PERCHE’ NON C’E’ UN RENZI NEL PDL
Pubblicato il 25 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »
È possibile che il complicato dopo voto produca un governo di tregua. Ma un governo di tregua per fare cosa? Per fare tre cose, si suppone. In primo luogo, tenere a galla la zattera con qualche provvedimento che assicuri un po’ di affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Ma basterà che, in qualsiasi momento, una Cipro qualunque inneschi una valanga e tutto sarà rimesso in discussione. In secondo luogo, fare una nuova legge elettorale. Ma si dà il caso che sia più facile dirlo che farlo. Come si capisce appena si pone la domanda: quale nuova legge elettorale? In terzo luogo, dare ai partiti il tempo necessario per modificare le proprie offerte politiche in modo da riagganciare l’elettorato che li ha abbandonati scegliendo la protesta.
Delle tre cose da fare l’ultima è forse la più complicata. Come prova il fatto che nell’anno e passa di tregua assicurato dal governo Monti non c’è stata traccia di seria ristrutturazione di quelle offerte politiche. E il risultato si è visto alle elezioni.
Ci sono buone ragioni per pensare che un cambiamento dell’offerta politica (che significa cambiamento di leadership , di assetti organizzativi e di programmi), urgente per tutti, lo sia in particolar modo per la destra. Perché essa resta comunque la componente più fragile del sistema. Perché ha perso molti più voti di quelli che ha perso il Pd. Perché il reingresso di Berlusconi sulla scena elettorale dopo il suo annunciato ritiro ha solo rinviato il momento della verità: il momento in cui il Pdl (o qualunque cosa lo sostituisca) dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe, senza più il padre padrone a comandarlo. E perché, soprattutto, sarebbe vitale per il Paese che, una volta finita la tregua, una volta tornati alle elezioni, dalle urne uscisse quello che un tempo si sarebbe definito un solido governo borghese.
Al Pdl serve urgentemente un Renzi di destra, uno che non debba baciare l’anello a Berlusconi, uno che sappia parlare al Paese con un linguaggio fresco. E che, a differenza di Berlusconi, sia molto meno vulnerabile dal punto di vista giudiziario. Sia chiaro, un tale (ipotetico) Renzi di destra non dovrebbe affatto piacere alla sinistra: il processo di autoaffondamento politico di Gianfranco Fini cominciò quando, rotto con Berlusconi, egli diventò per un certo periodo l’eroe dei giornali di sinistra. Sinistra e destra sono ovunque separati da interessi contrapposti, da opposte visioni del mondo, da opposti codici morali. Nel nostro Paese, poi, gli elettorati di sinistra e di destra (basta ascoltarne le conversazioni) nutrono gli uni nei confronti degli altri più o meno gli stessi sentimenti che il Ku Klux Klan nutre nei confronti dei neri. È vero, come accennava ieri Galli della Loggia, che la sinistra ha avuto finora più successo nel convincere persino l’establishment che gli elettori di destra siano solo buzzurri impresentabili. Ma si conoscono anche tanti elettori di destra che pensano la stessa cosa di quelli di sinistra.
Il Renzi di destra dovrebbe fare, anche lui, orrore alla sinistra. Tanto più ci riuscirebbe quanto più coerentemente e aggressivamente (che non significa urlare: significa avere la solidità culturale necessaria per dare efficacia e un alto profilo alla propria proposta) fosse capace di rappresentare idee e interessi che hanno da sempre una precisa connotazione: l’individualismo come valore, la proprietà privata come diritto fondamentale, e fonte di libertà, anziché come colpa da espiare, l’idea che sia il «vil commercio», che siano i mercanti, e non i Savonarola, i costruttori di società decenti.
Il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma. Un governo che investa sulla crescita (altro che «decrescita felice»), che blocchi il processo di impoverimento nell’unico modo possibile: dando di nuovo alle classi medie indipendenti la voglia e l’incentivo per rischiare e investire. Voglia che non tornerà fin quando non ci saranno garanzie che i frutti del proprio lavoro non verranno in gran parte confiscati da uno Stato famelico. Il che significa tagliare le tasse, colpire la burocrazia, colpire i mercati protetti. Significa non commettere l’errore che commise Berlusconi il quale, per mantenersi al potere, venne a patti con le corporazioni che contribuiscono a strozzare la crescita.
