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E’MORTO VACLAV HAVEL, IL SIMBOLO DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO CHE LIBERO’ PRAGA DAL GIOGO SOVIETICO

Pubblicato il 18 dicembre, 2011 in Il territorio, Storia | No Comments »

Morto Vaclav Havel, simbolo della Rivoluzione di Velluto

Simbolo della dissidenza anticomunista, difensore dei diritti dell’Uomo, presidente, drammaturgo e regista, Vaclav Havel, morto oggi a 75 anni, ha scritto le grandi pagine della storia del suo Paese. Artista non conformista e grande appassionato di musica rock dei Rolling Stones e di Frank Zappa, questo intellettuale, dalla figura esile, ha incarnato la “Rivoluzione di Velluto” del 1989 che ha messo fine, senza spargimento di sangue al regime totalitario di Praga. Primo presidente della Cecoslovacchia post-comunista (1989-1992) poi primo capo dello Stato della Repubblica Ceca, è stato l’artefice della democratizzazione del suo Paese e dell’adesione alla Nato (1999) e ha gettato le basi per l’ingresso nell’Unione europea, conclusa nel 2004. Dopo la fine del suo mandato, nel febbraio 2003, malgrado la sua fragile salute, il drammaturgo e ex dissidente anticomunista della Charta 77 si dedica alla lotta per i diritti dell’Uomo a Cuba, in Bielorussia, in Birmania e in Russia. Riprende a scrivere pubblicando nel 2006 le sue memorie politiche e una commedia per il teatro “Partire”, nel 2008, titolo anche del suo primo film, presentato in anteprima il 14 marzo scorso a Praga. Nato il 5 ottobre del 1936 a Praga da una famiglia benestante, proprietaria di studi cinematografici e di numerosi immobili nella capitale, Vaclav Havel è costretto a lasciare gli studi per la lotta antiborghese del regime comunista che aveva preso il potere in Cecoslovacchia. Allora comincia a lavorare nei teatri come macchinista, poi come autore del teatro dell’assurdo. Rifiuta l’esilio dopo l’occupazione sovietica nel 1968 ed entra nella dissidenza per redigere il manifesto della Charta 77, un appello per i diritti umani e per la democrazia con cui sfida la supremazia sovietica. Per il suo impegno sociale viene rinchiuso in carcere per quattro anni durante i quali scrive le celebri “Lettere a Olga”, sua prima moglie. E’ stato uno dei leader della cosiddetta “Rivoluzione di Velluto” del 1989, durante la quale viene arrestato nuovamente, il 28 ottobre. Il 29 dicembre dello stesso anno, nella sua qualità di capo del Forum Civico, viene eletto presidente dall’Assemblea Federale. Dopo la morte di Olga, nel 1996, si risposa con Dagmar Veskrnova, un’attrice di 20 anni più giovane. Una polmonite curata male in prigione e un cancro al polmone sono all’origine dei numerosi problemi di salute di cui soffriva l’ex presidente Ceco. Nel dicembre del 1996, Havel è stato operato di un cancro al polmone destro. Oltre ad avere una bronchite cronica, il drammaturgo ceco ha sofferto anche di problemi cardiaci e intestinali. Negli ultimi mesi, Havel ha trascorso il suo tempo nella casa di campagna a circa 150 chilometri da Praga, dopo un ricovero nel marzo 2011 per una grave polmonite. Sabato scorso l’ultima uscita pubblica a Praga dove ha incontrato il Dalai Lama, il capo spirituale dei buddisti tibetani. Fonte ANSA, 18 dicembre 2011

.…………..Havel era anche un valente clarinettista e gli piaceva suonare, da dilettante, in una delle più famose birrerie di Praga, la Tigre d’Oro, nei pressi della piazza Nemesti, piccola e piena di fumo. Entrandoci,  la prima cosa che noti è una grande foto sulla parete  che ritrae insieme Havel e Clinton che suonano il clarinetto. Chi ci vide ammirare la foto, in uno stentato italiano ci disse: Havel, padre della libertà. Ci piace ricordarlo così. g.

19 NOVEMBRE 1969: INIZIA L’INVERNO ROSSO DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA

Pubblicato il 19 novembre, 2011 in Storia | No Comments »

Il 19 novembre 1969 è una data che non si può dimenticare. Quel giorno, organizzato dalla Triplici Sindacale -CGIL, CISL UIL – uno sciopero generale, il primo di una lunga serie di scioperi generali  che avrebbero paralizzato l’economia e distrutto un grande patrimonio imprenditoriale,   fermò l’Italia  del dopo boom economico dei primi anni 60. In tutta Italia le città e le fabbriche furono paralizzate dalla violenza organizzata che dapprima impedì a chi voleva lavorare di farlo e poi imperversò su tutto ciò che incontrava sulla propria strada. A Milano, la città più rossa e più calda di quell’inverno indimenticato, cadde sul selciato, vittima della violenza organizzata nell’ambito delle manifestazioni sindacali, un giovane poliziotto neppure ventenne, si chiamava Antonio ANNARUMMA. Ne ricordiamo il nome e il sacrificio per rendere omaggio a tutti coloro che in divisa da allora in poi hanno difeso le Istituzioni dello Stato e hanno impedito che la violenza avesse il sopravvento. Il sacrificio del giovane poliziotto non fu purtroppo nè l’unico nè l’ultimo perchè nel decennio  successivo, sino alla barbara uccisione di Aldo Moro, il Paese fu vittima di una indiscriminata violenza e di altrettanti esacrandi atti di terrorismo ad opera delle Brigate Rosse e dei loro epigoni. Solo il coraggio e la grande determinazione degli italiani impedì che  tutto ciò sfociasse in una vera e propria guerra civile, salvando la democrazia liberale e la libertà di tutti.

