica «nata dalla Resistenza», come si usa dire. Perciò la discussione su quel periodo oltrepassa la dimensione storiografica e finisce inevitabilmente per mescolarsi con la lotta politica.
La destra italiana attuale, composta da forze estranee a quelle che scrissero la Costituzione (quando non eredi dell’esperienza neofascista missina), tende a presentare il periodo della dittatura in modo edulcorato, rimuovendone gli aspetti più atroci, dallo squadrismo omicida ai crimini coloniali, eccezion fatta soltanto per le leggi razziali. Un atteggiamento utile a rilanciare, in chiave anti-immigrati o anti-europea, un nazionalismo aggressivo e demagogico che rifiuta di imparare alcunché dai disastri del passato.

A sinistra è in voga invece da sempre l’uso di proiettare sui propri avversari l’ombra del regime di Mussolini per squalificarli. Così di volta in volta sono stati accusati di tendenze fasciste Mario Scelba, Amintore Fanfani, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Un tempo si diceva che il fascismo è un prodotto del capitalismo, quindi solo chi vuole superare il mercato e la proprietà privata è davvero antifascista, ergo chiunque non condivida tale programma è sospetto di voler ripercorrere le orme del Duce. Dopo la bancarotta del comunismo, ragionamenti del genere sono difficilmente riproponibili, ma resta in un certo mondo intellettuale l’abitudine di presentare come «antifascismo» la propria ideologia di sinistra e di bollare come parafascista chi la critica.
Tutto ciò poco ha a che vedere con uno studio serio del fascismo in quanto fenomeno concreto, che nacque, si affermò e crollò in condizioni storiche specifiche, nell’Italia della prima metà del Novecento. A questo hanno provveduto invece, con diverse visioni interpretative, gli autori dei volumi che il «Corriere della Sera» offre ai propri lettori nella collana da domani in edicola. L’unica eccezione è il libro di Giacomo Matteotti, prezioso invece come testimonianza della lotta contro la tirannia nascente, che fu pubblicato dal leader socialista un anno prima di essere rapito e assassinato, il 10 giugno 1924, da sicari fascisti organizzati e foraggiati da strettissimi collaboratori di Mussolini.
Ad aprire la collana è un volume di grande importanza, Fascismo. Storia e interpretazione di Emilio Gentile, nel quale l’autore, uno degli storici italiani più noti nel mondo, ha raccolto contributi molto significativi, accompagnati da un’introduzione che chiarisce alcuni punti chiave.
Il primo è che non si può ridurre il regime littorio a una dittatura personale di Mussolini, presentata spesso come blanda se non bonaria, priva di una caratterizzazione ideologica forte. Al contrario si trattò di un sistema riconducibile alla categoria del totalitarismo: monopartitico, connotato da un’assoluta concentrazione del potere, teso a forgiare un nuovo tipo umano, a trasformare gli italiani in una «stirpe guerriera». E strutturalmente aggressivo.
Risulta limitativo, se non improprio, sostenere che Mussolini commise un «errore» con l’ingresso in guerra del giugno 1940. In realtà fu una scelta coerente con l’impostazione espansionista che il Duce aveva adottato da tempo e che solo la consapevolezza dell’assoluta impreparazione del Paese lo aveva trattenuto dal compiere nel settembre 1939, quando la Germania aveva aggredito la Polonia.
Allo stesso modo Gentile riporta il movimento delle camicie nere alla sua identità particolare, legata ad eventi come la Prima guerra mondiale e l’avvento della società di massa. Nega in questo modo validità alla formula bizzarra del «fascismo eterno», secondo la quale ogni manifestazione di razzismo o di tendenze liberticide sarebbe riconducibile al fascismo stesso, per cui il pericolo della sua ricomparsa sarebbe sempre attuale in qualsiasi circostanza storica.
Una tesi che, tra l’altro, ignora come il dispotismo e il razzismo non siano affatto monopolio di Mussolini e dei suoi seguaci. Della coalizione che sconfisse l’Italia del Duce e la Germania del Führer facevano parte l’Urss di Iosif Stalin, che certo non scherzava quanto a brutale soppressione di ogni libertà, e gli Stati Uniti, nei quali all’epoca vigeva in tutto il Sud un regime di pesante discriminazione razziale ai danni dei neri.
Il fascismo è stato spesso rimosso dalla coscienza collettiva. Abbiamo preferito credere che fosse pura barbarie, che il consenso di cui godeva fosse superficiale o estorto, che non avesse radici nella cultura. Ma l’analisi del passato porta a conclusioni diverse. Il totalitarismo mussoliniano è parte integrante del nostro retaggio storico. Quindi bisogna sforzarsi di conoscerlo, come c’invita e aiuta a fare Gentile, andando oltre le convenienze e le contingenze della politica. Antonio Caroti, Il Corriere della sera, 26 aprile 2020

I FANATICI CHE HANNO RESO IL 25 APRILE UN RELITTO IDEOLOGICO, di Andrea Amata

Pubblicato il 25 aprile, 2020 in Il territorio | No Comments »