Si è detto qualche volta che, non essendone capace la destra, in Italia tocca alla sinistra fare il lavoro della destra. Ma sono fole: la sinistra può fare solo la sinistra, ridistribuire il reddito in un regime di tasse alte. Se è la crescita ciò che si vuole, o la propizierà la destra o non lo farà nessuno.
Ma il punto debole di questo ragionamento non consiste forse nel fatto che del Renzi di destra qui ipotizzato non c’è, nella realtà, traccia alcuna? Sì e no. La destra, in Italia, esiste solo da venti anni. Ma in questo lasso di tempo è cresciuta una generazione di italiani che, spesso nel male ma qualche volta nel bene, non è più debitrice delle culture politiche dei grandi partiti, accomunati dal pregiudizio antiborghese, che dominarono la Prima Repubblica. Ci sono in giro diversi giovani colti, preparati, con esperienze di studio o di lavoro all’estero, e talvolta anche con un po’ di palestra nella politica locale, che cercano un varco per farsi strada. La ristrutturazione dell’offerta della destra non potrà prescinderne. Angelo Panebianco, 25 marzo 2013, Il Corriere della Sera
LA DIFFICILE RICETTA DI UN TAVOLO TRIPARTISAN PER LE RIFORME
Pubblicato il 24 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »
ROMA – Nella testa del presidente del Consiglio designato, lo schema di gioco prevede un doppio tavolo di confronto tra i partiti: il primo ha come oggetto di discussione il programma di governo e la formazione dell’esecutivo; il secondo, «aperto a tutte le forze rappresentate in Parlamento», si occupi invece di modificare la legge elettorale, di ridurre il numero dei parlamentari e di scardinare il bicameralismo perfetto istituendo una Camera delle autonomie. Ci sono due tavoli, dunque, nelle intenzioni illustrate da Pier Luigi Bersani al capo dello Stato. Ma questo modulo di gioco, nella sintesi teorica del costituzionalista Stefano Ceccanti, prevede anche «tre cerchi»: «Nel primo cerchio ci sono le forze politiche che danno vita al governo, nel secondo quelle che votano o favoriscono la fiducia, nel terzo quelle che siedono al tavolo delle riforme. Per cui è molto difficile che, in mancanza di un accordo sulla nascita del governo, poi si possa avere l’intesa sulle riforme…».
Rimane una nebulosa, almeno in questa fase, la proposta di Bersani di mettere in campo una «Convenzione» bipartisan (o tripartisan, visto l’esito delle elezioni) con il compito di metter mano anche alla seconda parte della Costituzione. Il nodo, infatti, è ancora politico e lo spiega, con la consueta schiettezza, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Pdl): «Vedremo cosa saprà fare Bersani. Certo, non può pensare di darci in “premio” la guida della Convenzione, o Bicamerale che sia, tenendoci poi fuori dal tavolo intorno al quale si decide il programma di governo. Che fa Bersani? Ci dice: “Andate al bar mentre noi facciamo il governo e dopo ci vediamo tutti al tavolo delle riforme”? Questo schema del doppio tavolo di confronto per ora lo vedo di difficile attuazione…». Anche perché, conclude Gasparri lasciando intendere che non c’è spazio per inciuci sottobanco, «i quindici voti che mancano a Bersani per ottenere la fiducia a Palazzo Madama non verranno certo dai nostri senatori…».
Ma mettiamo pure che Pdl e Movimento cinque stelle ci stiano a sedersi al tavolo delle riforme con un governo a guida Pd: anche in questo caso restano da affrontare tempi lunghi e difficoltà tecniche per consentire l’avvio di un nuovo organismo costituzionale.
