C’ERA UNA VOLTA UN MINISTRO, ARALDO DI CROLLALANZA
Pubblicato il 21 maggio, 2020 in Il territorio | No Comments »

Professor Ricolfi, vado dritto al punto. Secondo lei, questo governo ha un’idea dell’Italia? Ha una visione del futuro di questo paese, cosa ancor più necessaria in una fase di gestione dell’emergenza sanitaria e soprattutto economica post- Covid?
Mi ha molto colpito l’osservazione del vostro De Angelis, secondo cui non si può governare l’Italia senza un’idea di futuro, idea che a questo governo parrebbe mancare. Sottoscrivo al 100% la prima affermazione, ma non la seconda: a mio parere questo governo un’idea del futuro ce l’ha eccome, purtroppo. Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso, infatti, le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque Stelle.
E il più straordinario paradosso politico è che un simile mostro socio-economico, che peserà chissà per quanti anni sul futuro dell’Italia, sia stato accuratamente apparecchiato dall’unica componente riformista e modernizzatrice della sinistra, quella di Renzi.
Proprio da Italia Viva, almeno a parole, sono piovute le critiche per le ricette economiche messe in campo dal governo: secondo Renzi vanno nella direzione di un più puro assistenzialismo, dal reddito d’emergenza ai bonus, passando per la cassa integrazione ordinaria e in deroga. Che effetto avrà nei prossimi anni sulla struttura della nostra società che già in epoca pre-Covid aveva e ha il limite di essere basata sulla rendita più che sul lavoro, come ha descritto nel suo ultimo libro?
La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una “società parassita di massa”, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione “involutoria”, come forse la chiamerebbe un matematico.
Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.
Però l’ex premier Romano Prodi domenica scorsa ha sostenuto la diversa tesi secondo cui da questa crisi si può uscire con una presenza più forte dello Stato nell’economia.
Prodi è la perfetta manifestazione della forma mentis della nostra classe politica: qualsiasi problema si presenti, e più è grande il problema che si presenta, più forte è l’istinto a invocare “più politica”, “più intervento”, “più stato”. E’ un tic mentale, come lo è quello degli europeisti doc, che qualsiasi cosa accada chiedono “più Europa”, e come lo è quello dei liberisti duri e puri, che qualsiasi cosa accada chiedono “più mercato”.
E invece abbiamo bisogno di fantasia, di apertura mentale, non di rifugiarci ognuno nelle proprie credenze di sempre.
Dalle imprese tuttavia s’è visto uno scatto d’orgoglio. Il neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha attaccato duramente il governo su questi primi accenni di politica assistenzialista, per non parlare della reazione dura alle ipotesi di entrata nel capitale nelle aziende che rischiano di fallire nei prossimi mesi. Sorpreso?
Sì, sono rimasto (felicemente) sorpreso. Nonostante io nutrissi parecchie speranze in Bonomi, che mi è parso subito più attrezzato e più coraggioso dei suoi predecessori, mi aspettavo che Confindustria non dismettesse la prudenza (eufemismo) che, almeno dopo i tempi di Montezemolo e del compianto Andrea Pininfarina, ha sempre caratterizzato i suoi rapporti con il potere politico. Da almeno un decennio non ricordavo una presa di posizione così netta contro il governo.
Perché, secondo lei, Bonomi ha assunto una posizione così critica?
Me lo sono chiesto anch’io, mi sono chiesto, in particolare, se sia in corso una manovra per sostituire un premier la cui inadeguatezza, dopo gli ultimi errori, è divenuta difficile da nascondere dietro i fumi delle parole e la mortificante soggezione di una parte dei media.
Poi però mi sono dato un’altra risposta, molto più semplice: “è la sopravvivenza, bellezza!”. Persino un coniglio, se sta per essere inghiottito da un pitone, combatte la sua estrema battaglia per non morire. Figuriamoci una potente organizzazione come Confindustria.
La mia impressione è che il mondo dei produttori, specie nelle regioni del centro-nord, abbia perfettamente capito quel che sta succedendo, e viva una sorta di presentimento di morte. Poiché molte imprese sono già morte, altre agonizzano, altre sanno che non potranno durare, le imprese superstiti cercano disperatamente di non scomparire. E avendo capito che la sopravvivenza delle imprese non è in cima alla lista delle priorità di questo governo, tentano l’ultima battaglia per salvare sé stesse dalla catastrofe che si annuncia.