Pur di riconoscersi nella narrazione contraffattoria del 25 Aprile il governo rossogiallo ha autorizzato l’Associazione nazionale partigiani d’Italia a partecipare alle celebrazioni per il 75esimo anniversario della Liberazione in deroga al lockdown. Nonostante la dottrina comunista sia ormai irrancidita e in uno stato di putrefazione, ancora oggi alcuni suoi residuali epigoni pretendono di leggere la storia con gli occhiali graduati dal dispotismo ideologico, imponendo la versione di una libertà riconquistata con l’esclusivo contributo dei partigiani. Quale anelito di autentica libertà potevano inalare coloro che erano subordinati al liberticida regime sovietico?
Sul 25 aprile volteggiano rapaci parassitici, gli hooligans dell’antifascismo che antagonizzano con un fantasma, appropriandosi, pur di suffragare il loro autoritratto democratico, della genesi della democrazia italiana e ostracizzando il tributo di sangue degli alleati anglo-americani. Sulle celebrazioni della Liberazione ha attecchito un monopolio fazioso che le ha impedito di elevarsi a momento di pacificazione tra gli eredi e i posteri del fascismo e dell’antifascismo.
Il 25 aprile è diventata una data divisiva sia per il resoconto omissivo della sua rievocazione sia per la prerogativa settaria che aleggia nella ricorrenza che rivela una sorta di prelazione, un infondato riconoscimento ad essere preferiti, rispetto ad altri, nel tirocinio democratico. Cosicché, la Liberazione è diventata il balsamo eternizzante di una spavalderia etica convenzionalista, ma diventa ardito riconoscerle una matrice nazionale di memoria condivisa considerando che il suo principale accaparratore simbolico, il partito comunista, avallò le violenze annessionistiche della Jugoslavia titina sulla Venezia Giulia e su Trieste. Quale sentimento patriottico possono emanare gli eredi del partito comunista che si rese protagonista di pratiche epurative e sommarie scatenate nel Paese e dell’asservimento ideologico allo stalinismo nella sua massima espressione di negazione della libertà e della democrazia?
Non si vuole minimizzare il valore della conquista democratica che rappresenta la radice da cui è germogliato il godimento della libertà per il merito preminente degli anglo-americani e dell’adesione al Patto Atlantico, ma l’appropriazione indebita della data simbolica da parte di una cultura che si dimostrò subalterna al regime sovietico ne mette in evidenza l’abuso del monopolio celebrativo. L’Anpi che il governo ha autorizzato a “violare” la quarantena, riconoscendogli un privilegio escluso a milioni di cittadini a cui è stata negata l’Eucarestia il giorno di Pasqua e altri migliaia non hanno potuto concedere l’estremo saluto ai propri cari periti per mano del virus cinese, ancora oggi manifesta pulsione negazioniste sulle Foibe e sugli atroci crimini compiuti dai partigiani a guerra conclusa contro i fascisti o presunti tali e gli antifascisti non comunisti.
Evidenziare il carattere divisivo della commemorazione ad usum Delphini non significa cedere ad un’anacronistica apologia di fascismo ma esercitare una “resistenza” etica che non si lascia attrarre dal mulinello del travisamento e della distorsione storica. L’Italia non si è liberata con l’autonomia delle sue forze e il merito dell’emancipazione non può essere ricondotto alle forze comuniste.
Per sentirci tutti figli del 25 aprile la verità storica andrebbe onorata nella sua integrità, mentre il panegirico selettivo delle vicende introduttive della democrazia è espressione dell’egolatria storica di un relitto ideologico. La libertà è un bene che appartiene a tutti, ma questo 25 Aprile ci ricorda che qualcuno è più libero di altri. Andrea Amata, 25 aprile 2020

LE NOMINE E I METODI ANTICHI, di Paolo Mieli

Pubblicato il 20 aprile, 2020 in Il territorio | No Comments »

Ci avevano detto che niente sarebbe stato piu come prima. Poi, però, abbiamo assistito alla moltiplicazione delle task force e s’è avvertito nell’aria un sentore dei tempi andati. Adesso che è giunta l’ora delle nomine, si è avuta conferma di quel sentore e ci si può render conto che un pezzo della tradizione italica è sopravvissuto alla prima ondata Covid. Prudenza e decenza avrebbero dovuto imporre che i prescelti della volta scorsa restassero, in proroga, ai posti di comando fino al momento in cui tutto tornerà tranquillo. Tre, quattro mesi, il tempo di non offrire agli italiani il poco edificante spettacolo di un mercanteggiamento di cariche mentre sono ancora alti il numero dei contagi e quello dei morti. Giusto per dare l’idea che nessuno ai posti di comando del sistema Italia in questi giorni ha avuto altra preoccupazione che la messa in sicurezza del sistema stesso. Come si è fatto del resto saggiamente e senza tentennamenti rinviando a data da definire referendum ed elezioni.
Invece la fase due, la stagione della ripartenza, inizia con le designazioni di partito per gli enti pubblici: presidenti, amministratori delegati, consiglieri di amministrazione. Dopodiché, visto che, come rimedio alla crisi, qualcuno propone un buon numero di nazionalizzazioni, possiamo fin d’ora immaginare che la prossima volta i nominati saranno il doppio di quelli di oggi. Forse il triplo. Offrendo un ottimo rifugio ai parlamentari «tagliati» dopo la definitiva approvazione della riforma per via referendaria.
Va subito detto che nella spartizione si sono impegnati tutti, proprio tutti, i partiti della maggioranza. E anche l’opposizione ha a suo modo partecipato. Nessuno del resto aveva promesso di fare voto di astinenza. Nessuno? Qualcuno, a dire il vero… All’epoca del successo elettorale che due anni fa lo portò a conquistare un terzo dei parlamentari, il M5S aveva preso l’impegno di rifiutare la designazione per incarichi pubblici di manager lottizzati dai partiti. Tanto meno quelli che avevano conti aperti con la giustizia. Poi però — per motivi sui quali neanche uno di loro ha ritenuto di dover offrire pubblici chiarimenti — il Movimento ha ritenuto opportuno cambiare idea. Come per altri versi fu con la Tav. Come sarà, probabilmente, adesso che verrà al pettine il nodo del Mes. Ai tempi della Torino-Lione, quantomeno, il partito di Beppe Grillo trovò un modo, a dire il vero un po’ goffo, per ribadire in Parlamento la propria contrarietà. In occasione delle nomine, invece, ha scelto di ammainare le proprie bandiere senza sentirsi in dovere di dare spiegazioni. Anzi. Stavolta — come già quando si discusse dei vertici della Rai — Vito Crimi, Riccardo Fraccaro, Stefano Buffagni hanno ritenuto conveniente accomodarsi ostentatamente al tavolo delle decisioni. L’unica differenza è che, quando si decise per l’ente radiotelevisivo di Stato, i Cinque Stelle riuscirono almeno ad ottenere qualche importante incarico ai posti di comando. Adesso invece dovranno con ogni probabilità accontentarsi di alcune presidenze destinate quasi esclusivamente a far felici i familiari dei prescelti.
Nel compiere questa operazione, i leader del M5S hanno però dimenticato di avvertire Alessandro Di Battista e una trentina di parlamentari (tra i quali Barbara Lezzi, Massimo Bugani, Nicola Morra, Giulia Grillo, Ignazio Corrao) che, a fatto compiuto, protestano — oltreché per la conferma all’Eni di Claudio Descalzi imputato in alcuni processi — per l’assenza complessiva di «discontinuità nel merito e nel metodo delle scelte», assenza di discontinuità che a loro avviso provocherebbe il «perdurare di un potere sempre nelle stesse mani». Discorso che, si sentono in dovere di precisare, «vale per tutte le nomine in discussione». Tutte? Proprio tutte?
Tra le designazioni di nomi di presidenti, amministratori delegati, membri di consiglio di amministrazione, ce ne sono un bel po’ che verranno fatte su suggerimento dei pentastellati. Secondo il «Fatto Quotidiano», giornale che non può essere definito ostile al movimento grillino, Descalzi non sarebbe mai stato neanche «in bilico» e i vertici Cinque Stelle si sarebbero esibiti in una «pantomima» sulla sua riconferma così da ottenere, «a titolo di risarcimento per aver ingoiato quel nome», un «bel po’ di presidenze con funzioni poco più che decorative». Tra le quali quella della stessa Eni, assegnata a Lucia Calvosa proveniente dai cda di Mps, Tim e da quello di Seif, la società che edita il «Fatto». Per trovare i candidati – racconta il quotidiano – «si è deciso di pescare nell’unica fucina di manager considerati degni di fiducia, le municipalizzate romane». Tra i «pescati» Stefano Donnarumma, scoperto nel 2017 da Virginia Raggi, «indagato e poi archiviato nell’inchiesta sullo stadio della Roma», che da Acea dovrebbe spostarsi in Terna. Adesso, annuncia il giornale di Marco Travaglio, tra i Cinque Stelle «è partito il giochino a scaricare le colpe e poi a cancellare le impronte» dell’intera operazione di ricambio ai vertici delle partecipate. Soltanto «dopo», però. Dopo che saranno completati i consigli di amministrazione dove – sempre secondo il «Fatto» – sono destinati a trovare posto tale Carmine America, un compagno di scuola di Luigi Di Maio (già reclutato alla Farnesina), ed Elisabetta Trenta, costretta tempo fa a lasciare, oltre al ministero della Difesa, un’abitazione a canone d’affitto assai conveniente alla quale si era molto affezionata. A Di Maio viene riconosciuta l’abilità di essersi saputo «eclissare tatticamente su Eni per non rimanere impigliato nelle polemiche» così da poter poi «scaricare le colpe» su altri. La stessa tattica sarebbe stata adottata dal viceministro Stefano Buffagni che pure si è assunto l’incombenza di indicare la Calvosa. A immediato ridosso di tale indicazione, Buffagni si è prontamente «defilato» dall’ingarbugliato affaire Eni di cui il sottosegretario Fraccaro «è diventato, suo malgrado, protagonista». Cronache che riportano alla memoria quelle di altri tempi. Non tra i più fausti.
Da questo super game, in ogni caso, escono trionfatori i partiti che hanno architettato il rinnovo delle cariche: Pd e Italia Viva di Matteo Renzi (che pure non si è sentito appagato in tutti i propri desideri e di ciò si lamenta). È un ulteriore segnale dello spostamento del baricentro di governo a vantaggio del partito di Nicola Zingaretti. E di rafforzamento di Giuseppe Conte, riuscito nella non facile impresa di imbrigliare i Cinque Stelle coinvolgendoli in trattative che li rendono per così dire più malleabili in vista del delicato appuntamento del Mes. A proposito del quale c’è da aggiungere che si spera a nessuno, in Olanda e in Germania, venga in mente di approfondire la conoscenza del modo assai poco trasparente con cui qui in Italia ancor oggi si procede alle nomine pubbliche. Ne verrebbero aggravati i ben noti, antipatici pregiudizi nei nostri confronti. Paolo MIELI, IL CORRIERE DELLA SERA 20 APRILE 2020

