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20 AGOSTO 1968: I CARRI ARMATI SOVIETICI SPENSERO NEL SANGUE LA “PRIMAVERA” DI PRAGA.

Pubblicato il 20 agosto, 2011 in Il territorio, Storia | No Comments »

Era il 20 agosto del 1968, 43 anni fa,  quando le truppe sovietiche e dei paesi del patto Varsavia (ad eccezione della Romania)invadevano Praga. La Cecoslovacchia dal gennaio dello stesso anno aveva inaugurato, nell’ambito del Partito Comunista, un “Socialismo dal volto umano”. Alexander Dubček era stato il maggiore fautore del rinnovamento, che consisteva in una nuova politica non sganciata da Mosca ma con maggiori libertà, quali la creazione di partiti di opposizione e introduzione della libertà di stampa.
I dirigenti sovietici intravidero nella primavera di Praga una minaccia per il regime comunista e per il patto di Varsavia, temettero un “contagio” in campo socialista. Dubcek tentò di rassicurare i sovietici, evidentemente non ci riuscì, se la notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
Dubček era in una riunione del Partito Comunista Cecoslovacco, quando il premier Cernik fu avvisato dell’invasione. Era un “tipico giorno estivo, – scrive Dubček nella sua autobiografia – caldo, con un sole velato. Praga era piena di turisti, intere famiglie passeggiavano o sedevano nei parchi. La città, anzi l’intero paese era tranquillo…era impossibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito”.
Per protestare contro l’invasione sovietica alcuni studenti universitari decisero di immolarsi appiccandosi il fuoco dopo essersi cosparsi di benzina. Si sacrificarono estraendo a sorte l’ordine secondo cui avrebbero dovuto immolare le loro vite. Il primo ad appiccarsi il fuoco fu Jan Palach, studente di Filosofia di 21 anni. Era il 25 gennaio 1969. Per non dimenticare. g.

LA STORIA DEL 900 RACCONTATA DALLA SINISTRA: LE FOIBE SONO DELLE FOSSE E BERLUSCONI E’ UN FARABUTTO

Pubblicato il 14 aprile, 2011 in Costume, Cultura, Storia | No Comments »

In questi giorni divampa nel già rovente  clima della politica italiana un altro tema: quello della rivisitazione dei libri di storia nelle scuole italiane perchè siano raddrizzate eclatanti storture e ignominiose baggianate  che in questi testi, sui cui studiano i nostri ragazzi,  compaiono con grande compiacimento della sinsitra. La proposta,  avanzata da alcuni deputati del PDL, tra cui l’on. Carlucci e il ministro  per la Gioventù, Meloni, è destinata ad arroventare ancor di più lo scontro, perchè è evidente che una equilibrata narrrazione della storia apre la strada ad una diversa epiù oggettiva valutazione dei fatti. Sull’argomento  e sulle storture storiografiche operate dagli autori dei testi di storia attualmente inuso nelle scuole italiane,   ecco uno piccolo ma eloquente saggio di Francesco Maria Del Vigo.

I gulag? “In linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà e l’ignominia dei gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente (…)”. Il Manifesto? Un comizio di Toni Negri della metà degli anni Settanta? No, un libro di testo, uno di quelli che potrebbe finire sui banchi dei nostri figli: esattamente pagina 1575, quarta edizione (del 1998) di Elementi di storia del XX secolo di Augusto Camera e Renato Fabietti.

I libri di storia faziosi? L’argomento è tornato alla ribalta in questi giorni in seguito alla proposta di una pattuglia di parlamentari del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, di istituire una commissione d’inchiesta sulla faziosità dei libri di storia. Un tema che viene da lontano, sul finire degli anni Novanta avanzò una proposta simile Giorgia Meloni, allora segretario nazionale di Azione Giovani, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale. Un’iniziativa gloriosamente inascoltata: nessuno raccolse l’invito del futuro ministro della Gioventù. Ed è proprio dai dossier di allora che emergono le aberrazioni storiche contenuti in alcuni testi poco scolastici e molto politici.

Torniamo al testo. Una decina di pagine dopo le foibe vengono licenziate come: “uno sfogo dell’ira popolare”. Il terrorismo degli anni di piombo? A quello “nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria e fascistoide”.

Cambiamo libro e passiamo al Manuale di storia 3 L’età contemporanea di Giardina, Sabbatucci e Vidotto: “La politica staliniana in tema di nazionbalità non fu solo di carattere repressivo. Bisogan tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento”. Beh, se sono minoritarie…

Nel Vocabolario della lingua parlata in Italia Di Carlo Salinari le foibe sono spiegate così: “Fosse (…) in cui durante la guerra 40-45 furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista”. E qui siamo al paradosso: la frittata è totalmente ribaltata. Viee da chiedersi da chi sia parlata questa fantomatica lingua…

E poi non può mancare Silvio Berlusconi, ancora in vita e saldamente al governo ma già storicizzato dagli intellettuali engagé e, ovviamente, descritto con le fattezze del cattivo. Sull’esposto del governo in cui si denuncia l’attacco della procura di Milano: “Qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio Di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale”. Questo è un testo per addetti ai lavori: Dizionario giuridico italiano-inglese di Francesco de Franchis.