4 NOVEMBRE 2011: GIORNO DELL’UNITA’ NAZIONALE E GIORNATA DELLE FORZE ARMATE

Pubblicato il 4 novembre, 2011 in Cronaca, Storia | No Comments »

4 novembre: “Giorno dell’Unità Nazionale” e “Giornata delle Forze Armate”

Le celebrazioni del 4 novembre, “Giorno dell’Unità Nazionale” e “Giornata delle Forze Armate’”, sono iniziate questa mattina alle 09.00, con la cerimonia dell’alzabandiera e la deposizione di una corona di alloro al Sacello del Milite Ignoto presso l’Altare della Patria, da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.


Il Capo dello Stato è stato accompagnato, oltre che dal Ministro della Difesa Ignazio La Russa, dai Presidenti del Senato e della Camera,   dal Presidente della Corte Costituzionale  e dal Capo di Stato Maggiore della Difesa Gen. Biagio Abrate. Alla cerimonia hanno altresì partecipato Autorità politiche, civili, religiose, i Vertici delle Forze Armate e numerosi cittadini.

Successivamente il Presidente della Repubblica, insieme con il Ministro della Difesa, si è recato al Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.


…………Alle 11 di questa mattina il Capo dello Stato, on. Giorgio Napolitano, dopo la l’Omaggio all’Altare della Patria, ha fatto il suo ingresso, accompagnato dal Ministro dell Difesa on. Ignazio Larussa, nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove riposano le salme di 70 mila Caduti della 2° Guerra Mondiale, la maggior parte delle quali provenienti dai campi di battaglia del Mediterraneo, delle Isole greche, dell’ex Africa Orientale Italiana. Il Presidente della Repubblica ha deposto una corona d’alloro, raccogliendosi  in silenzio dinanzi ai Caduti, prima che il Ministro della Difesa pronunciasse un breve discorso.

E’  stata la prima volta che un Presidente della Repubblica ha partecipato  al Sacrario di Bari alla solenne cerimonia di omaggio ai Caduti nella ricorrenza del 4 Novembre. Siamo particolarmente grati al Presidente Napolitano per questo suo atto  di grande rispetto per i Caduti che a Bari, sulle sponde dell’Afriatico, riposano  per sempre di fronte al mare che attraversarono, pieni di speranza e forti della loro giovinezza, ignari della sorte e della morte cui andavano incontro,  caduti combattendo a testa alta contro il nemico. Tra tutti, e tutti meritevoli della nostra ammirazione e della nostra gratitutudine, ricordiamo i Caduti della Divisione Acqui, immolatisi a Cefalonia, subito dopo l’8 settembre, testimoniando con il loro Sacrificio che la Patria non era morta e che anzi essa risorgeva nel sangue della loro Fede. Tra i tanti della Divisione Acqui, che riposano lì, nel Sacrario che fu inaugurato nel 1967,   le cui spoglie furono accolte a Bari, nell’ormai lontano 1953, in una atmosfera di straziante commozione,  dal presidente Luigi Einaudi, v’è anche la salma del nostro concittadino Marcello Bonacchi, Medaglia d’Oro al Valor Militare. Fu sua madre che  fortissimamente volle che la salma dell’Eroe riposasse per sempre insieme a quelle dei suoi soldati, quelli che con l’esempio  aveva incitato a resistere difronte al soverchiante nemico, e degli altri sfortunati commilitoni. L’omaggio del Presidente Napolitano è l’omaggio di tutta la Nazione, di tutto un Popolo, di tutti noi che mai abbiamo rinunciato, neppure per un istante della nostra vita, ad aver fede nella Patria. Grazie, Presidente. g.

P.S. Domenica 6 novembre, con inizio alle ore 10 presso il Comune, avrà luogo la cerimonia commemorativa del 4 Novembre  organizzata dal Comune di Toritto, per conludersi alle ore 11,30 con l’omaggio alla lapide del Milite Ignoto.

IL PRESIDENTE NAPOLITANO DOMANI A BARI AL SACRARIO DEI CADUTI D’OLTREMARE

Pubblicato il 3 novembre, 2011 in Storia | No Comments »

Giorgio NapolitanoGiorgio Napolitano

BARI – Sarà una prima volta. Sulla grande spianata di granito davanti al colonnato che guarda il mare, dove nelle canoniche ricorrenze del 25 aprile e del 4 novembre si sono succeduti presidenti del Senato e della Camera, presidenti del consiglio e ministri della Difesa, domani per la prima volta sarà il Presidente della Repubblica a onorare, in occasione della festa delle Forze Armate, gli oltre 70mila soldati italiani che riposano nel Sacrario Militare dei Caduti di Oltremare. Questa piccola e severa città dei morti, immersa nel verde di un giardino curatissimo a Sud della città (in una zona sempre meno periferica, dove presto sorgerà la nuova sede del Consiglio regionale e stanno per trasferirsi gli assessorati) è un’oasi di rispetto e silenzio più frequentata di quanto si potrebbe immaginare. C’è sempre qualcuno in visita: famiglie di caduti, anziani commilitoni, qualche scolaresca, curiosi. Si percorrono gli alti ambulacri che circondano il cortile centrale sovrastato dalla croce, lo sguardo cade sulle scritte che ricordano i diversi teatri di guerra da dove sono rientrate le spoglie dei caduti, sui nomi che identificano i loculi, sugli elenchi interminabili dei quarantamila dei quali dall’Albania, dalla Jugoslavia o dalla Grecia, dal Nordafrica o dall’Africa Orientale, dalla prigionia in Germania o dalle isole dell’Egeo non è tornato neanche il corpo (o non lo si è potuto identificare), sulla lapide trilingue che in italiano, arabo e amharico ricorda gli ascari libici ed etiopici caduti combattendo «per l’Italia».