CASSESE: LA PANDEMIA NON E’ UNA GUERRA. I PIENI POTERI AL GOVERNO NON SONO LEGITTIMI

Pubblicato il 15 aprile, 2020 in Il territorio | No Comments »

Intervista al giudice emerito della Corte costituzionale: “Da palazzo Chigi continuano ad arrivare norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme”

Colloquio con piacere con il professor Sabino Cassese. Ma più che una intervista è un dialogo su tematiche molto delicate che l’emergenza Coronavirus ha evidenziato. Cominciamo così.
Caro Sabino, se siamo in guerra, sia pure anomala, allora vale quanto meno per analogia l’articolo 78 della Costituzione: le Camere conferiscono al governo i poteri necessari. E non, si badi, i pieni poteri. E’ così?
Nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato ( art. 117, II comma, lettera q).
Lo Stato agisce con leggi, che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza «contingibile e urgente», cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà.
Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza.
Bene. Il Parlamento ha conferito quei poteri al governo con un decreto legge. Ma è sufficiente quel tipo di provvedimento? Senza contare che quel decreto legge è andato oltre. Ha consentito che le predette autorità possano adottare misure ulteriori rispetto a quelle dell’articolo 1. Ma, in punto di diritto, è legittimo tutto questo? Non si tratta di una sorta di delega in bianco?
Il primo decreto legge era illegittimo: non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri.
A palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo. Poi si è rimediato. Ma continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento, tutto imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa.
Andiamo avanti. Sui Dpcm il capo dello Stato non ha voce in capitolo. A suo avviso, quell’oggetto misterioso che è il Consiglio supremo di difesa potrebbe avere una qualche voce in capitolo? O questo vale solo per il caso di guerra?
Mi chiedo: perché evocare il Consiglio supremo di difesa, se non c’è un evento bellico, e specialmente se c’è lo strumento per far intervenire uno dei tre organi di garanzia, il presidente della repubblica?
Bastava, invece di abusare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ricorrere, almeno per quelli più importanti, a decreti presidenziali.
Aggiungo che, per la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente a emanare più della metà di quegli atti era il ministro della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è avvicinati.
Sabino, si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura rappresentano un correttivo della forma di governo parlamentare per i poteri che acquista il presidente del Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non parlare del presidente della Repubblica e, soprattutto, del Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo e di controllo è andata a farsi benedire.
Gli organi di garanzia più diretti sono il presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. Quest’ultima, salvo casi eccezionali, interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente della Repubblica, invece, collaborano nella funzione normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie preferenziali o di emergenza.
Tu non sei pregiudizialmente contrario a che per qualche tempo limitato il Parlamento lavori da remoto. Ma ci sono attività informali che solo a Montecitorio e a Palazzo Madama funzionano a dovere. Come i contatti tra leader di partito, tra capigruppo, tra parlamentari dei vari partiti eccetera.
Senza dubbio. Tanto che ho ritenuto errata l’espressione votazione telematica. Infatti, il lavoro a distanza è possibile a due condizioni. La prima che le Camere siano attrezzate ( e pare che non lo fossero). La seconda che in via telematica si possa ascoltare, intervenire, discutere, dibattere, replicare, e solo alla fine votare.
Perdonami. Con qualche esagerazione, premesso che da noi non c’è nulla di più definitivo del transitorio, ho personalmente sottolineato il rischio che le sedi istituzionali delle Camere cambino destinazione e diventino musei per la gioia dei visitatori. E’ solo una battuta?
Quando si parlò dello SDO, Sistema direzione orientale, l’idea venne presa in considerazione. Sollevarla in questo momento mi pare sbagliato. Poi, c’è da valutare l’interesse storico artistico rispetto alla funzionalità materiale dei luoghi.
Per finire. Si può capire che i Costituenti ebbero orrore a parlare di stato di emergenza. Ma con il senno di poi, alla luce della guerra contro il virus, non fu un errore questa omissione? E come colmare, a tuo avviso, questa lacuna?
Non la ritengo una lacuna. E chi abbia letto gli articoli 48 e seguenti della Costituzione ungherese sa quali pericoli si annidino in norme costituzionali di quel tipo. C’è poi l’esperienza negativa della Costituzione di Weimar. L’unica positiva mi pare quella dell’articolo 16 della Costituzione della V Repubblica francese. La Costituzione non ha peraltro ignorato la questione, solo che ha considerato la possibilità di disporre limiti dettati dalla urgenza e dal pericolo caso per caso, per singole libertà.
PIETRO ARMAROLI, IL DUBBIO, 14 APRILE 2020