Insomma, voglio dire che il governo Conte è riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese. E meno male che ciò sta accadendo, perché in questo momento (preciso: in questo momento, non sempre e comunque) dare la priorità alle imprese è l’unico modo di difendere l’interesse collettivo e nazionale. Sul piano economico-sociale (lascio perdere quello sanitario, per non infierire) la più grande bugia di questo governo è stata di lanciare il messaggio: nessuno perderà il lavoro, nessuno sarà lasciato indietro.
E invece no: se il Pil perderà il 10 o il 20% in un anno, come è verosimile, spariranno milioni di posti di lavoro, e vivere di sussidi sarà l’unica possibilità per milioni di famiglie.
Cerchiamo appunto di guardare ai prossimi mesi. Il Covid alla fine ci potrà dare una vera spinta per evitare il declino – lei lo definisce “argentinizzazione lenta” – verso cui da anni ci siamo incamminati? Pensa che davvero si creerà un clima da ricostruzione post-bellica o è solo retorica e propaganda politica?
Molto dipenderà da tre fattori. Il primo è che la base produttiva non subisca una distruzione catastrofica (caduta del Pil superiore al 10-15%). Il secondo è che le imprese vengano messe, per la prima volta nella nostra storia, in condizione di lavorare senza ostacoli burocratici e vessazioni fiscali. Il terzo è il fattore-Churchill: ovvero, avere al comando una classe dirigente seria, e possibilmente non frutto di manovre di palazzo.
Per ripartire e ricostruire c’è però bisogno di una generazione che se ne faccia carico, un po’ come quella che ha fatto tanti sacrifici nel Dopoguerra e che però ha portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60. Dovrebbe, almeno teoricamente, essere quella degli attuali giovani, fra i 20 e i 40 anni. Ma si tratta di quella stessa generazione che si è abbandonata all’opulenza negli ultimi anni, preferendo consumare ricchezza invece che creare reddito. Mi sembra un bel dilemma, non crede?
Sì, la riconversione dei cosiddetti Neet (che alcuni chiamano bamboccioni, o generazione choosy) è un’impresa difficile, specie se di lavoro ce ne sarà ancora meno che oggi.
Proprio per questo tendo a pensare che, se ricostruzione ci sarà, sarà grazie all’apporto di tutti, compresi anziani e pensionati, non certo soltanto o principalmente per opera degli attuali 20-40enni. Ma soprattutto penso che, a differenza che in passato, si dovrà puntare sull’auto-imprenditorialità, più che sull’attesa messianica del posto di lavoro.
E se poi uno dei motori della ricostruzione fosse formato da quegli immigrati che lavorano in condizioni para-schiavistiche e che sono funzionali alla società signorile di massa come braccianti, colf, badanti e via dicendo?
Di alcuni segmenti di quella che nel mio libro definisco la “infrastruttura para-schiavistica” della società italiana sarà difficile fare a meno. Ma mi piacerebbe che il dopo-Covid fosse anche l’occasione per attenuare il loro giogo: i fiumi di miliardi che oggi vanno a sussidiare chi non fa nulla, o lavora in nero senza pagare le tasse, troverebbero una destinazione più degna di un paese civile se servissero a trasformare i nostri attuali para-schiavi in veri lavoratori, restituendo loro il rispetto che la civiltà del lavoro ha sempre riservato al mondo dei produttori, compresi i più umili.
A una destra che voglia davvero vincere le elezioni non resta dunque che prendere atto di tutto ciò e regolarsi di conseguenza. Vale a dire evitare accuratamente quanto possa avvalorare i sospetti e le illazioni di cui sopra (dalle smargiassate verbali ai gesti che possano apparire intimidatori o provocatori, alla compagnia di gruppi estremisti). Ma naturalmente — è necessario aggiungerlo? — non deve trattarsi di un’operazione di facciata, di una cosmesi elettoralistica. Deve trattarsi di una scelta consapevole di linea politica e di un modo d’essere, accompagnata se necessario da un esplicito, magari duro confronto al proprio interno. Non si tratta di annacquare i propri temi o le proprie parole d’ordine, si tratta solo di non imputridirli con il fango.