La lista dei soggetti bersagliati dalla censura storiografica è infinita: dal fiumanesimo a Marinetti, da D’Annunzio a Nietzsche passando per poeti, pittori e personaggi pubblici. Omissioni, menzogne, morti che valgono meno di altri morti, solo perché sono caduti dalla parte sbagliata.  Francesco Maria Del Vigo

NAPOLITANO E’ DIVENTATO PRESIDENZIALISTA, di Vittorio Feltri

Pubblicato il 30 marzo, 2011 in Politica, Storia | No Comments »

Giorgio Napolitano è il migliore dei presidenti della Repubblica. Dal punto di vista estetico, s’intende. Quando fu eletto nel 2006 dalla maggioranza di centrosinistra, che aveva appena vinto le consultazioni politiche grazie a Romano Prodi, molti pensarono fosse resuscitato. In effetti era sparito dalla circolazione, quantomeno dalla scena. Invece era vivo, forse anche a sua insaputa. Ma nel giro di poche settimane dimostrò che il Quirinale fa bene alla salute del corpo e della mente.Napolitano vi entrò con passo incerto, un po’ curvo e appesantito dagli anni. Ma già alla sua prima uscita si fece ammirare come se avesse affrontato una cura prodigiosa di ringiovanimento. Dritto come un fuso, impettito, pieno di vigore e soprattutto lucidissimo. E cominciò a fare sentire la sua voce in un crescendo di autorevolezza dovuta alla padronanza del «mestiere». Gli italiani osservarono con stupore e ammirazione la crescita dell’uomo, da vecchio comunista duro e puro a rappresentante della più alta carica di uno Stato democratico e liberale, per non dire borghese, un termine che attende ancora di essere completamente sdoganato.
Alla luce di questa evoluzione, non sorprende che il signor presidente abbia assunto un ruolo decisivo anche nella drammatica circostanza della guerra a Muammar Gheddafi. Nessuno più di lui ha manifestato tanta convinzione nell’affermare la necessità di partecipare alle operazioni belliche. Ha detto sì senza muovere ciglio alla risoluzione dell’Onu, spiazzando Silvio Berlusconi che invece era e continua a essere titubante, data la sua amicizia con il tiranno nordafricano col quale, tra l’altro, aveva sottoscritto un trattato di collaborazione economica. La risolutezza di Napolitano nel caldeggiare la missione militare ha, in pratica, costretto gran parte della maggioranza e dell’opposizione ad adeguarsi ai desiderata del Quirinale, e il premier, dinanzi a una sorta di unanimismo, ha dovuto piegarsi (malvolentieri). A questo punto ci si è chiesti come mai in una democrazia parlamentare quale la nostra il capo dello Stato di fatto contasse di più sia del premier sia dello stesso Parlamento che ha programmato la discussione e il voto sulla guerra una settimana dopo averla iniziata. E qui bisogna ricollegarsi all’accennata metamorfosi di Napolitano: da notaio supremo della Repubblica e custode della Costituzione, nonché dell’unità nazionale, a vero e proprio leader morale del Paese.
Ormai il presidente è visto e considerato come una guida illuminata e la sua parola è ascoltata con tale rispetto che nessuno osa contraddirla. Altri capi dello Stato in verità avevano tentato di essere e di fare le medesime cose, ma ci erano riusciti a metà: Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi (per tacere di Sandro Pertini, un caso particolare). Napolitano sembrava non avesse le carte in regola per prendere in mano, senza destare perplessità, il timone del Paese, in quanto la sua storia politica affondava le radici nel comunismo ortodosso, viceversa è stato in grado di far dimenticare certe ombre e adesso oltre il 70 per cento degli italiani ha fiducia in lui, e lo segue.
Tutto questo però stride con la logica. Infatti ogniqualvolta un partito accenna all’opportunità di trasformare la repubblica parlamentare in repubblica presidenziale, viene zittito quasi avesse bestemmiato. Insomma il presidenzialismo è proibito sulla carta, ma può essere esercitato in forma surrettizia. Come la guerra: non si può dire, ma si può fare.