Il Sacrario
Il Sacrario

E si riflette, e ci si commuove, anche, pensando a quelle vite travolte dalla guerra. È un luogo di raccoglimento, riparato, per forza di cose, dagli inganni della retorica patriottarda, che fa gioco forza capolino per esempio a Redipuglia, il sacrario dei caduti italiani nella Grande Guerra. Perché il Sacrario di Bari è dedicato ai caduti di una guerra perduta e per di più combattuta dalla parte sbagliata, alle vittime della sconfitta di un delirio imperiale ancorché subalterno e velleitario. E gioco forza emerge ancora più netto il valore del sacrificio di una generazione intera, mandata a morire sugli altopiani di Abissinia, nelle sabbie della Libia, nel fango dei Balcani, nel gelo della Russia. Ed è anche, fino nella sua ideazione e anche al di là, forse delle intenzioni dei comandi militari che lo vollero, un singolare monumento antifascista ai caduti della guerra fascista. Che è sorto a Bari perché a Bari, da dove in tanti erano partiti per le avventure balcaniche d’Albania e di Grecia, tornarono in una livida giornata di marzo del 1951, accolte dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi, le salme dei caduti di Cefalonia, i soldati e gli ufficiali dela Divisione Acqui trucidati dai tedeschi dopo una settimana di resistenza sull’isola ionia all’indomani dell’armistizio. Il mesto corteo degli autocarri dell’esercito percorse tra due ali di folla sgomenta il lungomare e poi le strade cittadine fino al cimitero civile dove furono deposte in un monumento provvisorio. Fu allora che si decise di concentrare a Bari in un apposito cimitero militare le spoglie mortali che pietosamente venivano raccolte su tutti i teatri d’Oltremare nei quali avevano operato le forze armate italiane. L’opera fu affidata a Paolo Caccia Dominioni, l’architetto-alpino che già aveva progettato il sacrario di El Alamein e fu inaugurata il 10 dicembre del 1967. Nei primi anni erano davvero tanti i visitatori: in fondo la stragrande maggioranza di coloro che sono sepolti a Bari è morta a vent’anni o poco più, ed erano tanti i genitori, i fratelli, le mogli e i commilitoni sopravvissuti ai loro cari.

Oggi, quarantacinque anni dopo, il flusso si è ridotto, ma mai interrotto. Poi ci sono le cerimonie ufficiali, sempre onorate dalle massime autorità dello Stato, e la particolarità barese che voleva in prima fila ogni 25 aprile e ogni 4 novembre la bandiera e il medagliere dell’Associazione partigiani, perché lì ci sono i morti di Cefalonia, ovvero cinquemila morti che negano in radice i ragionamenti specularmente opposti e faziosi tesi a negare il carattere nazionale della Resistenza. Non è dunque un caso che Giorgio Napolitano abbia inserito questa “prima volta” di una giornata delle Forze Armate con il Presidente della Repubblica a Bari, in un viaggio in Puglia dalla fortissima caratterizzazione antifascista: domani, dopo la cerimonia in via Gentile, la tappa in piazza Umberto per onorare il monumento ai Caduti del 28 luglio 1943, poi, l’indomani, la visita al carcere di Turi e alle celle di Gramsci e Pertini e la partecipazione alla commemorazione di Giuseppe Di Vagno a Conversano, nel 90° anniversario del suo assassinio. Perché il sacrificio di quei 70mila ha un senso solo nell’Italia libera che tante radici ha nella nostra Puglia. Luigi Quaranta,Il Corriere del Mezzogiorno, 3 novembre 2011


IL MILITE IGNOTO E LA FOLLA, QUEL TRENO COME NEL 1921

Pubblicato il 1 novembre, 2011 in Costume, Storia | No Comments »

90 anni fa, un treno speciale, trasportò da Aquileia a Roma, la salma del Milite Ignoto, scelta tra altre undici dalla mamma di un Caduto ignoto nella Basilica di Aquileia, per essere tumulata nell’Altare della Patria, a Roma, a rappresentare i 650 mila Caduti della Grande Guerra, e più in generale tutti i Caduti per la Patria. In occasione dei 150 dell’Unità Nazionale, un treno della memoria sta ripercorendo il tragitto di 90 anni fa, salutato ovunque dai tanti che si affollano lungo il pecorso, proprio come 90 addietro. Questo articolo di Aldo Cazzullo, pubblicato oggi sul Corriere della sera, ne fa una cronaca commovente ed emozionante.

Da Aquileia a Roma, si ripete il rito collettivo

Il treno con a bordo la mostra itinerante (eIDON)
Il treno con a bordo la mostra itinerante (eIDON)

«Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia, io non sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia. Addio, mia madre amata…».

La folla che da tre giorni accorre nelle stazioni del Friuli e del Veneto - in migliaia alla partenza da Cervignano, binari bloccati a Conegliano dove il treno è stato costretto a una sosta non prevista, altri capannelli commossi a Udine, Treviso, Venezia, Padova, Rovigo, Bologna – forse non ha mai letto la lettera di Antonio Bergamas alla madre Maria, la donna incaricata novant’anni fa di indicare il Milite Ignoto che riposa all’Altare della patria a Roma. Eppure in tantissimi, molti più delle previsioni, hanno sentito di dover salutare il passaggio del «treno della memoria», che rievoca il viaggio compiuto nel 1921, in questi stessi giorni, dalla tradotta con la bara del soldato che rappresentava tutti i 650 mila caduti italiani. Antonio Bergamas era uno dei duemila volontari partiti da Trento e Trieste: sudditi austriaci, che l’imperatore mandava a combattere in Galizia, contro i russi, o in Serbia. Ma in duemila disertarono, e andarono a combattere con gli italiani, contro gli austriaci, andando verso morte quasi certa: se anche sopravvivevano agli assalti, non venivano fatti prigionieri ma impiccati, come Cesare Battisti.