IL PASSATO CI FRENA ANCORA, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 16 marzo, 2020 in Il territorio | No Comments »

Dopo la pandemia che stiamo vivendo nulla sarà più come prima. Dirà il futuro se questa che per il momento è solo una suggestione — ma sempre più incalzante e diffusa — sarà confermata dai fatti. Quel che è certo è che per il momento egualmente incalzante e diffusa si sta facendo strada un’altra convinzione: che molti nodi della nostra vita pubblica stanno venendo drammaticamente al pettine. Sta venendo al pettine innanzi tutto una questione generale di responsabilità. Non parlo della responsabilità legata all’obbligo di rispettare le restrizioni in atto limitatrici della nostra vita quotidiana. Parlo della, o meglio delle, responsabilità legate a una lunga catena di scelte fatte in passato e di cui oggi si vedono le conseguenze.
Le scelte più significative riguardano ovviamente la sanità. Sottoposto alla prova inappellabile di una possibile emergenza, una parte importante della Penisola, in pratica tutto il Sud (ma siamo sicuri che sia solo il Sud?), ha dovuto constatare di non avere un servizio sanitario in grado di reggere alle necessità quando queste diventano necessità serie (e non solo in questo caso molto probabilmente). Quella parte del Paese ha toccato con mano che in tali circostanze i suoi ospedali mancano delle attrezzature necessarie e nella quantità necessaria. Il che vuol dire una sola cosa: che in quella parte d’Italia le Regioni — il cui settore di competenza principale, non bisogna stancarsi di ricordarlo, è per l’appunto quello della sanità — hanno fatto in questo campo una cattiva prova, così come del resto risulta da mille indicatori. Vuol dire che per decenni, ad esempio, invece di occuparsi realmente e ai minimi costi di migliorare al massimo le condizioni dell’assistenza e degli ospedali, invece di cercare di assicurare ai pazienti tempi di attesa ragionevoli e cure all’altezza dei migliori standard, le classi di governo di quei territori hanno impiegato le risorse in altro modo. Magari nel settore della sanità, sì, ma troppo spesso per sperperarle, per mantenere aperte sedi inutili o per assumere personale superfluo. Ovvero hanno impiegato i soldi a loro disposizione in altri settori di gran lunga meno importanti, assistendo impassibili, nel frattempo, all’esodo di migliaia di loro concittadini che ogni giorno si mettevano in viaggio verso il Nord se volevano essere certi di ricevere le migliori cure per i propri malanni. Adesso, ma solamente adesso, forse ci si accorge in Puglia che era meglio comprare qualche respiratore in più per gli ospedali e dare qualche euro in meno ai festival della «pizzica», o in Basilicata che con le royalties del petrolio conveniva costruire qualche grande ed efficiente centro ospedaliero piuttosto che disseminare la regione di piscine e palazzetti dello sport. Così come forse adesso ci si accorgerà, in Sicilia, che sarebbe stato meglio coprire i deputati e gli alti funzionari della regione con un po’ di soldi in meno ma cercare di assicurare la sopravvivenza di qualche siciliano in più.
Sarebbe sbagliato però credere che ogni responsabilità ricada esclusivamente sui governanti. Ha pesato, eccome, anche la responsabilità di chi li ha eletti. Così come sarebbe sbagliato credere che il discorso valga solo per il Mezzogiorno. Vale per tutto il Paese, per tutti gli italiani.
Oggi le carceri esplodono e la miccia è ancora una volta quel sovraffollamento spaventoso che dura da decenni. Ma quanti se ne sono mai dati pensiero? Quali forze politiche hanno mai dedicato due righe dei loro interminabili programmi alla costruzione di nuove carceri o all’ammodernamento di quelle esistenti? Non è certo un caso isolato. Almeno metà dei nostri edifici scolastici, ad esempio, si regge in piedi per miracolo; egualmente tutto quello che riguarda la ricerca (laboratori, personale, fondi) è in perenne stato di agonia, strangolato dalle ristrettezze (e oggi ci accorgiamo dell’importanza che un tale settore riveste); così come la rete stradale affidata all’Anas è a pezzi a causa di un’ormai congenita mancanza di fondi. Ma chi ha mai sentito qualcuno porsi seriamente questi problemi impegnandosi per porvi rimedio?
La verità è che nessun partito, nessun leader — e diciamo la verità neppure la gran parte dell’informazione — si è mai fatto carico di pensare a queste cose, di agitarne la questione, di battersi fino in fondo per un adeguato stanziamento di fondi. Al massimo un inciso di poche parole in un discorso, qualche articolo all’anno, poi tutto è sempre finito lì. Nessuno ha fatto nulla. Ma per un’ottima ragione: perché consapevole che si trattava di cose di cui a nessuno realmente importava nulla. E in una democrazia, si sa, a meno che non vi siano personalità autentiche di statisti, la politica e tutto quanto le ruota intorno, stampa compresa, segue sempre più o meno pedissequamente la volontà del pubblico, la quale poi, alla fine, è la volontà degli elettori.
La verità che è che agli italiani più che la possibilità di contare su reti di servizi efficienti, su prestazioni dagli standard adeguati, in tempi rapidi e in sedi attrezzate e accoglienti, più di questo è sempre importato avere dallo Stato un’altra cosa: soldi. Soldi direttamente dalle casse pubbliche alle proprie tasche. Aumenti di stipendio, pensioni di invalidità fasulle, baby pensioni, cassa integrazione, regalini di 80 euro, reddito di cittadinanza, sussidi e agevolazioni più varie alle imprese: sotto denominazioni le più diverse purché si trattasse di soldi da spendere come a ognuno faceva comodo. In omaggio a un welfare modellato fin dall’inizio su erogazioni dirette ai singoli. Anche perché spesso proprio il tipo di procedure per concedere tali erogazioni (vedi pensioni d’invalidità) ha consentito alla politica, ai singoli politici, di servirsene per acquisire il consenso dei beneficati.
Ma è per l’appunto in questo modo che un Paese si consuma, che le sue strutture civili vengono progressivamente meno. È per l’appunto in questo modo, per il tipo di spesa pubblica consapevolmente prescelta per tanti anni dai suoi cittadini che l’Italia ha visto non rinnovarsi e non accrescersi, consumarsi e spesso decadere, un vasto patrimonio di beni pubblici. In particolare — guardando all’oggi — l’insieme di quegli ospedali, posti letto, autoambulanze, respiratori, medici, infermieri, che oggi ci farebbero tanto comodo. L’Italia si ritrova malmessa, noi ci ritroviamo oggi malmessi, per responsabilità innanzi tutto di noi stessi. Abbiamo voluto noi, con le nostre scelte, che arrivato il momento critico ci ritrovassimo a mal partito. Quando tutto sarà finito verrà il tempo degli esami di coscienza e bisognerà ricordarsene. Ernesto Galli della Logia, Il Corriere della Sera 16 marzo 2020