I precedenti ci sono ma hanno avuto tutti e tre esito sfortunato. Tra il 1983 e il 1985, ha lavorato, grazie a una legge ordinaria, la commissione di studio presieduta dal liberale Aldo Bozzi: 20 senatori e 20 deputati che proposero un bicameralismo differenziato col principio del silenzio assenso finalizzato a snellire il procedimento legislativo. Poi, tra il ‘92 e il ‘94, è comparsa la seconda bicamerale guidata da Ciriaco De Mita e Nilde Jotti: 30 senatori e 30 deputati insediati prima in commissione di studio (con legge ordinaria) e in corso d’opera come commissione redigente (con legge costituzionale). Infine, si arriva alla più recente e conosciuta Bicamerale dei 70 presieduta da Massimo D’Alema e sponsorizzata da Silvio Berlusconi (istituita nel ‘97 con legge costituzionale) che, a torto o a ragione, è ancora considerata come la madre di tutti gli inciuci tra centro destra e centro sinistra. Ora però – vista l’urgenza di varare almeno la legge elettorale – i tempi sarebbero assai stretti, non compatibili con i quattro passaggi parlamentari richiesti per una legge istitutiva di rango costituzionale: «Dunque – suggerisce Ceccanti – il modello è quello della commissione De Mita-Jotti che parte come organismo di studio, inizia ai suoi lavori e poi diventa commissione redigente». Tutto questo, però, implica la formazione di un governo senza il quale non si va da nessuna parte.
E anche la proposta «minima» del M5S, quella di far partire almeno le commissioni parlamentari permanenti pur in assenza di un esecutivo legittimato da un voto di fiducia, divide due ex presidenti emeriti della Consulta, come Valerio Onida, favorevole, e Carlo Alberto Capotosti, contrario. Tuttavia, soprattutto al Senato, si fa strada una scuola di pensiero intermedia visto che già questa settimana dovrà nascere la commissione speciale per la conversione dei decreti legge varati dal governo Monti (in carica per gli affari correnti): per cui, è l’ipotesi allo studio degli uffici, perché escludere a priori che almeno la commissione Affari Costituzionali (quella che si occupa di materie tipicamente parlamentari) possa funzionare anche in assenza di un governo legittimato da un voto di fiducia? Il percorso appare comunque tortuoso ma risulterebbe l’unico utile per riprendere in tempo utile il confronto sulla legge elettorale. Altrimenti, se tutto va a rotoli, si torna a votare con l’odiato-amato Porcellum, col rischio di produrre un risultato fotocopia del 25 febbraio.Dino Martirano, Il Corriere della Sera, 24 marzo 2013
.……………La peggiore delle iatture che potrebbero capitare al popolo italiano, ai 50 milioni e passa di elettori, è di tornare a votare con la legge elettorale attuale. Ipotesi che diviene reale se davvero Bersani si ostinasse nel suo disegno, surreale e anche un pò stupidotto, e tipicamente “provinciale”, di due diversi tavoli di trattative: uno per fare il governo e un altro per fare le riforme. E quello del tavolo delle riforme, intanto senza certezze che arrivi a fatti conclusivi, utilizzato per ottenere che le forze politiche escluse dal governo, votino o almeno non votino contro il governo di minoranza che allo stato dei numeri sembra l’unico che Bersani possa mettere su, che non è detto riceva il placet di Napolitano che sulla questione pare la pensi diversamente. Se il tentativo sempliciotto, da furbastro di campagna, che Bersani sta tentanto non riesce, l’alternativa, l’unica possibile è di ritornare al voto. Con il porcellum, con grande gioia dei tanti uomini della casta che non conosce distinzioni tra destra, sinistra e centro con l’aggiunta dei “nuovi”, cioè i grillini che di certo non disdegneranno di usare il porcellum per consolidare la “fortuna” loro arrisa dalla circostanza di candidature scelte sul web da poche centinaia di persone. Per questo, se davvero Bersani avesse a cuore le sorti del Paese e i diritti, quelli reali e tangibili dei cittadini, dovrebbe turarsi il naso, ammesso che ve ne siano le ragioni, e varare un esecutivo a termine con il PDL, con il compito esclusivo di provvedere alle determinazioni economiche che incombono sul Paese e fare le riforme che necessitano: dal taglio dei parlamentari alla legge elettorale. E solo dopo, subito dopo, andare al voto con due obiettivi: riconsegnare ai cittadini il diritto-dovere di scegliere i parlamentari e stabilire chi debba governare a pieno titolo e coin i voti necessari Paese. Se facesse questo si meriterebbe un posto d’onore nella galleria dei “presentabili” della storia politica italiana. Ma Bersani vuol essere un “presentabile” o gli piace di più essere il contrario? g.
MONTI E I SUOI TRADITORI DELL’ITALIA
Pubblicato il 23 marzo, 2013 in Costume, Cronaca, Politica estera | Nessun commento »
Un Paese non può vivere di solo spread, di tagli agli stipendi della casta o di presunti conflitti di interesse.