La mostra dentro il treno della memoria (Eido
La mostra dentro il treno della memoria (Eido

Il figlio di Maria Bergamas cadde sul Carso, nel 1915. Sette anni dopo, la donna fu portata nel Duomo di Aquileia, davanti a undici bare di ragazzi sconosciuti, come suo figlio. Lei si tolse lo scialle nero, e lo posò sulla seconda bara. A quel punto il cerimoniale tentò di farla uscire. Ma lei volle salutare anche gli altri caduti, come per chiedere scusa di non aver scelto loro. Arrivata davanti all’ultima bara, si accasciò per l’emozione. Poi si riprese, visse ancora una vita lunga, morì nel ‘54, e ora riposa nel cimitero di guerra di Aquileia, accanto agli altri dieci militi ignoti.

Il feretro del prescelto partì per Roma in treno. Fu un rito collettivo, un funerale di massa. L’identificazione del Milite Ignoto con i propri cari fu tale che una madre pretendeva di far aprire la cassa, certa di trovarvi i resti del figlio. Tra Aquileia e Roma, il treno si fermò in 120 città e paesi, dove sindaci e cittadini riempirono il convoglio con oltre 1.500 corone, sotto lo sguardo di folle inginocchiate. A Roma il treno arrivò il 2 novembre. Alla stazione Termini lo attendevano il re con la famiglia e i 335 vessilli dei reggimenti schierati nella Grande Guerra. La bara fu portata su un affusto di cannone nella basilica di Santa Maria degli Angeli, dove vennero celebrate le esequie. Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria, alle 10 e mezza del mattino, il Milite Ignoto fu deposto in un loculo sotto la statua della Dea Roma. Vittorio Emanuele III lasciò una medaglia d’oro. Poi gli argani lasciarono cadere la lastra di marmo.

Anche stavolta il «treno della memoria» arriverà a Roma il 2 novembre, accolto dal capo dello Stato, dopo la sosta a Firenze. È composto da tre vagoni che ospitano una mostra, più un quarto allestito come sala di proiezione di filmati e una riproduzione del vagone che portò la bara, con un affusto di cannone d’epoca, il braciere e la teca con la bandiera originali. Non esattamente un’attrattiva per i curiosi. Piuttosto, un simbolo. Che ha avuto un’accoglienza commossa e sorprendente; a cominciare dal Nord-Est, dove la Lega è il primo partito e alla partenza non ha mandato nessun rappresentante, senza che l’ennesima inutile polemica turbasse l’atmosfera di raccoglimento e di rispetto.

Anche questo è un segno del successo dei 150 anni dell’unificazione; tanto più significativo in quanto la memoria diretta della Grande Guerra si è spenta, gli ultimi fanti se ne sono andati uno dopo l’altro negli anni scorsi, e la memoria dei sacrifici e dei patimenti può vivere solo nei segni, nei racconti, nelle carte. Come la lettera che Antonio Bergamas scrisse alla madre, per spiegarle la sua scelta di andare a morire dalla parte degli italiani: «Perdonami dell’immenso dolore ch’io ti reco e di quello ch’io reco al padre mio e a mia sorella, ma, credilo, mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro, per la Patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una Patria che non era la mia e che io odiavo. Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio».  Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 1° novembre 2011

E’ MORTO STEVE JOBS, PADRE VISIONARIO DI APPLE

Pubblicato il 6 ottobre, 2011 in Cronaca, Economia, Storia | No Comments »

di Ugo Caltagirone

NEW YORK – Steve Jobs, il ‘visionario della Silicon Valley’ e’ morto a 56 anni. Lo scorso 25 agosto aveva annunciato le sue dimissioni irrevocabili da amministratore delegato dell’azienda che ha fondato e che dall’orlo della bancarotta ha portato nell’Olimpo delle grandi. Quarantun giorni dopo e’ arrivata la tanto temuta quanto attesa notizia. A finirlo e’ stato quel male che per anni lo ha tormentato e lentamente consumato. Ma che non gli ha impedito di continuare a esercitare la sua straordinaria leadership e genialita’.