LA DESTRA ITALIANA ADESSO DEVE SCEGLIERE, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 30 gennaio, 2020 in Il territorio | No Comments »

In Emilia -Romagna a Matteo Salvini il colpo grosso non è riuscito. Ha preso una quantità di voti, ha aumentato di moltissimo il numero dei rappresentanti leghisti, ma gli elettori in fuga dai 5 Stelle, gli incerti, gli ex astenuti che questa volta sono andati a votare, la massa di tutti costoro gli ha voltato le spalle finendo per essere decisiva nel determinarne la sconfitta. Dimostrando così ancora una volta che con qualsiasi legge elettorale nei regimi democratici si conquista la maggioranza in un solo modo: vincendo al centro. È una lezione da non sottovalutare non solo per Salvini bensì per tutti i partiti. La destra però, proprio in vista dell’obiettivo di vincere al centro, in Italia deve superare almeno tre ostacoli di non poco conto.
Il primo ostacolo è il passato. Nel nostro passato c’è stato il fascismo e poi, forse ancora più importante, la narrazione ufficialmente accredita del medesimo. Secondo la quale il fascismo sarebbe stato un’espressione per antonomasia della destra e quindi l’Italia, se non è governata dalla sinistra, sarebbe costantemente a rischio di ripiombare nella dittatura o comunque in un regime di reazione più o meno mascherata. Ne segue che nell’immaginario ufficiale della Repubblica tutti coloro che per una ragione o per l’altra sono in modo aperto schierati contro la sinistra (come ovviamente è la destra) sono per ciò stesso sospetti di essere — almeno potenzialmente e nei modi consoni ai tempi — una reincarnazione del fascismo, come minimo dei suoi «oggettivi» battistrada. Non a caso, nel corso dei decenni sono stati via via puntualmente accusati di essere tali la Democrazia Cristiana, i presidenti degli Stati Uniti, Craxi, Berlusconi, Indro Montanelli, Renzo de Felice, chiunque. Di fronte a tutto ciò è inutile qualsiasi tentativo di analisi, di correzione, di distinguo, non c’è niente da fare. Inutile dire che l’immaginario di cui sopra determina le opinioni di un gran numero di cittadini, della maggioranza dei organi di stampa, delle istituzioni culturali, di molta parte dell’establishment, cioè di quelle istanze che rappresentano e influenzano in modo decisivo l’elettorato di centro.

A una destra che voglia davvero vincere le elezioni non resta dunque che prendere atto di tutto ciò e regolarsi di conseguenza. Vale a dire evitare accuratamente quanto possa avvalorare i sospetti e le illazioni di cui sopra (dalle smargiassate verbali ai gesti che possano apparire intimidatori o provocatori, alla compagnia di gruppi estremisti). Ma naturalmente — è necessario aggiungerlo? — non deve trattarsi di un’operazione di facciata, di una cosmesi elettoralistica. Deve trattarsi di una scelta consapevole di linea politica e di un modo d’essere, accompagnata se necessario da un esplicito, magari duro confronto al proprio interno. Non si tratta di annacquare i propri temi o le proprie parole d’ordine, si tratta solo di non imputridirli con il fango.
Il secondo ostacolo strutturale che incontra la destra discende direttamente da quello che ho appena detto. Consiste nel suo essere poco o nulla radicata nell’establishment del Paese, perlomeno nel non esserlo in modo pubblico e visibile, e cioè ammesso dall’establishment stesso. Nella storia della Seconda Repubblica ha fatto una parziale eccezione solo Forza Italia, ma tale eccezione è stata dovuta in parte alla straordinarietà della congiuntura che inizialmente vide protagonista Berlusconi e poi per la quantità e la qualità delle risorse che il cavaliere era in grado di mettere in campo.
Tra le molte conseguenze ce ne sono due particolarmente importanti per la destra. Da un lato la ricorrente difficoltà di trovare nomi significativi della società civile per le proprie candidature, in specie nelle elezioni locali; cioè precisamente quel genere di candidature che si rivelano più utili per attrarre i consensi dell’elettorato indeciso orientato perlopiù verso il centro. È questo un problema grave soprattutto per ciò che riguarda i centri urbani, dove più alta è la concentrazione di persone acculturate sensibili alla qualità del personale politico. Dall’altro lato, l’esiguo serbatoio rappresentato dall’establishment significa, una volta che si arriva a governare, il difficile reperimento di competenze riconosciute, il non poter contare su reti di relazioni di valore, mancare di nomi significativi per incarichi di prestigio come ad esempio quello fondamentale della Presidenza della Repubblica. Significa in altre parole avere molti problemi a governare, e di conseguenza debolezza politica.
Oggi, in Italia c’è infine un terzo grave ostacolo che la destra incontra sulla via della conquista della maggioranza elettorale: la Chiesa. Si può discutere se anche dopo la fine della Democrazia Cristiana la Chiesa nella sua massima istanza nazionale rappresentata dalla Conferenza Episcopale abbia mai cessato di occuparsi di politica nel senso di astenersi dal dare esplicite indicazioni di voto. Se comunque all’epoca della presidenza del cardinale Ruini non lo ha certo fatto, è da notare che le sue indicazioni, tuttavia, allora furono esclusivamente in positivo. Si trattò sempre di inviti più o meno trasparenti a votare a favore dello schieramento berlusconiano in quanto ritenuto più favorevole ai valori cattolici considerati in quel tempo «non negoziabili». Sotto la guida del cardinale Bassetti, viceversa, la Chiesa italiana ha sempre di più optato per un atteggiamento palesemente, talora aspramente, contrappositivo nei confronti della destra (e della Lega in modo tutto particolare), atteggiamento che in più di un’occasione è apparso addirittura far rivivere i tempi dello scontro con il comunismo. C’è davvero bisogno di ricordare che sembra tuttora molto difficile raggiungere la maggioranza elettorale in questo Paese, e riuscire poi a governare godendo di qualche credibilità, se capita di avere tra i propri avversari dichiarati la Chiesa cattolica?
L’Italia, come spiegano da tempo tutte le inchieste in proposito, è una collettività sociologicamente e ideologicamente assai poco disposta alla rottura, alle svolte più o meno radicali, è un Paese fondamentalmente conservatore. Se però stando così le cose esso dà la maggioranza dei consensi alla sinistra è ragionevole credere che più che per i meriti di questa forse ciò avvenga quasi sempre soprattutto per i limiti e gli errori della destra. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 gennaio 2020