.…………A proposito di Napolitano, siamo felicemente sorpresi dell’ansia che lo ha colto per la tutela dei diritti umani  e per la salvaguardia delle popolazioni  civili in occasione del conflitto in Libia che da affare interno ad un Paese sovrano e membro dell’ONU, si è trasformato in strumento per consentire a un paio di guerrafondai di mandare i loro bombardieri a gettare bombe e lanciare missili   che come tutte le bombe e tutti i missili non si sa mai con certezza dove vanno a finire.Comunque, così va il mondo. Una cinquantina di anni fa, mentre i carri armati sovietici invadevano l’Ungheria e reprimevano nel sangue la rivolta degli ungheresi che anelavano alla libertà e alla demcorazia, l’on. Napoliano, “migliorista” della sezione italiana del partito sovietico che aveva invaso l’Ungheria, taceva e se ne impipava dei diritti umani e della salvaguardia delle popolazioni magiare, salvo, cinquatanni dopo, dichiarare che allora non aveva capito. Chissà se dopo, andando a Budapest, ha visitato la Casa del Terrore che si affaccia sulla via Andreassy, la strada su cui i sovietici,  allora suoi amici,   sparsero il sangue dei ragazzi  poco più che giovinetti  che si opposero impavidi  agli aguzzini sovietici e  i cui volti appaiono, ad eterna vergogna degli assalitori, sulle pareti interne della Casa trasformata in Museo, intorno al carro armato che gli insorti conquistarono agli invasori prima di soccombere, e  chissà se dinanzi ai volti di quei ragazzi Napoliano abbia pianto per Loro e anche per se stesso….e chissà se l’on. Napoliano, che è stato  nei giorni scorsi tra i più solerti sostenitori dell’intervento contro la Libia, ha memoria di quando, da dirigente comunista, accusava l’America,  che difendeva in lontani teatri di guerra il diritto alla democrazia di tutti i popoli, di ingerenza in questioni interne di Paesi sovrani….ma così va il mondo…chissà se è cambiato il mondo o è cambiato l’on. Napolitano. g.

CARA PATRIA DEPRESSA, RIALZATI E NON PENSARCI PIU’, OVVERO LA CONTROCOMMEMORAZIONE DEI 150 ANNI

Pubblicato il 18 marzo, 2011 in Costume, Storia | No Comments »

Stamattina all’alba è stata rinvenuta priva di sensi, sui gradini della sua abi­tazione nota come altare della patria, una donna di nome Italia. Aveva trascor­so per strada la notte tricolore e aveva brindato al suo compleanno fino a ubria­carsi. Quando i dipendenti della nettezza urbana l’hanno trovata, era strafatta. In serata si era lasciata andare ai ricordi e ha cominciato a piangere e a bere. Rive­dendo i filmini, i cimeli e le foto del suo passato, ha pensato alle violenze che ha subito nei secoli da invasori e invasati, ti­ranni di fuori e vigliacchi di dentro; ha ri­pensato agli stupri, alle calunnie e alle fe­rite che le hanno inferto anche in fami­glia. E ha lanciato per rabbia lo stivale. Poi ha pensato alle glorie e agli amori del passato e le è cresciuto pure il rimpianto e il rimorso. Infine ha pensato che da quando è nata le guastano puntualmen­te la festa di compleanno. Cent’anni fa, quando inaugurò la sua casa-altare, sparlarono di lei i socialisti che non la riconobbero come madrepa­tria perché i proletari non hanno patria, i cattolici che la consideravano una sver­gognata che civettava con atei e massoni, e i repubblicani che detestavano la sua casa reale e la sua tresca monarchica. Cinquant’anni fa, quando celebrarono il suoi cent’anni, i comunisti e le sinistre la consideravano ancora amante di na­zionalisti e fascisti, mentre loro erano in­ternazionalisti, devoti alla patria sovieti­ca e taluni a quella cinese. Quest’anno in­v­ece è toccato ai leghisti a nord e i neobor­bonici a sud rovinarle il compleanno, of­fendere il suo tailleur tricolore e la sua canzone preferita,l’inno di Mameli,scrit­ta per lei da un ragazzo che l’amava da morire. Così Italia si è buttata giù e nel pieno di questa guerra italo-italiana ha comincia­to a bere e a spaccarsi di droghe leggere e pesanti. A volte sogna di espatriare, ma ha il soggiorno obbligato in questa peni­sola. Vorrebbe farsi il lifting, siliconarsi e rifarsi pure le tette e le chiappe, per sem­brare un’altra. Poi cade in depressione e si lascia andare. Stamane sono giunti sul posto i carabinieri, l’hanno identificata e, vedendola scalza, l’hanno denunciata a piede libero. Marcello Veneziani

150 ANNI: VERDE BIANCO ROSSO

Pubblicato il 17 marzo, 2011 in Cultura, Storia | No Comments »