Caratteristiche che lo hanno portato, con le sue invenzioni, a rivoluzionare la vita di milioni di persone. L’annuncio arriva con uno stringatissimo comunicato del gruppo californiano. Ma in contemporanea sul sito appare una foto in bianco e nero di Jobs con la data di nascita e quella della morte. A seguire un messaggio: ”Apple perde un genio creativo e visionario, e il mondo ha perso un formidabile essere umano”.”Quelli di noi che hanno avuto la fortuna di conoscerlo abbastanza e di lavorare con lui – si legge – hanno perso un caro amico e un mentore ispiratore. Steve lascia una societa’ che solo lui avrebbe potuto costruire e il suo spirito sara’ sempre il fondamento di Apple”’.
A prendere in mano le redini dell’azienda e’ stato gia’ da tempo Tim Cook. Ma Jobs lascia un vuoto incolmabile tra i suoi collaboratori, come tra i milioni di fan. Ora tutti, soprattutto i piu’ giovani, lo conoscono come l’inventore della ‘tavoletta magica’. Con l’iPad e l’iPhone ha infatti rivoluzionato il mondo della tecnologia e delle comunicazioni. Con l’iPod quello della musica. Ma fu lui che nel 1977 – dopo aver creato la Apple insieme all’amico Steve Wozniak – lancio’ il primo personal computer della storia. La marcia era appena cominciata. Lascio’ la Apple nel 1985, in polemica con l’amministratore delegato da lui stesso nominato. Quando fu richiamato nel 1996 l’azienda di Cupertino era in profonda crisi, e Jobs in quindici anni l’ha trasformata nella societa’ piu’ ricca del pianeta. Nel 2007 la rivista Fortune lo ha indicato come l’uomo d’affari piu’ potente del mondo: il suo rivale di sempre, il fondatore di Microsoft Bill Gates, fini’ solo sesto. Nel 2010 – quando gia’ la malattia lo aveva allontanato da ogni ruolo operativo in Apple – il Financial Times ha eletto Jobs uomo dell’anno, riconoscendo la sua capacita’ di riportare in vetta un’azienda raccolta sull’orlo del fallimento.
Con l’iPhone e l’iPad ha realizzato il suo sogno del ‘piccolo schermo’, di un mondo al di la’ del computer e senza Windows. Non a caso il sorpasso sulla rivale Microsoft per valore di mercato e’ oramai da tempo compiuto. Sempre il Financial Times lo defini’ ”la prima rock star dell’industria high-tech” per la sua abitudine – oramai copiata da tutti – di presentare ai suoi fan tutte le novita’ della casa dal palco di un teatro. Ma anche per aver portato Apple in Borsa a soli 25 anni: prima di quanto non abbia fatto Mark Zuckerberg con Facebook. Qualcuno lo ha descritto come un ‘tiranno’ nei confronti dei suoi collaboratori e dipendenti. Ma la verita’ – spiega la maggior parte degli osservatori – e’ che in un momento di grande crisi economica e occupazionale in America, Jobs, a differenza di tutti gli altri Ceo, ha continuato a creare posti di lavoro. E probabilmente la Apple ne continuera’ a creare ancora malgrado la morte del suo ‘genio’, grazie alla sue ultime creature: l’ultimo modello di iPhone, presentato appena ieri, e la terza terza generazione dell’iPad che dovrebbe vedere la luce all’inizio del prossimo anno. ANSA,  6 OTTOBRE 2011

QUELLI CHE DISSERO DI NO…IL NUOVO LIBRO DI ARRIGO PETACCO

Pubblicato il 27 settembre, 2011 in Cultura, Il territorio, Storia | No Comments »

Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e anericani.

Il più famoso è il Duca D’Aosta, l’eroe dell’Amba Alagi, al quale gli inglesi, dopo la strenua resistenza,  resero gli onori delle armi prima di deportarlo in India in un campo di prigionieri di guerra non cooperatori. Ad un generale suo sottoposto che gli proponeva di allearsi con gli inglesi, il Duca rispose: “dovrebbero arrestarci entrambi, lei che ha parlato ed io che l’ho ascoltata”. Il Duca non rientrò mai in Italia, morì di malaria in prigionia, in quel campo di non cooperatori, uno dei tanti allestiti da inglesi e americani,  dove tantissimi soldati italiani, dopo l’8 settembre, rimasero prigionieri, taluni per molti anni, prima di rientrare in Patria, senza aver accettato di cooperare con i vincitori. A narrarre la loro storia, a ricordarne i nomi, da Alberto Burri a Giuseppe Berto, a Gaetano Tumiati,   da Walter Chiari e Raimondo Vianello,  entrambi arruolatisi nella RSI, ignorati dalla pubblicistica della Resistenza  e liquidati come fascisti irrecuperabili,  è il libro di Arrigo Petacco, da oggi in libreria, dal titolo emblematico: Quelli che dissero di no. 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, edito da Mondadori, 19 euro. “E’ un libro che fa male ai sentimenti questo di Petacco, ha scritto nel recensirlo Pietrangelo Buttafuoco. E’ documentato, e ogni pagina diventa sceneggiatura di un film, di un documentario, di un tornare dentro le profondità del nostro essere italiani e cavarsene fuori col terrore di non essere  oggi all’altezza di quella dignità e di quel coraggio o di quella spavalderia. Come fuggirsene dal campo di prigionia in Kenya per scalare il monte omonimo solo per piantare in cima il tricolore e magari finire in una tavola di Achille Beltrami sulla Domenica del Corriere”. E aggiunge Buttafuco ” non c’è il ritratto autoassolutorio degli italiani brava gente in Quelli che dissero di no. C’è al contrario, il racconto degli “italiani di carattere”, quelli della strada impervia, straordinari a dimostrare quanto fosse vera la parola d’ordine del credere, obbedire combattere,  rispetto alla disfatta fin troppo facile della stragrande maggioranza dei voltagabbana, tanti al punto di raccapricciare lo stesso nemico che, per la prima volta nella storia, s’impegna a rieducare il prigioniero, a trasformarlo in un cobelligerante. Tutto ciò mentre pochi uomini sdegnosamente rifiutavano l’elemosina di trasformarsi da vinti in vincitori. Ci sono pagine commoventi in questo libro così estraneo all’albertosordismo fino a diventare contravveleno alla vulgata ufficiale sull’esercito sconfitto”.  E, conclude Buttafuoco, “c’è ovviamente la storia mai conosciuta  in questo libro vivo come un racconto fatto a voce.” La storia, vogliamo sottolinearlo,  di uomini, noti e meno noti, che nei  campi della prigionia, furono protagonisti di testimonianze di ordinaria normalità, tanto ordinaria da sfiorare l’eroismo, come il colonnello Paolo Sabbatini, medaglia d’oro al valore militare, prigioniero in un “fascist kriminal camp” detenuto alle pendici dell’Himalaia in India,  non collaborazionista, che come tutti gli altri prigionieri  bruciava le lettere che gli arrivavano da casa per non  farsi prendere dalla nostalgia.  così resistere alla richiesta di farsi traditore, o come Beppe Niccolai, futuro fondatore del MSI e il tenente Giovanni Dello Jacovo, futuro deputato del PCI, entrambi, nello stesso campo,  non collaboratori, che si meritarono dagli stessi carcerieri  una medaglia di riconoscimento:” You are true soldiers”.  E’ un libro,  però, avverte   Buttafuco, “di straordinaria attualità in queste giornate in cui tutti attendono un nuovo Dino Grandi e ci aiuta a non poco a scandagliare la psicologia di noi italiani, sempre in bilico tra fedeltà e mugnugno, nell’eterno contrappasso”.  Un libro da leggere e da meditare. g.