….Ha ragione Galli della Loggia, intanto nel rilevare che ogni qualvolta la Destra, comunque coniugata,  conquista posizioni di governo immediatamente scatta la chiamata alle armi dell’antifasscismo militante  come fossimo ancora al 1945 e non siano passati 75 anni dalla fine della guerra civile che mietò vittime, spesso innocenti, sopratutto dalla parte dei perdenti. In sec0ndo luogo rilevando che la Destra da sempre tralascia di occupare così come pure è lecito fare posizioni all’interno  del sistema – politico, giudiziario, letterario, artistico, etc – autoemarginandosi. Infine tralasciando di stringere rapporti col potere ecclesiastico che pur indebolito, specie con il Capo attuale della Chiesa, continua ad aver ed usare molto potere e influenza sugli elettori. Ciò che rileva comunque è che nonostante queste circostanze la Destra, comunque coniugata, ha radici profonde nella società italiana, radici che necessiato di esserre coltivate prima che vengano recise. g.


CRAXI, NO ALLA MEMORIA DISTORTA, di Pierluigi Battista

Pubblicato il 9 gennaio, 2020 in Il territorio | No Comments »

Un film di un grande del cinema italiano, Hammamet di Gianni Amelio, e il ventesimo anniversario, che sarà celebrato proprio ad Hammamet, della morte del leader del Partito socialista possono finalmente mettere fine alla leggenda nera che ancora oggi circonda la vicenda storica, politica e umana di Bettino Craxi. Per smettere di appiattirla e svilirla come mera vicenda giudiziaria, addirittura come fatto criminale: una losca storia di guardie e ladri, la demonizzazione di una memoria che distorce ciò che il craxismo è stato nelle vicissitudini della sinistra italiana di cui Craxi, invece messo al bando simbolicamente come se fosse un Al Capone travestito da leader politico, ha avuto per quasi vent’anni un ruolo centrale.
Non sarà certo solo un film, sia pure girato con la consueta maestria da Amelio e interpretato dal bravissimo Pierfrancesco Favino, a ricostruire i tratti di una storia ancora dannata nel discorso pubblico del nostro Paese. Ma abbiamo finalmente l’occasione per rileggere il fenomeno craxiano nei suoi aspetti innovativi e anche in quelli, controversi, che hanno alimentato attorno alla figura del leader socialista tante ostilità, destinate ad accendere il furore che nella stagione di Mani pulite ha tragicamente accompagnato il tonfo politico e umano di Bettino Craxi, fino agli ultimi giorni di Hammamet.
Cominciamo dalle parole. Apparirà strano a chi non ha vissuto quell’epoca nemmeno tanto lontana, ma per esempio «riformista», nella sinistra maggioritaria in un’Italia già immersa nella modernità, era quasi una parolaccia, e infatti solo i socialisti di Craxi la usavano con convinzione e senza riserve mentali.
Certo, anche «rivoluzionario» non era più espressione frequentata nel Pci, e tuttavia l’evoluzione culturale non poteva ancora avere una sua compiuta ratifica lessicale. «Riformista» era uno strappo troppo profondo, un passaggio troppo brusco. Si preferiva piuttosto «riformatore», termine più pudibondo e meno ideologicamente compromettente, e se negli anni Settanta si volevano le riforme e non più la rivoluzione, se i comunisti governavano intere Regioni e molte città e assorbivano nel loro orizzonte politico la concretezza del mondo sindacale, occorreva però aggiungere, quasi liturgicamente per allontanare la tentazione della diluizione ideologica e dello scolorimento identitario, che fossero «di struttura»: «riforme di struttura», così si allontanava almeno nel frasario lo spettro del pericoloso riformismo. Dimenticando, però, che poi riformismo non è soltanto un metodo, una strada più lenta e meno violenta per raggiungere il medesimo obiettivo, come se la differenza tra salto rivoluzionario e riformismo fosse principalmente una questione di velocità, ma proprio un altro obiettivo: la correzione «riformista» del capitalismo e del mercato a favore dell’eguaglianza, e non già l’uscita (la «fuoriuscita», si usava dire con formula che appariva chissà perché più elegante) dal capitalismo a favore di un’economia pianificata dove il mercato sia umiliato e persino abolito. Anche «socialdemocratico», del resto, risultava al tempo termine indigesto, quasi un insulto. Nella casa craxiana invece no, perché nell’Internazionale socialista che raccoglieva le forze riformiste in Europa, la socialdemocrazia era un orizzonte condiviso, almeno dal Congresso della Spd tedesca a Bad Godesberg, che sancì nel 1959 l’abbandono del marxismo.
Craxi impose a una sinistra italiana ancora riluttante e malmostosa la sfida della cultura riformista che era orgogliosa di definirsi tale. Il Psi, che stava per estinguersi e che nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il minimo storico, invece non era infiammato da questo orgoglio, a parte la sensibilità dell’autonomismo di Pietro Nenni, sul cui terreno il craxismo era cresciuto. Ma fu Craxi ad aprire quello che Luciano Cafagna, uno studioso acuto del mondo riformista (cresciuto con Antonio Giolitti assieme a Giuliano Amato) e la cui grandezza stenta anche oggi ad essere riconosciuta come dovrebbe se non incombesse l’ombra di una sciocca damnatio memoriae antisocialista, avrebbe definito «duello a sinistra». Ed era la forza e anche la baldanza di chi aveva scatenato questo «duello» ad alimentare attorno alla figura di Bettino Craxi un’atmosfera di ostilità, se non di demonizzazione ideologica.
Un Psi subalterno, culturalmente arrendevole, politicamente gregario, tendenzialmente frontista, era un interlocutore accettabile per un partito di massa, tre volte più grande, egemone nel mondo della cultura, fortemente radicato nel senso comune di sinistra come il Pci. Ma Craxi era tutto il contrario, ed era un «contrario» aggressivo, fortemente fiero della propria autonomia e diversità.
Cominciò presto a diffondersi nel Pci ancora «eurocomunista» la leggenda nera di un Craxi colpevole di aver sottoposto la nobile tradizione del socialismo italiano a una snaturante «mutazione genetica». Nell’immaginario della sinistra vicina al Pci, l’hotel Raphael, dove Craxi aveva posto il suo quartier generale, stava diventando quasi il covo del nemico (che poi si vorrà espugnare a suon di monetine e con le forme di un linciaggio simbolico nel momento più incandescente di Tangentopoli, anche a costo di mescolarsi davanti all’albergo-covo con leghisti e fascisti). Nelle feste dell’«Unità» si esibiva come forma iconica di avversione assoluta per il rivale del Psi «la trippa alla Bettino»: un fossato psicologico tra due partiti che sembravano ripiombati nello stesso clima scissionista del 1921, quando a Livorno si consumò, proprio alla vigilia del fascismo, la rottura leninista con il partito di Filippo Turati.