Mario Monti con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Qualsiasi agenda deve avere al primo punto il rispetto della bandiera simbolo della nazione, dignità e orgoglio, difesa di chi serve lo Stato rischiando la vita. Tutto il resto ne discende. E invece siamo ripiombati nell’italietta di inizio secolo scorso: debole, confusa, pasticciona, ingrata, senza nerbo e parola. Lo dobbiamo a Monti e al suo governo. Nel giro di una settimana prima hanno tradito la parola data agli indiani, poi quella a noi italiani e al mondo intero. Il caso è quello dei due marò del San Marco arrestati in India. Ce li avevano rispediti in licenza per qualche settimana con l’assicurazione di un loro ritorno per il processo. Abbiamo annunciato con squilli di tromba che ce li saremmo tenuti, ma di fronte all’India che ha mostrato i muscoli (e non solo quelli) abbiamo calato le braghe: sono già in volo verso New Delhi, con tante scuse.
Questo è Monti, l’uomo che doveva ridarci la credibilità internazionale che ci avevano fatto credere persa. Questo è Terzi, il ministro già ambasciatore in America. Questa è l’Italia dei tecnici voluta e sostenuta dai salotti di banchieri e intellettuali, dai giornaloni della sinistra. Una manica di incapaci, egoisti ed egocentrici, senza alcuna legittimazione, traditori di parole date (ricordate il «mai mi candiderò» di Monti?). Volevano suonare l’Italia e gli elettori li hanno suonati, volevano cantarle all’India e il mondo l’ha cantata a loro. Hanno preso ordini non dagli italiani ma da capi di Stato e governo stranieri.
Altro che Grillo e democrazia pop a Cinque stelle. Quando qualcuno pensa di prescindere dalla politica, il risultato è quello oggi dei marò e domani delle banche chiuse su disposizione della Merkel o chissà cos’altro. Quello che serve è un governo politico e forte. Bersani sta ripetendo l’errore-orrore di Monti: pensare alla sua salvezza e non alla nostra e del Paese. Dice no a un patto col Pdl, l’unica soluzione indicata dalle urne. Anche noi siamo molto, ma molto scettici. Ma allora la soluzione è una sola: tornare a votare e subito. O cambia idea, oppure ogni giorno che Bersani perde nella speranza di rubare il consenso a un pugno di grillini è un giorno in più in cui l’Italia viene umiliata e messa sempre più a rischio. Anche se ci riuscisse, cosa improbabile, il suo sarebbe un governo talmente debole che saremmo in balia del mondo intero più di quanto lo siamo con Monti. Napolitano ci pensi bene prima di avventurarsi su strade ad alto rischio. Alessandro Sallusti, 23 marzo 2013
….,..Nemmeno l’Italietta giolittiana, quella dei giri di valzer e dei valzer senza giri, era riuscita a tanto. A farsi prendere per i fondelli, non una, ma due volte. E’ riuscito all’Italietta di Monti e ai suoi bravos alla mortadella, dal ministro degli esteri, l’uomo di Fini, Terzi di Santagata, al ministro della difesa De Paola il cui unico obiettivo è quello di accappararsi incarichi per “arrotondare” la già più che pingue pensione. Il caso dei due Marò restituiti all’india dopo aver solennemente dichiarato che rimanevano in Italia è da manuale e da oggi farà parte del kit dei boy-scouts americani. Non è il caso che ricapitoliamo la storia che si trascina da quasi un anno. Contano sopratutto le ultime 24 ore. I due ritornano in India perchè, dichiara il sottosegretario che ha il nome di un prodotto agricolo, De Mistura, l’India ha aassiocurato che non rischiano la pena capitale. Oh bella! Perchè se gli danno 30 anni da scontare in una putrida galera indiana c’è da stare allegri? Ma l’India fa sapere, dopo che i due sono ritornati in India, che non c’è nessun impegno in questo senso. Cioè, per dirla tutta, l’India fa intendere che i due rischiano proprio la pena capitale. Che figura di merda per Monti e i suoi compagni. Sopratutto per quella faccia di pietra di Monti che quando i due ritornarono in Italia per “licenza elettorale” li ricevette a Palazzo Chigi, proprio come si faceva nella putridissima prima Repubblica, quando tutto faceva brodo per far voti, dalle Madonne pellegrine ai trattori di Stalin. E tutto ciò mentre il mondo ci ride dietro: siamo stati offesi e gabbati e forse per una manciata di quattrini (eggi affari) ci prendiamo in faccia non soltano lo scherno del mondo universo ma anche la possibilità di avere sulla coscienza se non due morti morti due morti vivi. Bella roba per uno che doveva riscattarci da Berlusconi. Ma Berlusconi mai avrebbe consentito che questa farsa che può trasformarsi in dramma fosse rappresentata. g.