Oggi si celebrano i 150 anni dell’Unità Nazionale. E’ quindi il giorno delle commemorazioni, non certo il momento delle polemiche, sebbene ne siamo  tentati: per esempio dal proverbio secondo il quale “il troppo storpia”, oppure dalle risposte che ieri sera parlamentari di tutti i partiti hanno dato alle domande delle Iene: una fra tutte, perchè Garibaldi era definito l’eroe dei due mondi? uno ha risposto: perchè Garibaldi ha combattuto (udite, udite) al nord e al sud d’Italia, oppure, ancora dalla ipocrisia di tanti che sino a pochi anni addietro hanno pensato all’Italia come ad una piccola contrada della grande madre Russia, come i comunisti, i quali per bocca di Bersani oggi  si sono definiti “i veri patrioti” e in polemica con la Lega che non ha partecipato alle manifestazioni unitarie si sono recati, dopo Napolitano, a depositare anche loro, evidentemente non identificandosi in Napolitano che rappresenta tutti, anche loro,  una corona al Vittoriano,  Monumento eretto dalla Nazione, nel 1911, in onore del Padre della Patria Vittorio Emanuele secondo e dove riposa per sempre il Milite Ignoto, simbolo di tutti i Caduti per la Patria che per molto tempo non fu la patria di Bersani e di quelli come lui…..e potremmo continuare ancora. Ma non è il caso. Preferiamo dedicare all’avvenimento,  che va celebrato ogni anno, anno dopo anno, come fanno i popoli che si riconoscono Nazione, l’articolo che oggi scrive il direttore de Il Tempo, Mario Sechi, non a caso intitolato:VERDE BIANCO ROSSO . I Colori, i Valori, i Prinicipi cui  ci siamo ispirati tutta la vita. g.

Palazzo Wedekind, sede de Il Tempo, illuminato per i 150 anni dell'Unità d'Italia Italia. Europa. Quando penso alla nostra nazione non posso fare a meno di associarla al Vecchio Continente. È un link meno automatico di quanto si pensi, soprattutto in questo scenario contemporaneo. E lo faccio perché guardo con preoccupazione alla sorte di entrambi. Il nostro Paese festeggia i suoi 150 anni di unità mentre l’Unione europea mostra segni di cedimento e tentazioni di ripiegamento che si conciliano forse con l’interesse di qualche Stato ma non con il destino comune di noi europei. Scrivo quest’ultima parola senza enfasi, ma penso che sia fondamentale guardare al nostro passato e soprattutto al nostro futuro in un quadro globale, in un teatro più grande di quello dei nostri confini, non disgiunto dalle fortune degli altri Paesi. Questo anniversario è un’occasione unica – e spero vivamente non episodica – per riflettere sulla costruzione della nostra unità, sui suoi motivi fondanti ieri e su quelli che la possono cementare, rafforzare, rendere dinamica e creativa domani.


Centocinquant’anni di storia sono un periodo lungo per una nazione e cortissimo per la storia del mondo. Il nostro carattere in un secolo e mezzo si è forgiato su alterne fortune e biografie tragiche, uniche, scintillanti. Un amico banchiere soleva dirmi: «Le cose sono più forti degli uomini». Vero, ma solo in parte. Perché gli uomini e le donne che hanno costruito questo Paese sono quelli che hanno messo in moto «le cose», le stesse che poi prendono vita autonoma e determinano la nostra esistenza.


Non farò una carrellata di personaggi, né cadrò nella tentazione agiografica o, peggio, nella retorica. Tuttavia, come possiamo parlare di Italia senza considerare la nostra grandiosa letteratura del passato? Come possiamo immaginare lo Stivale senza conoscere chi fu Camillo Benso di Cavour e quel personaggio incredibile, controverso e lucente come la lama di una spada, Garibaldi? È semplicemente impossibile concepire l’Italia senza queste figure. Quando ero un piccolo studente, il fascino del Medioevo e del Rinascimento mi conduceva verso il sentiero di un’Italia che ancora non c’era, eppure già palpitava nei testi poetici, nelle rime perfette del Petrarca e nella cosmologia grandiosa di Dante.


La memoria mi riporta sui banchi di scuola. Ieri e oggi ritrovo nel Manzoni il talento del narratore di una società in fieri, un magma in cui il genio del Gran Lombardo forgiava la lingua della nostra unità, edificando il nostro futuro di casa comune in una lingua comune a tutti.

Ognuno di noi porta con sé i frammenti di questa Italia, forse atomizzata, certamente un po’ dimenticata e sottovalutata. Voltarsi indietro però non significa abbandonarsi al facile sentimento dei «bei tempi andati». Non è così. Il nostro Paese ha vissuto anni terribili e ha dimostrato di saper costruire il suo avvenire nella pace, nella prosperità e nella solidarietà. Questi elementi non sono persi per sempre né sono spariti. Sono vivi, hanno bisogno di uno stimolo, di un orizzonte per ritornare ad essere energia viva. Ho la fortuna, ogni giorno, di poter scrivere e rappresentare le mie idee – e quelle dei miei lettori – su questo straordinario giornale che è Il Tempo. Anche noi abbiamo una nostra storia. Dal 1944 facciamo parte del libro della storia repubblicana e della borghesia italiana. Amo pensare al nostro quotidiano come a una «forza tranquilla», un punto di riferimento per chi nella tradizione e nel coraggio delle proprie opinioni ritrova il Paese che amiamo: quello che sa pensare e costruire. Bianco. Rosso. Verde. Viva l’Italia. Mario Sechi, Il Tempo, 17 marzo 2011