Del resto Craxi non perdeva occasione per marcare la differenza rispetto al Pci e al clima del compromesso storico che rischiava di schiacciare tutte le forze intermedie. Nei giorni del rapimento Moro (16 marzo-9 maggio 1978) occupò lo spazio di una posizione favorevole alla trattativa per la liberazione del leader democristiano, privilegiando la difesa della persona sul culto statolatrico della politica, attirando su di sé l’ira dello schieramento della «fermezza». Non ebbe esitazione, malgrado le ambigue piazze pacifiste del «meglio rossi che morti», a pronunciarsi per l’installazione dei Pershing e dei Cruise nella base di Comiso (fortemente voluta e promossa, è il caso di ricordare, dal cancelliere socialdemocratico tedesco di allora, Helmut Schmidt) come risposta all’offensiva sovietica dei missili SS-20. Volle cancellare dal simbolo l’icona dal sapore bolscevico della falce e martello in favore di un garofano come contrassegno di una sinistra liberale, e persino «anticomunista», termine tabù almeno fino al crollo del muro di Berlino. E qualche anno dopo aprì un contenzioso sulla sterilizzazione della scala mobile, come misura anti-inflazionistica in un’Italia massacrata da un’inflazione mostruosa, destinato a provocare una frattura radicale con la maggioranza della Cgil.
Craxi era duro, determinato, amato dai suoi seguaci ma circondato da un’antipatia invincibile da parte dei suoi detrattori. In un congresso socialista a Verona, non esitò, violazione plateale del bon ton politico, ad assecondare i fischi verso l’ospite Enrico Berlinguer. Era caratterialmente sbrigativo, con un’ombra di arroganza che secondo i suoi avversari non poteva che riflettersi negativamente sulla natura della sua stessa leadership politica.
La sua predicazione a favore del cosiddetto «decisionismo», di una democrazia capace di decidere, emancipandosi dalle pastoie della lentezza consociativa e della paralisi istituzionale, che oggi appare quasi un’ovvietà, venne perciò liquidata come una velleità autoritaria e Craxi prese ad essere raffigurato con indosso gli stivali mussoliniani. La «grande riforma» craxiana fu vista e vissuta addirittura come un pericolo per la democrazia e non come un’opportunità per la sua rigenerazione. Qualche lustro più in là, con la Prima Repubblica in soffitta e Craxi confinato ad Hammamet, i contenuti della riforma craxiana entreranno nel cuore del dibattito politico, ma nessuno volle chiedere scusa a chi era stato bollato come «fascista» per avere proposto un disegno istituzionale troppo in anticipo sui tempi.
Ma il paradosso principale è che proprio in quegli anni venne da parte socialista, anche grazie al riconoscimento di una sensibilità comune con i radicali di Marco Pannella, un risveglio nella difesa garantista dello Stato di diritto (alimentata dallo sfregio che si consumò con la persecuzione di Enzo Tortora) e nella battaglia a favore dei diritti civili. Un’attenzione liberale e libertaria e liberal-socialista (si parlò molto allora, specialmente con Enzo Bettiza, di un polo cosiddetto Lib-Lab), poco frequentata nella sinistra italiana e non solo italiana, e che peraltro è stata alla base della martellante polemica socialista e craxiana sulla natura irrimediabilmente autoritaria e liberticida dei regimi comunisti.
Oggi sembra quasi lunare che si dovesse polemizzare sul totalitarismo comunista con chi non aveva spezzato in via definitiva tutti i legami con il mondo circondato dai reticolati del Muro di Berlino, ma ancora nel cuore degli anni Settanta Carlo Ripa di Meana, molto vicino al nuovo corso craxiano, venne fatto bersaglio di attacchi furibondi dai maggiorenti della cultura comunista per avere organizzato a Venezia una Biennale del dissenso che pure godeva del sostegno di Andrej Sacharov, perseguitato dal regime sovietico. La guerra contro la cosiddetta «propaganda anticomunista» era ancora in piena attività e solo tre anni prima da parte degli intellettuali del Pci Aleksandr Solženitsyn era stato accusato di avere «esagerato» con la sua denuncia del Gulag.
Poi naturalmente la nostalgia gioca brutti scherzi, e si ricostruisce il passato depurandolo delle sue brutture. Come è una bruttura la condanna all’oblio che pesa ancora sulla figura di Craxi, svilita a caso giudiziario, cancellando un pezzo di storia italiana e un pezzo importante della storia della sinistra.
Quando Massimo D’Alema entrò a Palazzo Chigi, qualcuno ebbe per esempio l’ardire di sostenere che si trattasse del primo uomo di sinistra a diventare premier. Era un errore, una gaffe storica, se non una menzogna deliberata, molto simile a quella diffusa da chi qualche anno prima aveva insinuato che il leader del Psi avesse addirittura depredato la fontana milanese davanti al Castello, trasportandola nottetempo ad Hammamet: una orribile fake news che nessuno ebbe il desiderio di contrastare nel furore della «caccia al Cinghialone». A precedere D’Alema a Palazzo Chigi era infatti stato proprio Bettino Craxi, leader di una sinistra riformista, liberale, moderna, ma senza soggezione nei confronti del potere incontrollato del mercato e del salotto buono dell’economia, che infatti lo ripagò con l’ostilità e addirittura con forme nemmeno velate di diffidenza antropologica.
Se questa clamorosa dimenticanza non verrà sanata, ancora una volta non saremo stati capaci di fare i conti con noi stessi e di raccontare una storia completamente diversa dalla demonologia di comodo che ha dominato la memoria collettiva in questi ultimi vent’anni sulla stagione craxiana. Non per fare l’agiografia di Craxi, che commise molti e imperdonabili errori, ma per ristabilire un minimo di verità storica. Ben vengano un film e un anniversario per ricominciare a capire quello che è accaduto. Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 9 gennaio 2020

…..A 20 anni dalla morte di Bettino Craxi un film in uscita sugli schermi italiani ricostruisce la  storia e la parabola della sua vita, finita a Tunisi dove si era rifugiato per sfuggire a magistrati  che ne impedirono il rientro in Italia perchè potesse curarsi. La storia  ha già giudicato quei giudici  consegnandoli all’oblio mentre  a Craxi il film di Amelio  restituisce   il ruolo di grande protagonista del riformismo anticomunista insieme a quello di uomo di governo coraggioso e capace di scelte coraggiose, dalla vicenda di Sigonella allo sdoganamento della destra missina pur nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità. g.