IL GUERRIERO DI BARLETTA, di Michele Pennetti
Pubblicato il 22 marzo, 2013 in Sport | Nessun commento »
Il Corriere del Mezzogiorno dedica l’editoriale di oggi a Pietro Mennea, scomparso ieri a 61 anni.La sua storia, scirve Penneti, andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare. Per questo lo pubblichiamo, dedicandolo alle nuove generazioni per esortarle a guardare a Menna, alla sua storia, alle sue battaglie, non solo sportive, per trarne insegnamento ed esempio.
Una personificazione del riscatto meridionale, l’allegoria della forza di volontà. Con Pietro Mennea muore un amico – anche del Corriere del Mezzogiorno, per il quale scrisse numerosi articoli durante le Olimpiadi di Atene del 2004 – uno degli uomini del Sud più popolare e amato degli ultimi cinquanta anni, oltre che uno dei più grandi campioni nella narrazione dello sport italiano. La sua storia, trapuntata di fatica e sacrifici, andrebbe raccontata ai ragazzi nelle scuole. La sua esperienza, finita troppo presto, potrebbe essere adottata dagli psicanalisti per spiegare ai propri pazienti cosa significhi avere carattere, tenere duro, non mollare dinanzi alle prime contrarietà. Il suo candore, precisamente palesato dai libri-denuncia e dalle perenni battaglie globali contro il doping, resta un soggettivo strumento di difesa dal mondo (dello sport, ma non solo) che, cambiando per il dio soldo e asservendosi alla tecnologia, oggettivamente regredisce.
C’era sempre tanta semplicità nei gesti del barlettano che, se avesse attraversato un’epoca passata, sarebbe diventato un guerriero. Anche la sua apparente tracotanza, amalgamata alla sottolineatura della propria straordinarietà pronunciata con flebile voce, rivelava la genuinità del personaggio e la sua proletaria origine. Se ha peccato in qualcosa, Mennea, è stato nel volersi spendere troppo dopo aver smesso di correre. Un po’ l’avvocato (nello studio della famiglia di Manuela, la sua dolcissima moglie), un po’ il politico (venne eletto europarlamentare), un po’ lo scrittore, un po’ il dirigente nelle società di calcio (alla Salernitana). Come se fosse indispensabile, a se stesso, stare almeno un centimetro sopra la media. Come se una bulimia di mestieri e di interessi, concatenata alla collezione di lauree, potessero conservare eternamente splendente la sua immagine di eroe dei due mondi, dall’oro di Mosca al primato del mondo di Città del Messico. Non ce n’era, in fondo, bisogno. Perché nessuno, anche un acerrimo nemico, si sarebbe mai permesso di contestare la sua eccezionalità. Si fosse risparmiato, probabilmente Pietro Mennea avrebbe vissuto meglio e più a lungo. Mantenersi di rendita, però, non era nel suo stile. Non apparteneva ai codici comportamentali di un ragazzo spigoloso e irraggiungibile, il più veloce di tutti nei 200 metri per diciassette anni, un fascio di muscoli e nervi che faceva dell’umiltà una leva e della rabbia un biglietto da visita. E poi l’orgoglio, l’altro suo documento di riconoscimento. Non c’era vittoria che non gli impedisse di alzare il dito al cielo, l’indice dell’emancipazione di chi arrivava da dietro e dal basso, un simbolo di tenacia del Mezzogiorno buono e profondamente legato alla sua radice. Non c’era sconfitta che non gli procurasse una feroce percezione di rivalsa, serbata però in rigoroso silenzio. Alla stregua del male che l’ha stroncato con tempi e modi brutali. L’unico avversario che Pietro Mennea, sul traguardo di una vita di successo e di una carriera leggendaria, non è riuscito a battere. di Michele Pennetti, Il Corriere del Mezzogiorno, 22 marzo 2013
OMAGGIO AD UN GRANDE CAMPIONE DEL SUD: PIETRO MENNEA
Pubblicato il 21 marzo, 2013 in Il territorio | Nessun commento »
È morto questa mattina a Roma Pietro Mennea, ex velocista azzurro, per anni primatista mondiale dei 200 metri.