UN APPELLO ALLA NAZIONALE: QUESTA E’ LA VOLTA BUONA PER FARE LA FESTA ALL’ITALIA

Pubblicato il 7 gennaio, 2011 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

di Marcello Veneziani

Ma allora la facciamo o no questa Festa Nazionale per i 150 anni dell’Unità d’Italia? Lo chiedo in giro, al presidente del comitato per l’Unità d’Italia, a ministri e protagonisti della politica italiana e delle istituzioni, ma nessuno sa dire niente e molti dicono che non è stata né bocciata né varata la decisione definitiva; resta italianamente nel mezzo, a bagnomaria. Il mistero della festa annunciata. Torno a chiederlo ora che da domani cominciano dal Tricolore i festeggiamenti per la nostra benedetta e maledetta unità d’Italia.

Se ricordate, si pensò di dichiarare festa nazionale il 17 marzo del 2011, data della proclamazione ufficiale dell’unità d’Italia 150 anni fa. Avanzai formale proposta in questo senso proprio nel comitato dei garanti e fu approvata. La proposta fu accolta nelle sedi istituzionali competenti e si decise di istituire solo per il 2011 la festa dell’Italia. Poi la scelta si arenò per motivi misteriosi che vanno dalla crisi economica (non ci sono soldi) al timore di creare contraccolpi antiunitari e dispiaceri ai leghisti. Si parlò di declassarla a solennità civile. Poi nulla. Per ora tutto resta affidato a qualche bel concertone per il 17 marzo, a una notte bianca, rossa e verde per deliziare l’Italia nottambula e alle celebrazioni soprattutto piemontesi che il neopresidente della Regione, il leghista Cota, ha confermato per intero, con soddisfatta sorpresa dei promotori. Ma di festa popolare e nazionale, festa nelle scuole e nei luoghi pubblici, manco a parlarne.
Ora io credo che un Paese debba avere la minima dignità di ricordare la data in cui si unì. Lo deve fare anche per ricordare il passato diviso, le pagine buie, le motivazioni di coloro che si opposero al Risorgimento e all’Unità. Motivazioni che sono veramente trasversali: leggetevi Gramsci e capirete le ragioni della diffidenza dei socialisti e dei comunisti anche nel nome dei contadini. Ma leggete pure le ragioni della contrarietà dei cattolici o dei meridionali, dei difensori degli Asburgo o dei Borbone. Ragioni rispettabili, a parte le esagerazioni revansciste. Ma ciò non toglie che un Paese adulto e civile abbia il dovere di ricordarsene. Ciò non toglie che l’Italia esiste e fino a prova contraria è la nostra Nazione, sancita dalla Tradizione e dalla Costituzione, dalla lingua e dalla malalingua. Aggiungete pure altre due considerazioni. La prima: non abbiamo una sola festa che celebri l’unità d’Italia, abbiamo la festa della Liberazione imperniata sulla dolorosa guerra civile e abbiamo la festa della Repubblica, impiantata sulla spaccatura a metà tra monarchia e repubblica. Il 4 novembre non è più festa da un pezzo. Non abbiamo una festa degli italiani e dell’Italia tutta. Una festa nata per unire, usando il bel motto del felice spot della Difesa per i 150 anni.

La seconda ragione ancora più contingente della prima è che la sorte ci ha giocato un brutto scherzo quest’anno: il calendario relega le festività civili della prima metà dell’anno nelle festività religiose, dal 25 aprile oscurato dalla Pasquetta al Primo Maggio inghiottito in una domenica. Dunque, Sor Giulio, possiamo anche permetterci a fronte di due feste risparmiate, di averne una per un compleanno particolare. Perché non farla? Certo, c’è il rischio elezioni, ma questo mi pare un motivo in più per farla. Perché non farla rischia di diventare un buon argomento da campagna elettorale per le opposizioni. Gente che fino a ieri considerava la patria fascista e il tricolore la bandiera del calcio, dei monarchici e dei missini, dirà che questo governo sotto ricatto della Lega non ha il coraggio nemmeno di difendere l’Unità d’Italia. Vedremo sfilare passerelle di cariche dello Stato, più uno sciame di patrioti giacubbini, da cumpare Di Pietro a cumpariello Vendola, più i patrioti emiliani del tortellino, Bersani, Fini e Casini, per esaltare l’unità d’Italia a dispetto del governo sordo.