CASA BIANCA SOTTO ASSEDIO, LA FORZA NASCOSTA DI TRUMP, di Massimo Gaggi

Pubblicato il 7 dicembre, 2019 in Il territorio | No Comments »

I suoi colleghi, leader di altri Paesi della Nato, ridono di lui come i ragazzi più scaltri della classe che prendono in giro il secchione, magari dopo aver copiato il suo compito di matematica. Intanto dalla Corea il dittatore Kim Jong-un, di nuovo degradato da Donald Trump a rocket man, gli dà del vecchio rimbambito, usando un vocabolo arcaico e sofisticato, dotard, del quale pochi, in America, conoscono il significato. E, tornato a Washington dal vertice di Londra, il presidente precipita di nuovo nell’incubo dell’impeachment che cercherà di esorcizzare montando un ring da pugilato in mezzo all’aula del Senato trasformata in tribunale. La speaker della Camera Nancy Pelosi, che Trump vorrebbe come teste al processo insieme ad altri leader democratici «per dimostrare la corruzione della palude che io sto cercando di bonificare», ne è consapevole e, per tenere la questione istituzionale della messa in stato d’accusa per l’«affare Ucraina» separata dalla battaglia politica per la rielezione, è arrivata a replicare a un giornalista che l’accusava di odiare Trump: «Non odio nessuno e prego per lui». La Casa Bianca è sotto assedio, ma il leader non l’abbandonerà in elicottero come fece Nixon ai tempi del Watergate. Tenterà, invece, di avvolgere il processo nella polvere di un’enorme zuffa politica: per depotenziarlo, per garantirsi la fedeltà dei senatori repubblicani, la giuria, ma anche per galvanizzare i suoi fan.

La democrazia americana vive il suo momento più drammatico. Gran parte dell’opinione pubblica, compresi molti elettori del presidente e molti parlamentari del suo partito, sanno che gli argomenti giuridici del Kievgate non sono meno solidi di quelli del Watergate che costò la presidenza a un altro repubblicano. La smoking gun, la prova madre costituita negli anni Settanta dai nastri dei colloqui di Nixon nello Studio Ovale, stavolta l’ha fornita lo stesso Trump pubblicando, contro il parere di consiglieri e avvocati, i contenuti della telefonata col presidente ucraino Zelensky.
Ma i tempi sono cambiati: anni di radicalizzazione dello scontro politico e l’ulteriore imbarbarimento poi prodotto dall’effetto Trump, hanno eroso le istituzioni democratiche, il bilanciamento costituzionale dei poteri e la stessa sensibilità dei cittadini per una considerazione oggettiva dei fatti. Basta vedere quanto è elevato il numero di americani che giudicano il processo di gennaio irrilevante rispetto al giudizio – favorevole o contrario a Trump – che hanno già maturato. Certo, anche se è deciso a battersi fino in fondo mettendo in giro fotomontaggi che lo ritraggono come un campione mondiale di boxe e se i capi della sua campagna stanno addirittura cercando di trasformare l’impeachment nel turbocompressore della sua macchina elettorale, Trump è oggi un leader che si sente umiliato, oltre che assediato. Nei suoi sogni voleva regnare su un mondo sottomesso. Voleva essere il leader rispettato e temuto di un’America capace di far valere la sua forza.
Le cose non sono andate come desiderava e di certo non voleva passare alla storia per l’impeachment. Ma lui è anche un combattente, spregiudicato e pragmatico: quando ha capito che non poteva evitare quella deriva ha deciso di cavalcarla. Usando, in un assedio che comunque lo mette in grave difficoltà, tre armi: un linguaggio di brutale diffuso con strumenti molto efficaci; il fattore paura col quale mantiene il controllo dei parlamentari repubblicani; i numeri dei risultati economici e della forza commerciale degli Stati Uniti che usa a piene mani per minacciare e per vantare successi. Trudeau lo prende in giro? E’ arrabbiato perché Trump vuole che il Canada spenda almeno il 2 per cento del Pil per la difesa. Macron lo contesta? Abbasserà le penne quando dovrà pagare un dazio del 100 per cento sull’export francese di beni di lusso verso gli Usa. E poi l’economia che cresce, la Borsa che va ancora bene, l’impennata dei posti di lavoro a novembre, la disoccupazione ai minimi da 50 anni (3,5 per cento). Numeri con un valore relativo, come sappiamo, visto che non tengono conto dei tanti esclusi strutturali dal mercato del lavoro come gli ex detenuti o chi, semplicemente, smette di cercare non riuscendo a trovare nulla. Ma si prestano a un efficace uso politico.
In America un’economia che cresce è da sempre una polizza assicurativa per la rielezione. E il fronte democratico per ora non esprime un candidato forte. Inoltre i numeri che Trump scaglia contro la Cina e i Paesi europei minacciati (Italia compresa) di nuovi dazi, indeboliscono l’Occidente e rendono il mondo sempre più ingovernabile, ma pagano in termini di voti: anche se i nuovi balzelli stanno danneggiando anche gli Usa, la maggioranza degli americani è convinta che la Cina vada in qualche modo frenata e che l’Europa si sia approfittata troppo della generosità di Washington. Trump assediato, furioso, ma alla fine assolto e rieletto: è ancora lo scenario più probabile, anche se una riscossa democratica è sempre possibile. Così come non si può escludere del tutto una rivolta improvvisa dei senatori repubblicani che oggi giurano fedeltà, ma di certo non amano un presidente che ha spazzato via lo storico Dna del Grand Old Party, imponendo il suo. Improbabile: dopo, nei loro collegi, dovrebbero affrontare la furia dei seguaci di Trump. Massimo GAGGI, Il Corriere della Sera, 7 dicembre 2019