Il secondo ostacolo strutturale che incontra la destra discende direttamente da quello che ho appena detto. Consiste nel suo essere poco o nulla radicata nell’establishment del Paese, perlomeno nel non esserlo in modo pubblico e visibile, e cioè ammesso dall’establishment stesso. Nella storia della Seconda Repubblica ha fatto una parziale eccezione solo Forza Italia, ma tale eccezione è stata dovuta in parte alla straordinarietà della congiuntura che inizialmente vide protagonista Berlusconi e poi per la quantità e la qualità delle risorse che il cavaliere era in grado di mettere in campo.
Tra le molte conseguenze ce ne sono due particolarmente importanti per la destra. Da un lato la ricorrente difficoltà di trovare nomi significativi della società civile per le proprie candidature, in specie nelle elezioni locali; cioè precisamente quel genere di candidature che si rivelano più utili per attrarre i consensi dell’elettorato indeciso orientato perlopiù verso il centro. È questo un problema grave soprattutto per ciò che riguarda i centri urbani, dove più alta è la concentrazione di persone acculturate sensibili alla qualità del personale politico. Dall’altro lato, l’esiguo serbatoio rappresentato dall’establishment significa, una volta che si arriva a governare, il difficile reperimento di competenze riconosciute, il non poter contare su reti di relazioni di valore, mancare di nomi significativi per incarichi di prestigio come ad esempio quello fondamentale della Presidenza della Repubblica. Significa in altre parole avere molti problemi a governare, e di conseguenza debolezza politica.
Oggi, in Italia c’è infine un terzo grave ostacolo che la destra incontra sulla via della conquista della maggioranza elettorale: la Chiesa. Si può discutere se anche dopo la fine della Democrazia Cristiana la Chiesa nella sua massima istanza nazionale rappresentata dalla Conferenza Episcopale abbia mai cessato di occuparsi di politica nel senso di astenersi dal dare esplicite indicazioni di voto. Se comunque all’epoca della presidenza del cardinale Ruini non lo ha certo fatto, è da notare che le sue indicazioni, tuttavia, allora furono esclusivamente in positivo. Si trattò sempre di inviti più o meno trasparenti a votare a favore dello schieramento berlusconiano in quanto ritenuto più favorevole ai valori cattolici considerati in quel tempo «non negoziabili». Sotto la guida del cardinale Bassetti, viceversa, la Chiesa italiana ha sempre di più optato per un atteggiamento palesemente, talora aspramente, contrappositivo nei confronti della destra (e della Lega in modo tutto particolare), atteggiamento che in più di un’occasione è apparso addirittura far rivivere i tempi dello scontro con il comunismo. C’è davvero bisogno di ricordare che sembra tuttora molto difficile raggiungere la maggioranza elettorale in questo Paese, e riuscire poi a governare godendo di qualche credibilità, se capita di avere tra i propri avversari dichiarati la Chiesa cattolica?
L’Italia, come spiegano da tempo tutte le inchieste in proposito, è una collettività sociologicamente e ideologicamente assai poco disposta alla rottura, alle svolte più o meno radicali, è un Paese fondamentalmente conservatore. Se però stando così le cose esso dà la maggioranza dei consensi alla sinistra è ragionevole credere che più che per i meriti di questa forse ciò avvenga quasi sempre soprattutto per i limiti e gli errori della destra. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 30 gennaio 2020
…..A 20 anni dalla morte di Bettino Craxi un film in uscita sugli schermi italiani ricostruisce la storia e la parabola della sua vita, finita a Tunisi dove si era rifugiato per sfuggire a magistrati che ne impedirono il rientro in Italia perchè potesse curarsi. La storia ha già giudicato quei giudici consegnandoli all’oblio mentre a Craxi il film di Amelio restituisce il ruolo di grande protagonista del riformismo anticomunista insieme a quello di uomo di governo coraggioso e capace di scelte coraggiose, dalla vicenda di Sigonella allo sdoganamento della destra missina pur nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità. g.