È questo che volete? Allora dico al presidente del consiglio, ai ministri della Difesa e dei Beni culturali, della Pubblica Istruzione e della Gioventù: che aspettate a rianimare il disegno di legge per l’istituzione della festa nazionale almeno solo per quest’anno? Scuole chiuse, discorso alla nazione, festa popolare in tutta Italia. Tanto più che la festa è pronta, i Comuni e le Regioni già si sono mossi, saranno allestite mostre e ci saranno eventi. Non dite che con i problemi che ci sono non è il caso di festeggiare, perché con questa logica dovremmo stare sempre in lutto stretto a piangere miseria sull’Italia, come fanno i catastrofisti della sera. Se volete trovare una formula non lesiva di nessuno, nemmeno della Lega e degli antirisorgimentali cattolici, terroni e socialisti, ripartite da lontano, dall’Italia nazione culturale, cioè dall’Italia antica e medievale, dall’Italia della lingua e della letteratura italiana, dall’Italia primatista mondiale dei beni culturali e dall’Italia erede di una civiltà giuridica e un Impero che unì i popoli, e sede di un papato universale.

Poi rendete omaggio anche a chi si oppose o patì l’Unità d’Italia, date spazio anche a letture critiche, siate inclusivi nelle celebrazioni d’Unità. Ma fate la festa all’Italia, è un buon punto per ripartire. Un sobrio amor patrio ci vuole ancora. Un Paese che non si ama non si salva.

4 NOVEMBRE 1918-4 NOVEMBRE 2010

Pubblicato il 4 novembre, 2010 in Politica, Storia | No Comments »

Messaggio del Presidente  della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate:


“Il 4 novembre di 92 anni fa aveva termine il primo conflitto mondiale e si completava il grande disegno dell’Italia unita. Oggi, all’Altare della Patria, a nome di tutti gli italiani, renderò il mio deferente omaggio a tutti coloro che sono caduti per costruire un’Italia libera, democratica e prospera.

In quel momento di commosso raccoglimento, il mio pensiero andrà in particolare ai tanti giovani che, anche recentemente, hanno perso la vita mentre assolvevano il proprio compito nelle missioni di pace. Il loro ricordo così vivo e doloroso in tutti noi ci deve indurre non a desistere ma a persistere nel nostro impegno, a moltiplicare gli sforzi, anche per onorare la memoria di quei ragazzi e dare il significato più alto al loro sacrificio, che altrimenti sarebbe stato vano.

Nell’attuale periodo storico di profondi mutamenti e drammatiche trasformazioni che mettono in pericolo i valori fondanti della nostra società e il nostro stesso benessere economico e sociale, nessun paese libero e democratico può sottrarsi al dovere di contribuire alla stabilità e alla sicurezza della comunità internazionale.

Le Nazioni Unite, l’Alleanza Atlantica, l’Unione Europea sono interpreti e strumenti operativi di questo dovere condiviso. Ed è nel quadro dei dispositivi di intervento messi in campo da queste istituzioni e sulla base di decisioni consensuali assunte nell’ambito dei loro organi collegiali di governo che le Forze Armate italiane operano insieme a quelle di moltissimi altri Stati sovrani, nel pieno rispetto dei principi sanciti dall’articolo 11 della nostra Costituzione.

È perciò dovere delle autorità politiche e militari preposte continuare ad aggiornare e migliorare strategie, strutture e capacità operative delle Forze Armate, per rendere più efficace il contrasto delle minacce da fronteggiare, garantendo nel contempo la massima protezione ai contingenti impiegati e alle popolazioni civili coinvolte.

Ma è anche dovere di tutte le istituzioni e di ogni cittadino sostenere, in Italia e nel contesto sinergico delle organizzazioni internazionali, a partire dall’Unione Europea, questo primario impegno democraticamente condiviso su scala globale.

Nella ricorrenza del 4 novembre, che quest’anno, nel quadro delle Celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, assume significato ancor più profondo, rendiamo onore ai soldati, ai marinai, agli avieri, ai carabinieri e ai finanzieri che operano nelle aree di crisi con perizia, abnegazione ed entusiasmo. Riconosciamone l’impegno e la professionalità e ringraziamoli per i progressi che ci hanno permesso di compiere verso un mondo più stabile, pacifico e sicuro.

Siamo orgogliosi di quanto essi fanno ogni giorno, in nome del nostro paese e della comunità internazionale.

Viva le Forze Armate, viva la Repubblica, viva l’Italia”.