……………Anche  molti soldati torittesi furono prigionieri non cooperatori, alcuni in India, altri in America.  Fra questi,  una  indimenticata figura  della politica locale, Francesco Giannini, don Ciccio per tutti, icona storica della Destra torittese. Catturato in Africa,  fu prigioniero in un “fascist kriminal camp” in India, non cooperatore e non collaborazionista, e ricordava  sempre con orgoglio questa sua scelta, sebbene gli fosse costata il rientro in Patria con molto ritardo, nel 1949. Gli fummo molti vicini e ora ci piace ricordarLo in occasione della recensione del libro di Petacco dedicato ai  soldati italiani prigionieri non cooperatori.g.

11 SETTEMBRE, IL GIORNO DEL RICORDO: OBAMA E BUSH INSIEME A RENDERE OMAGGIO AI CADUTI

Pubblicato il 11 settembre, 2011 in Politica, Storia | No Comments »

11 Settembre, il giorno del ricordo: Obama con Bush a Ground Zero
Una ferita ancora aperta, un ricordo che non potrebbe essere più vivo. Dieci anni dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle del World Trade Center e al Pentagono l’America si ferma per ricordare le quasi tremila vittime e l’eroismo dei passeggeri e dell’equipaggio dell’aereo schiantatosi al suolo in Pennsylvania, impedendo ai dirottatori di raggiungere il quarto obiettivo, sempre rimasto ignoto. Mentre il vicepresidente Joe Biden era al Pentagono e a Shanksville, in Pennsylvania, iniziavano le altre cerimonie di commemorazione, migliaia di persone si sono raccolte a Ground Zero, dove è stato inaugurato il National Semptember 11 Memorial, una piscina con un buco quadrato in mezzo, all’interno del quale cade a cascata acqua, ai piedi della Freedom Tower che pian piano sta salendo verso il cielo: è il simbolo del vuoto lasciato dalle torri nel cuore della città e dalle vittime nel cuore delle loro famiglie, ma anche il simbolo della rinascita di New York. I nomi sono tutti scolpiti nel bronzo: qualcuno li accarezza lievemente, si porta la mano alla bocca in un rapido bacio, si asciuga le lacrime. Alla cerimonia di Ground Zer, alle  8,46, ora americana, ora del primo attacco alle Due Torri,  c’erano il presidente americano Barack Obama e la first lady Michelle, arrivati mano nella mano, vestiti di nero, e accompagnati dall’ex presidente George W. Bush, con la consorte Laura. Si sono fermati davanti al monumento, poi hanno proseguito fianco a fianco: oggi non c’è spazio per le divisioni politiche, non c’è spazio per i dissapori e le divergenze. Oggi gli americani sono una sola persona. Sul palco Obama ha letto un passo del Salmo 46, Bush un passaggio di una lettera scritta da Abraham Lincoln a una donna che ha perso cinque figli durante la Guerra Civile (nota a margine: l’ex presidente è stato accolto dagli applausi, Obama no). Il presidente ha poi lasciato Ground Zero: sta volando a Shanksville, dove deporrà una corona di fiori sul monumento dedicato alle vittime, poi tornerà a Washington dove prima sarà al Pentagono quindi, questa sera (la notte italiana) parteciperà al concerto di commemorazione al Kennedy Center. C’erano anche il sindaco di New York Michael Bloomberg e il suo predecessore Rudy Giuliani, che ha letto un passaggio dall’Ecclesiaste, c’erano il governatore dello stato Andrew Cuomo e George Pataki, in carica durante gli attentati, per una cerimonia vibrante. A Ground Zero sono risuonate anche le parole, in italiano, di una donna che negli attacchi ha perso la figlia: “Laura ti voglio tanto bene, sarai sempre nel mio cuore”, ha detto. La cerimonia è stata trasmessa sui megaschermi di Times Square, dove le bandiere sono a mezz’asta, come nel resto della città: un passante, Edward Harkewicz, 65 anni, guarda le immagini, in lacrime: “ero qui quel giorno, dovevo essere qui oggi. La mia città era sotto attacco, ricordo come mi sono sentito. Ricordo il dolore, ricordo il senso di vuoto e di perdita”. Oggi è il giorno del ricordo, del rimpianto, ma anche della voglia di risalire.

11 SETTEMBRE DIECI ANNI DOPO: LE TORRI DISTORTE (e noi siamo sempre piu’ occidentali)

Pubblicato il 11 settembre, 2011 in Costume, Politica estera, Storia | No Comments »

Dieci anni dopo, l’11 Settembre per molti è un pezzo polveroso di storia. Punto di svolta della contemporaneità, è stato rubricato alla sola voce “guerra” da alcuni, “shock” da altri, ma pochi finora hanno cercato di inquadrarlo come uno dei picchi sismografici di un ciclo che viene da lontano. L’abbattimento delle Torri Gemelle è un’icona dell’immaginario del Ventunesimo Secolo. Il prodotto della diffusione e dispersione dei fatti in immagini. Meno testo scritto e più pixel. Meno parole e più bit. È la dissoluzione del racconto e del senso delle cose. Torri che crollano. Migliaia di volte in tv. Show e assuefazione. Torri distorte. George Steiner nelle prime pagine del suo libro «Nel castello di Barbablù», racconta come l’uso massiccio della posta a cavallo e la dimensione di massa delle guerre napoleoniche abbiano modificato la percezione della realtà. Bonaparte non era solo un formidabile artigliere, ma un uomo della Storia. Mentre Kant e Hegel scrivevano pilastri della filosofia, cannoni e baionette dell’Armèe riordinavano l’Europa. E le notizie galoppavano.
L’informazione/deformazione ha accelerato non solo i processi di incontro e creazione, ma anche di conflitto e distruzione. L’11 Settembre 2001 è stata la prova generale di una società occidentale iperconnessa che conosceva il male di un mondo sconnesso, quello dei talebani e di Osama Bin Laden. L’era degli shock globali si è trasformata in un videogame dove l’Occidente ha cominciato a ripiegare su se stesso.
Quella che alcuni polemisti hanno chiamato la “cultura del piagnisteo” si è diffusa e un micidiale senso di colpa ha pervaso l’animo di chi aveva portato la bandiera del self made man ovunque nel mondo. Questa ritirata delle forze della libertà continua e appare inarrestabile.