Il prossimo 28 giugno avrebbe compiuto 61 anni e da tempo era gravemente malato. La camera ardente sarà allestita oggi pomeriggio nella sede del Coni a Roma. Da oggi fino a domenica, inoltre, ci saranno bandiera a mezz’asta listata a lutto e minuto di silenzio prima di tutte le manifestazioni sportive, come disposto dal presidente del Coni, Giovanni Malagò.
Uno dei simboli dello sport italiano, Mennea iniziò la sua carriera nell’atletica internazionale nel 1971, debuttando agli europei e conquistando il terzo posto nella staffetta 4×100 e il sesto posto nei 200 metri. Partecipò per la prima volta alle olimpiadi l’anno successivo, dove conquistò la medaglia di bronzo nei 200 metri. Nel 1979, alle Universiadi di Città del Messico, corse i 200 metri in 19″72, segnando un record del mondo che è resistito ben 17 anni e che è ancora il primato italiano ed europeo. L’oro olimpico arrivò invece nel 1980 a Mosca. Soprannominato “La Freccia del Sud”, stabilì un altro primato nel 1983 nei 150 metri piani, con 14″8 sulla pista dello stadio comunale di Cassino. Un record ancora imbattuto. Fonte Ansa, 21 marzo 2013
..……………….Era nato a Barletta Pietro Mennea, era un uomo del sud che ha fatto onore allo sport italiano e alla terra da dove era partito e con cui non aveva mai rescisso legami ed affetti. Ci uniamo al cordoglio di tutti gli sportivi italiani che in Mennea si identificarono nell’orgoglio di essere italiani. g.
LE PAROLE DEL PAPA: IL VERO POTERE E’ IL SERVIZIO, di Sarina Biraghi
Pubblicato il 20 marzo, 2013 in Costume | Nessun commento »
Custodire la Chiesa è il compito del Papa, custodirci tra noi è quello di ogni individuo, custodire la creazione è il compito dei potenti. Perché il vero potere è il servizio verso i deboli anche se sulla terra ci sono troppi Erode che tramano progetti di morte, che non proteggono i disegni di Dio scritti nella natura. Almeno 200mila persone hanno assistito alla messa d’inizio del ministero petrino di Francesco, nei modi e negli abiti, rigorosamente Vescovo di Roma. Una carezza al mondo che scalda i cuori quell’invito a non temere la tenerezza, un programma di governo quell’omelia densa di principi dottrinali che mostrano l’altra faccia del Papa pastore, quella del maestro di vita cristiana, del teologo che oltre ai gesti opererà atti. Dirompenti, rivoluzionari per cambiare un papato già cambiato dalla rinuncia epocale di Ratzinger. Francesco dovrà affrontare la secolarizzazione in rapporto all’evangelizzazione, dovrà avere il carisma per conquistare i fedeli, dovrà avere la forza per governare l’istituzione-Chiesa. È per questo che chiede le preghiere, anche ai bambini, colombe sul suo cammino, chiede l’affetto corale per proteggersi dai lupi, che pure ci sono e lui lo sa… La sua affabilità, i suoi gesti moderni servono ad accorciare le distanze, ad includere, non escludere, la gente che lui vuole «sentire». È questa la sfida, saper ascoltare il mondo contemporaneo, le istanze etiche e politiche, i non credenti, rendere infinito il feeling che ha instaurato da quel primo «buonasera». Ma non tragga in inganno la gentilezza di Francesco. Userà le stesse parole di Ratzinger su aborto, matrimoni gay, eutanasia, pedofilia… E allora, s’indebolirà quel feeling? Questo Papa è la novità che ha riacceso la speranza per la Chiesa e per il mondo. Sarà Francesco a salvarla come nel sogno di Papa Innocenzo III, reso immortale dall’affresco di Giotto, che vede il fraticello d’Assisi arrestare la rovina della Chiesa innalzando le mani al cielo. Il Papa sudamericano con l’umiltà, i sorrisi e la forza potrà farcela, facendo dimenticare anche i suoi predecessori che pure hanno detto «buonanotte», come Giovanni XXIII, hanno baciato i bambini, come Giovanni Paolo II, hanno invitato a «non deturpare la Chiesa» come Benedetto XVI. Il Tempo, 20 marzo 2013