L’ORGOGLIO DI ESSERE E DI DIRSI “DI DESTRA”

Pubblicato il 6 ottobre, 2010 in Cultura, Politica, Storia | No Comments »

di Marcello Veneziani

Che schifo, è di destra. Sono pochi a definirsi di destra ma il disprezzo per la destra è ancora forte, nota Giuliano Ferrara. Lo sappiamo, lo sappiamo. Questa legge del disprezzo vige in tutto l’Occidente, nota Ferrara; ma in Italia ancor di più. Tre cose da noi conducono al disprezzo o alla morte civile: avere opinioni contrarie al politicamente corretto e magari in sintonia con il buon senso comune, preferendo i valori tradizionali, civili e religiosi; avere un giudizio diverso sul fascismo e sull’antifascismo, ma anche sul comunismo, rispetto al canone dominante; preferire Berlusconi ai suoi avversari o ex alleati. Quest’ultima pesa di più di tutte, anche se è la meno legata ad un’identità di destra e la più contingente. Si veda, a conferma, il caso Fini&finiani: il loro recente neofascismo viene ripulito dal loro neo-antiberlusconismo. Se il fascismo è il male assoluto, il berlusconismo è il male due volte assoluto, oltre che dissoluto.
Il disprezzo verso la destra si articola in due modi: è gridato se il personaggio è più esposto in vetrina, è al potere o è più grossolano; è taciuto, per simulare la sua inesistenza, se il personaggio è meno vistoso e più sobrio, e magari pure colto. Il primo è manganellato, il secondo è cancellato.
Nonostante il livore aggiuntivo verso chi tradisce la sinistra, il disprezzo verso gli ex è dimezzato: penso a Oriana Fallaci, a Pansa, allo stesso Ferrara. Con loro c’è un minimo di colloquio, si possono citare. Gli altri no, damnatio memoriae anche da vivi: sepoltura in piena attività o vituperio urlato a mezzo stampa. Nel caso della destra grossolana che commette vistose gaffe, ci sono episodi grotteschi. Prendete Ciarrapico: socio in affari per anni della sinistra editoriale, viene ora massacrato per un’infelice battuta e ribollato come fascistone. Vorrei ricordare una cosa: quando la sinistra tifava per gli arabi e i palestinesi contro Israele, il grossolano Ciarrapico pubblicava in difesa d’Israele un libro del leader ebreo Begin La rivolta e fu Israele. Che volete, le battute valgono più delle opere. Ma torniamo al tema serio.
Chi da destra denuncia il disprezzo viene accusato anche dai cosìddetti terzisti di vittimismo. Prendi le botte e zitto, non far la vittima. Mazziato e cornuto.
Il disprezzo verso la destra è cagionato da tre agenti: una sinistra settaria e velenosa che propaga ribrezzo etnico, antropologico, per quelli di destra; l’inevitabile presenza a destra di personaggi screditati, ma questo accade quando si è in tanti e quando si va al governo; e il complice, connivente, disprezzino dei cosiddetti indipendenti, terzisti veri e presunti, a volte persino centrodestrorsi vaghi, snob o vigliacchetti. È lì che nasce la barriera del disprezzo. I suddetti a volte usano il disprezzino verso la destra come alibi per poter poi criticare la sinistra, facendosi così una polizza contro rischi. Ci sono ballerini in punta di piedi che bilanciano ogni critica a sinistra con uno sputino gentile a destra, per mostrare che loro sono in perfetto equilibrio, personcine ammodo. Per la destra colta si adeguano alla legge non scritta del potere intellettuale: morte civile. Dei tre agenti di disprezzo, questo è forse il più nocivo.
Potrei ancora aggiungere che dire destra, in effetti, è dire poco: le destre sono tante e spesso tra loro si detestano o s’ignorano. Le destre presunte o implicite sono assai più di quelle che si dichiarano tali. Ci sono almeno tre destre: la destra liberale, un po’ conservatrice sul piano dei valori, liberista in economia, anticomunista e garantista; la destra della tradizione, con significative varianti cattoliche o ribelli; la nuova destra, sociale e comunitaria, critica verso il dominio del mercato e il modello consumista. Il tratto comune delle destre è oggi il richiamo alla sovranità popolare, la preferenza per una democrazia decisionista e un amor patrio territoriale e reale piuttosto che il patriottismo costituzionale. Fini sta alla destra come la posa dell’orzo sta al caffè.

Tre destre hard ribollono nei fondali del basic instinct: la destra reazionaria, rivolta al rimpianto del passato remoto; la destra neofascista, nostalgica del passato novecentesco; la destra autoritaria, che esige legge e ordine e a casa gli immigrati. L’operazione mediatica del disprezzo riduce le destre presenti a quelle hard: sarebbe come ridurre la sinistra presente a brigate rosse, stalinismo e mao-polpottismo. Il basic istinct è sempre feroce, e cova a destra come a sinistra. Ma se fai paragoni, ti dicono che soffri di nevrosi.
Sul piano dei fatti resta vero che, alla fine, la cosiddetta destra ha commesso meno errori in campo e in teoria della cosiddetta sinistra, ha saputo cogliere meglio la realtà e dar voce ai popoli, ha più aiutato lo sviluppo ed è stata più efficace, ha saputo meglio temperare libertà e tradizione, libertà e sicurezza, e ha meno vessato, perseguitato, oppresso i cittadini. E la destra culturale si è resa meno complice di intolleranze, totalitarismi vigenti e pericolose utopie, rispetto alla sinistra culturale. La destra ha generato sicuramente meno intellettuali, ma ha prodotto meno cattivi maestri e più grandi maestri (che sono rarità ma svettano nel Novecento).
So che dire destra significa poco e produce troppi malintesi, e io parlo di destra come di una definizione che riguarda più il mio passato che il presente e il futuro. Ma davanti al disprezzo ideologico e razziale verso chi è di destra, lasciate che vi esorti alla sobria fierezza di essere e dirsi di destra.