La Storia ha virato a Est lasciando l’Ovest scoperto e debole. Il Sud del mondo preme a Nord e la Terra di Mezzo d’Oriente è una polveriera. L’Egitto è un monito per tutti, ci insegna che le minacce covano anche tra i gelsomini, mentre Teheran presto avrà la Bomba e noi, dieci anni dopo, non sappiamo che fare.  Mario Sechi, Il Tempo, 11 settembre 2011 (nella foto: la mattina del 12 settembre 2001 tre pompieri di New York issano la bandiera americana  sulle macerie delle Due Torri a sottolineare l’immediata volontà del mondo libero stretto intorno agli Stati Uniti di non arrendersi al terrorismo)

.……Il decennale della tragedia dell’11 settembre ha vari modi per essere raccontato. Sechi ha scelto quello che a noi sembra il più realistico. Ha tralasciato la facile retorica con cui molti, sia mass-media che politici di ogni genere, da giorni e stamattina ancor più, hanno scelto di ricordare la tragedia che dieci anni fa sconvolse il mondo e lo cambiò. Sechi ha scelto di raccontare come il cambiamento del mondo continui nella direzione che gli attentatori avevano in mente. Non erano profeti ma di certo il loro intento, quello di sconvolgere la vita degli uomini e dell’Occidente, oltre che dell’America, appare perseguito da ciò che nel mondo sta accadendo, con il passaggio di ruolo guida, prima ancora che militare, economico (posto che è  l’economia a indirizzare e determinare le opzioni anche militari, come la recente vicenda della Libia ha dimostrato…)  dall’Ovest all’Est, con la Cina che possiede buona parte del debito pubblico americano e con i paesi emergenti dell’est asiatico  che si muovono da protagonisti sugli scenari del mondo. I principali attori  occidentali del momento, ad  iniziare da Obama con tutte le delusioni che ha provocato, preferiscono la retorica alla realtà, preferiscono nascondersi dietro le commemorazioni piuttosto che affrontare la realtà e tentare di invertirne la tendenza, per restituire all’Occidente il ruolo di centralità che può garantire gli equilibri mondiali con l’Occidente capace di fermare le invasioni dal’est. Ma ora non basta la retorica, non sono sufficienti le commemorazioni, occorrono decisioni coraggiose e determinate, sono necessarie scelte che impediscano al mondo di andare alla deriva. Per questo bisogna lavorare e per questo, così come dieci anni fa, insieme a tutto il mondo,  ci dichiarammo orgogliosamente americani, oggi altrettanto orgogliosamente ci dichiariamo  occidentali. g.

I VOLTAGABBANA DI TRIPOLI? DA BRUTO A FANFANI STORIA -ED ELOGIO! – DEI TRASFORMISTI

Pubblicato il 28 agosto, 2011 in Costume, Politica, Storia | No Comments »