LA PROCURA DI NAPOLI FA FLOP: IL GIP LA DERIDE SUL CASO BERLUSCONI-DE GREGORIO
Pubblicato il 20 marzo, 2013 in Giustizia, Politica | Nessun commento »
Volevano processare subito Silvio Berlusconi per una presunta compravendita di deputati all’epoca del governo Prodi, inchiesta napoletana nota come caso De Gregorio. Ma era soltanto l’ennesima bufala di una magistratura sciagurata e ieri la gip ha fermato i due pm, il solito Woodcock e l’inseparabile collega Piscitelli, che avevano chiesto il rito immediato e ventilato addirittura la possibilità di arresto istantaneo per l’ex premier. La motivazione non lascia spazio a fantasia: non ci sono prove evidenti che De Gregorio abbia votato contro Prodi per dare vantaggi a Berlusconi, tantomeno che questo sia avvenuto dietro compenso, non c’è stata alcuna corruzione.
L’inchiesta era stata gettata come una bomba post elettorale, così tanto per fare un po’ di casino, e minacciava di interferire pesantemente sulle trattative per la formazione del nuovo governo. Già sinistra – Pd in prima linea – e grillini assaporavano il piacere di votare per l’arresto di Berlusconi e inaugurare così la legislatura all’insegna del giustizialismo politico. Gli è andata buca, il presunto impresentabile Berlusconi non è un corruttore di parlamentari, resta invece impresentabile Lucia Annunziata, campione di diffamazione impunita e arrogante.
Se non è questa persecuzione giudiziaria, dite voi. Nessuna cautela, nessun controllo, parole in libertà tramutate in prove schiaccianti: questa è la nostra giustizia, e purtroppo non soltanto nei confronti di politici scomodi alla casta dei pm. Migliaia di italiani, senza mezzi per resistere e lontano dai riflettori, subiscono ogni anno trattamenti del genere: uomini, famiglie e imprese rovinate dalla sciatteria dei magistrati, che se poi si salda con l’Annunziata di turno, addio. Vai poi a spiegare all’opinione pubblica, a parenti e amici che si era trattato di un clamoroso errore dovuto a malafede e imperizia. Ci piacerebbe conoscere in merito l’opinione del neopresidente del Senato, Piero Grasso, fresco ex procuratore d’assalto. Avrà il coraggio di condannare l’ennesimo assalto al senatore Berlusconi o tacerà? Si accettano scommesse, ma io un’idea ce l’ho già: butterà a mare i suoi nuovi colleghi per difendere i vecchi. Perché? Non si sa mai. Alessandro Sallusti, Il Giornale, 20 marzo 2013
…………….Abbiamo letto l’ordinanza con cui il GIP di Napoli respinge la richiesta di rito immediato per Berlusconi accusato di corruzione e di aver “comprato” l’ex senatore De Gregorio per fasr cadere il governo Prodi, dietro la quale si nacondeva il “colpaccio” dell’arresto dell’ex premier. E’ un atto di accusa alla supericialità, per non dir altro, della Proicura e dei due PM che hanno costruito un teorema senza capo nè coda e senza neppure prendersi la briga di verificare se almeno una delle cose dette da De Gregorio contro Berlusconi corrispondesse al vero. Neppure una, ha scritto il GIP, sconfessando, sino alla derisione, i due PM che hanno sinanco confuso le date e addirittura frainteso il principo secondo il quale ciascun aprlamentare esercita il suo ruolo senza vincolo di mandato e operando le sue scelte secondo le “sue” scienza e coscienza. Pco male. Ci ha pensato il GIP a rimettere le cose a posto, compreso la dimostrazione che c’è chi compike satti no n seocndo giustizia ma secondo ingiustizia. Nei confronti di Berlusconi. g.