……….Marcello Veneziani è uno dei pochi intellettuali “di destra” che rivendica orgogliosamente di esserlo. Ed è uno dei pochi intellettuali “di destra” che non strizza l’occhio a sinistra per cercare complicità e compiacimenti. Meno male che c’è Veneziani, altrimenti la destra intellettuale sarebbe ridotta ai supporter di Fini che si dicono di destra parlando il peggior linguaggio della sinistra più vetera e massimalista. Quasi a confine con le Brigare Rosse, ovviamente avendo come nemico non le mitraglie ma solo Berlusconi. g.

5 GIUGNO: L’ARMA CHE SI AMA

Pubblicato il 4 giugno, 2010 in Costume, Storia | No Comments »

5 giugno 1814 – 5 giugno 2010

I carabinieri,  da sempre tanto cari agli italiani,  festeggiano quest”anno il 196° anno della fondazione dell’Arma.  Nati come corpo d’elitè di fanteria leggera,  i Carabinieri non hanno mai perso il loro fascino, il marchio di nobiltà e di rigore che traspare dalla loro divisa.

Per rendere onore all’Arma tanto amata dagli italiani che in essa individuano il principale baluardo della libertà e dell’ordine,   pubblichiamo l’editoriale di Mario Sechi, direttore de IL TEMPO.

Carabinieri in alta uniforme Domanda: «Sechi, cosa c’è in un paese?». Risposta: «Il Comune, il prete e la stazione dei carabinieri». Non era la domanda della maestra alla scuola elementare, ma il passaggio di una riunione di lavoro di qualche anno fa con un mio editore. Si discuteva di strategia editoriale e i carabinieri fecero la loro comparsa per significare una cosa semplice: per stare nel territorio occorrono radici salde. E l’Arma le ha, tanto da essere parte del nostro immaginario collettivo, patrimonio della storia di un Paese. Mentre ci avviciniamo alla celebrazione dei 150 anni della nostra unità, dobbiamo ricordare che carabinieri sono istituzione ancor più veneranda. Il Corpo dei Reali Carabinieri fu istituito con un regio decreto il 13 luglio 1814 (il Regno d’Italia nacque nel 1861) e sono arrivati fino ai nostri tempi attraversando tutta la storia del Paese. Nati come corpo d’elitè di fanteria leggera, non hanno mai perso il loro fascino, il marchio di nobiltà e rigore che traspare dalla loro divisa. Uniforme nera, giacca con quattro bottoni argentati, berretto con la granata sormontata da una fiamma con tredici punte, Sam Browne (il cinturone a spallaccio) e pistola nella fondina.


Alzi la mano chi da bambino non si è fermato incantato. Non ho alcuna intenzione di essere o apparire retorico, ma in questi tempi di grande incertezza, in uno scenario globale difficile che tende a lacerare le identità nazionali, a disperderle, annacquarle o, peggio, addirittura minarle, i Carabinieri sono un punto fermo al quale guardare con fiducia. Gli italiani che credono ancora nelle possibilità di ripresa e riscatto della nazione, ripongono nell’Arma l’idea primaria, necessaria, irrinunciabile della sicurezza, dell’ordine, dello Stato che esiste e funziona. Qualsiasi sondaggio li vede in testa alla fiducia dei cittadini. Perchè i Carabinieri sono la casa comune della maggioranza degli italiani che non intende più essere quel «volgo disperso che nome non ha».


Proprio per questo, il nostro Paese deve guardare con attenzione all’Arma e dotarla di risorse per continuare la sua opera in patria e all’estero. L’Italia dal 2000 al 2009 secondo l’ultimo rapporto del Sipri di Stoccolma ha tagliato le spese militari del 13,3%, è il record negativo tra i Paesi che aspirano a contare nello scenario internazionale. Si può fare meglio, tagliando dove ci sono sprechi, migliorando la qualità della spesa. Ma lasciando alla Difesa – e all’Arma – le risorse per fare bene il proprio mestiere. Quale? I Carabinieri difendono la Patria. Missione di cui spesso si tende a dimenticare il senso. A questo aggiungerei che difendono anche la libertà degli oppressi, aiutano i popoli a ritrovare la pace e la democrazia. La loro efficacia nelle missioni di peacekeeping all’estero è eccezionale. Il generale americano David Petraeus qualche anno fa mi disse: «Addestrarsi con un carabiniere è come giocare a basket con Michael Jordan». Indimenticabile frase da tre punti per chi «è nei secoli fedele». Per questo l’Arma si ama. Mario Sechi.