Un po’ sfacciatella,nel suo cambio di casac­ca, la giornalista televisiva libica Hala Mi­srati lo è indubbiamente stata. Presentata­si in video con pistola in pugno ed espressione eroica, una settimana fa si dichiarò pronta a esse­re martire della causa di Gheddafi. Adesso, dopo l’arresto, gli si è rivoltata contro e parla di «regime del tiranno». Una bella faccia tosta da affiancare ad altre facce non meno toste. Come quelle del pri­m­o ministro del governo transitorio Mahmoud Ji­bril, o di Mustafa Jalil presidente del Cnt, un tem­po entrambi ferventi seguaci del Colonnello. I ripensamenti libici non sono che gli ultimi esempi d’una cultura del voltagabbanismo che percorre tutta la storia millenaria delle relazioni tra potentati e tra potenti. Tanto da sollecitare un interrogativo che i moralisti della politica potran­no anche ritenere improponibile, ma che a me sembra invece molto sensato. I voltagabbana so­no stati e sono, negli eventi dei popoli, una vergo­gna, o una risorsa, o tutte e due le cose in­sieme? Prendiamo proprio il caso libi­co. A chi è meglio affidarsi, per assi­curare una transizione morbida, senza ammazzamenti rappresa­glie e vendette dalla dittatura di Gheddafi al regime prossimo ven­turo? Non certo ai fanatici del fon­damentalismoislamicoche, incor­rotti e incorruttibili, aspirano a in­staurare in Libia, e possibilmente dovunque, clericocrazie autorita­rie, munite di temibili polizie per la salvaguardia dei costumi e del cora­no. E nemmeno a intellettuali elita­ri che sognano per il terzo mondo istituzioni ricalcate sul modello delle più solide e antiche democra­zie. I traghettatori lì si sono dovuti cercare-nella speranza d’averli tro­vati- altrove: proprio tra gli ex preto­riani e cortigiani del raìs sconfitto. Infatti è di là che viene il nerbo della nuova- si fa per dire- dirigenza libi­ca. Tutti ostentano buoni motivi per i loro pentimenti, ci sono i trom­bati con il dente avvelenato, ci so­no i furbi che hanno subodorato il fatale declino d’un despota in sella da 42 anni, ci sono gli acrobati del salto all’ultima ora,appena in tem­po per accodarsi alla turba inneg­giante ai vincitori e imprecante contro lo sconfitto. Saranno loro, forse,cherisparmierannoall’Occi­dente il pericolo di trovarsi di fron­te, sulla sponda africana, un bloc­co politico-religioso intollerante e aggressivo. I voltagabbana come lubrifican­te della storia. Può essere sconfor­tante ammetterlo ma è così. Si può tradire per mille diversi motivi, per i più nobili ideali come Bruto: o per venalità come i condottieri rinasci­mentali che si mettevano al servi­zio di questo o quel signore dietro lauto pagamento: o per alti e anche lodevoli disegni politici. Si diceva d’un principe di casa Sa­voia che non finisse mai una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva co­minciata, e se questo ac­cadeva era perché ave­va cambiato campo due volte. In determinate epoche, prima cioè che la politica e i conflitti ve­nissero rivestiti a torto a ragione di panni ideali, queste trasmigrazioni erano normali. Apparte­nevano alla lotta per il dominio e per il potere. Machiavelli ha dato si­stematicità e dignità a questo brutale procede­re degli avvenimenti che coinvolgono i re­gnanti, a Cesare Borgia detto il Valentino nessu­no avrebbe mai chiesto d’essere coerente, gli si chiedeva d’essere – e non lo fu – vincente. La figura del voltagab­bana- o se vogliamo del mercenario militare, pronto a mettere la sua spada al servizio del mi­gliore offerente – si è in­cupita e avvilita quando l’ideologia ha rivestito di fini salvifi­ci o patriottici le guerre, le conqui­ste, le vittorie, le sconfitte, i patteg­giamenti. Fu esaltata la resistenza della Francia rivoluzionaria all’as­sedio dell’ancièn régime. Ma toccò proprio a Napoleone I,l’erede del­la Rivoluzione che ne portò in tutta Europa il verbo – seppure correda­to di ori imperiali – di patire i più brucianti abbandoni. Quello del maresciallo Ney che passò ai reali­­sti, nei cento giorni dopo la fuga dal­l’-Elba tornò agli ordini di Napoleo­ne e, dopo Waterloo, fu infine dai re­alisti fucilato per tradimento. Ci vuole, per sopravvivere come volta­gabbana, un talento che a Ney man­cava. O quello-l’abbandono-di Char­les Maurice Talleyrand, volta a vol­ta vescovo, rivoluzionario, mini­stro bonapartista, orditore di com­plotti contro Napoleone, rappre­sentante della Francia al congres­so viennese della restaurazione. Il «Girella emerito» del Giusti che, per àncora d’ogni burrasca teneva – cito a memoria- «da dieci a dodici coccarde in tasca».Servì più padro­ni, ma servì alla Francia o la danneg­giò? Camillo Benso conte di Cavour fu un voltagabbana? Di sicuro lo fu. Gli avversari gli rimproverarono la spregiudicatezza con cui nel 1852, per avere la nomina a primo mini­stro, si alleò alla sinistra di Urbano Rattazzi. Avevaungrandedisegno, e nessuna esitazione nell’essere,al­l’occorrenza, ambiguo o bugiardo tout court. Nell’«italietta» post ri­sorgimentale Agostino Depretis diede un’etichetta quasi ufficiale alle giravolte della sua esperienza di governo, alla sua arte di navigare senza fulgori ma anche senza gli gIà, SIAMer­rori di cui si rese poi colpevole Cri­spi tra opposte sponde e scogli affio­ranti. La si chiamò,quell’esperien­za, trasformismo. Se la qualifica di voltagabbana si addice anche agli Stati, la merita senza dubbio l’Italia del 1914-1915 passata, dopo lo scoppio della Grande Guerra, dall’alleanza con l’Austria alla neutralità e infine al­l’intervento a fianco dei francesi e degli inglesi.
Ci saremmo esibiti in analoghi e peggiori voltafaccia an­che nella seconda guerra mondia­le, quanto ci schierammo con la Germania trionfante e l’abbando­nammo allorché fu in difficoltà. Con zelo servile dichiarammo infi­ne guer­ra ai nostri ex alleati Germa­nia e Giappone. Alla caduta del fascismo la voca­zione italiana per il voltagabbani­smo- ma non è un’esclusiva,basta pensare alla Francia tra Pétain e De Gaulle- emerse prepotentemente. Il maresciallo Badoglio, protagoni­sta negativo di Caporetto, conqui­statore dell’Etiopia, vecchio arne­se del regime fascista, si scoprì de­mocratico, Vittorio Emanuele III, che aveva apprezzato Giolitti e su­bìto mugugnando ma obbedendo Mussolini, riluttò all’abdicazione, riteneva d’essere adatto per tutte le stagioni. Un popolo che era stato compattamente in camicia nera di­chiarò da u­n giorno all’altro d’aver­la sempre aborrita, e Amintore Fan­fani che aveva tessuto in un suo li­bro le lodi del corporativismo fasci­sta si ritrovò tra gli uomini più pro­mettenti della Dc. Possiamo anche aggrottare il sopracciglio per certe deambulazioni sfrontate, ma non senza riconoscernel’utilità.Nel tra­monto- non foss’altro che per moti­vi anagrafici- della stagione berlu­sconiana, si profilano altri travesti­menti e mascheramenti. Preparia­moci a tutto. Mario Cervi, Il Giornale, 29 agosto 2011
.…………….L’avvertimento di Cervi è superfluo, come del resto questo breve excursus nella storia del trasformismo, anzi, chiamiamolo per nome, del tradimento, sta a dimostrare.