GRASSO E BOLDRINI SI TAGLIANO LO STIPENDIO
Pubblicato il 19 marzo, 2013 in Politica | Nessun commento »
I presidenti di Camera e Senato si riducono lo stipendio del 30%. E propongono ai parlamentari di imitarli
I presidenti di Camera e Senato si riducono lo stipendio del 30%. E propongono ai parlamentari di imitarli
Qualcosa si muove in Parlamento. A partire dai vertici. Laura Boldrini e Pietro Grasso hanno deciso di tagliarsi lo stipendio del 30%.

E stanno studiando un piano per diminuire (dal 30 al 50%) anche quelli degli altri parlamentari.
Un programma concordato oggi pomeriggio a Palazzo Madama e illustrato alle seguenti conferenze dei capigruppo di Camera e Senato. Tra i tagli, ci sarebbe anche un piano di razionalizzazione delle spese del Parlamento che porterebbero a risparmi significativi. Allo studio c’è un’immediata riduzione – o addirittura la soppressione – di indennità di ufficio e altri rimborsi per per i titolari delle altre cariche interne a partire dalle spese di rappresentanza.
Per senatori e deputati, in particolare, sarà proposta la trasformazione di tutti i rimborsi forfettari in rimborsi a piè di lista, in modo che ogni singola erogazione sia giustificata in relazione alle finalità istituzionali. Contemporaneamente, i collaboratori dei parlamentari saranno assunti con contratti a tempo determinato.E poi largo spazio alla trasparenza, con la pubblicazione su internet di tutte le consulenze . Fonte ANSA, 19 marzo 2013
.……………..Speriamo che non sia una favola pasquale.E che sia l’inizio della fine di privilegi e sprechio che offendono la gente e fa prolificare il grillismo, a incominciare da quello paesano.g.
ODIO DI STATO IN DIRETTA TV, di Alessandro Sallusti
Pubblicato il 18 marzo, 2013 in Costume, Politica | Nessun commento »
Isterica e acida Lucia Annunziata lo è sempre stata. Avete presente quelli che hanno la puzza sotto il naso e ti guardano dall’alto al basso perché si sentono i più intelligenti, che hanno studiato e frequentano solo gente giusta di sinistra? Ecco, lei è quella roba lì, un Mario Monti in gonnella, o come la definivano ai tempi della sua, e mia, frequentazione al Corriere della Sera, una insopportabile rompicoglioni. Ieri, durante la sua trasmissione Mezz’ora su Raitre, ha definito il suo ospite Alfano e tutto il Pdl una manica di impresentabili. Cara maestrina Lucia, campione di giornalismo dei miei stivali, impresentabile sarai tu e tutti quelli come te. Una manica di frustrati che non ne hanno mai azzeccata una, politicamente umiliati dalla storia e sconfitti dalla cronaca, soprattutto quella elettorale. Sarà presentabile il suo partito di riferimento, il Pd di Bersani, quello dello scandalo Montepaschi di Siena, delle tangenti di Penati, quello tanto presentabile da chiedere in ginocchio un salvagente in Senato a undici disgraziati grillini.
E dire che i suoi amici comunisti, per ringraziarla di tanta fedeltà, anni fa le avevano affidato pure la presidenza della Rai. È stata, ed è, la Annunziata, una lottizzata della politica (quella sì impresentabile), ha campato, e campa, con (tanti) soldi pubblici frutto anche dei sacrifici dei dieci milioni di «impresentabili» elettori del centrodestra.
Sono per la libertà assoluta di parola, non mi fanno paura gli insulti, ma mi chiedo se un servizio pubblico può essere impunemente così fazioso. Ormai siamo all’odio di Stato sulla tv di Stato e quello di donna Lucia per i liberali ricorda quello dei nazisti per gli ebrei. Oggi ci vuole cacciare dal parlamento perché impresentabili, domani chissà. Cosa dici Lucia, i nostri figli potranno ancora frequentare le scuole pubbliche? E le nostre donne che devono fare? Le mandiamo a rieducarsi o le chiudiamo in un ghetto. Siamo passati dalla tv etica di Santoro alla tv razzista della Annunziata.
Sostieni Berlusconi e protesti contro la giustizia politicizzata? In galera, razza di impresentabile. Non è uno scherzo, con me l’hanno fatto, col silenzio complice della democratica Lucia Annunziata.
Ma andate tutti a pettinare le bambole con Bersani, che magari quello vi viene bene. Il Giornale, 18 marzo 2013