IL PASSATO CHE FERMA IL MOVIMENTO 5STELLE, di Antonio Polito

Pubblicato il 30 giugno, 2020 in Il territorio, Politica | Nessun commento »

Non risulta che durante gli Stati Generali il presidente Conte abbia messo al centro delle sue pur amplissime consultazioni la domanda: che dobbiamo fare del Mes? Singolare, no? Il dilemma più controverso sul futuro dell’Italia non pare essere stato oggetto di riflessione nella Villa in cui il premier si riprometteva di «reinventare il Paese» (parole sue, anzi di Baricco). Meno che mai lo è stato nella sede anche più appropriata del Parlamento, che anzi Conte ha finora accuratamente evitato.

La ragione è molto semplice: sul Mes Conte non ha la maggioranza. O meglio, ne ha un’altra. Quella di prima. La maggioranza giallo-verde. Se oggi si votasse alle Camere sul meccanismo europeo, che ci consentirebbe di avere prestiti fino a 36 miliardi con interessi quasi pari allo zero per finanziare la Sanità pubblica, vincerebbero i contrari. Lega e Cinquestelle tornerebbero insieme, come ai vecchi tempi.

Lo stesso vale per i decreti sicurezza. Varati quando Salvini stava al Viminale, la loro revisione era nei programmi politici della nuova maggioranza e in parte anche nelle raccomandazioni del capo dello Stato, per motivi costituzionali. Ma non si procede. Perché i Cinquestelle, anche su questo, sono quelli di prima: quei decreti li hanno votati. E lo stesso vale per la ormai annosa questione della concezione autostradale.

I pentastellati sono prigionieri del passato. Hanno cambiato alleati ma non cultura politica. Che è sempre la stessa: rispetto all’Europa, all’immigrazione, alle grandi infrastrutture, al rapporto con il mercato. Con un’aggravante: prima avevano un capo politico che poteva «forzare» il Movimento attraverso passaggi stretti ma necessari: con Di Maio digerirono la Tav. Ora sono una forza politica acefala, governata da una logica di veti reciproci che le rende impossibile adeguare i principi non negoziabili alle esigenze del governo. Per questo il Movimento ha finito per delegare in toto la governabilità a Conte; con il patto implicito che il premier ne eviti la spaccatura o almeno la procrastini. Il paradosso è che il partito di maggioranza relativa, nato come forza di protesta, non può più rischiare di perdere il governo ma non può neanche rischiare di governare.

Dal che deriva la domanda fatale per l’altro partner della maggioranza giallo-rossa: che ci faccio io qui? Il Pd, trascinato a viva forza dal transfuga Renzi al governo con i Cinquestelle, ha finito con il trovarcisi a suo agio. Prima di tutto perché ha ripreso una centralità che sembrava finita per sempre di fronte alla esplosione elettorale dei «due populismi». E poi perché un partito di amministratori in provincia ha bisogno quasi naturalmente di essere un partito di ministri e sottosegretari nella capitale. Ma Zingaretti sa che non può essere a ogni prezzo. Come può la forza politica che ha preso Gualtieri da Bruxelles per fare il ministro del Tesoro e ha mandato Gentiloni a Bruxelles a fare il commissario, respingere il Mes, accettando la logica anti-europea che sottintende e giustifica il «gran rifiuto»? Come può il partito che mandava i parlamentari a bordo delle navi sequestrate da Salvini tenersi ancora dopo un anno i decreti Salvini? E come può il centrosinistra che privatizzò le autostrade ridarle ora allo Stato? Ecco perché ieri ha cominciato, con la sua lettera al Corriere, a dire a Conte ciò che Conte non può dire: il Mes ci serve.

Si obietterà: ma la vera ragione di questo «connubio» tra giallo e rosso era scegliere il prossimo presidente della Repubblica. Movente e obiettivo del resto dichiarati. Però, se davvero i Cinquestelle sono rimasti quelli di prima, e se per giunta sono privi di una leadership, e se sono spaccati come sono, e se perdono pezzi quasi ogni giorno al Senato, può il Pd fidarsi di loro al momento delle votazioni a scrutinio segreto per eleggere il capo dello Stato? Per più di quarant’anni l’Italia è stata una democrazia bloccata, ma governata, perché il partito di maggioranza solo al governo poteva stare. In questa legislatura l’Italia è tornata a essere una democrazia bloccata, ma rischia di essere sempre meno governata. E pensare che la chiamarono Terza Repubblica. Antonio Polito, Il Corriere della Ser, 30 giugno 2020

I 5 STELLE. LA TRASFORMAZIONE, POTERE, POLTRONE E LUSSO, ALLA FINE SEDOTTI DAL PALAZZO, di Fabrizio Roncone

Pubblicato il 21 giugno, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Da annotare: chiusi, blindati hanno cominciato. Blindati finiscono.
Loro — quelli dello streaming, della trasparenza — laggiù, dentro lo sfarzo assoluto di Villa Doria Pamphili, distanti e impenetrabili in quel reality dell’economia chiamato Stati generali, e tutti noi, il pattuglione di cronisti, fotografi e cameramen, lasciati fuori dal cancello per una settimana, costretti a cercarci un sentiero che da via Aurelia Antica s’infilasse nella boscaglia, su per lo stesso pratone che nel 1849 risalirono i garibaldini della Repubblica Romana, le camicie rosse con i cannoni da puntare contro i francesi, noi con i teleobiettivi per capire almeno se il premier Giuseppe Conte avesse la pochette.

È arrivata la protesta ufficiale dell’Associazione stampa parlamentare e dell’Ordine nazionale dei giornalisti (con grande imbarazzo del Pd).
Ma è poi arrivata anche la polizia a cavallo.
Tutto questo fa molto casta. Proprio quella che Di Maio e Bonafede e tutti gli altri grillini di governo promettevano di combattere. E invece: risucchiati. Dentro fino al collo. Golosi di potere, cacciatori di poltrone, sensibili al lusso. Eccoli laggiù salire sulle loro auto blu, le scorte armate, i lampeggianti, un corteo dopo l’altro: e quando poi Di Maio l’altro giorno è arrivato a Mendrisio, Svizzera, in visita ufficiale, le autorità elvetiche hanno pensato bene di allestirgliene uno proprio di prima classe, con sette macchine seguite da tre furgoni.
Informalmente, lo scorso fine settimana Di Maio è invece andato a spiaggiarsi con la fidanzata Virginia Saba da Saporetti, a Sabaudia, sotto gli ombrelloni dello storico stabilimento del generone romano. Giuseppe Conte, qualche chilometro più in là, al Circeo. All’Hotel Punta Rossa, il preferito dagli oligarchi russi in vacanza.

Gli ultimi segnali di una mutazione ormai compiuta. Da valutare con rigore, senza cedere alla meraviglia, e cominciata forse la mattina in cui Rocco Casalino, entrando a Palazzo Chigi, osservò — lo sguardo che era un miscuglio di delusione e fastidio — la stanza che di solito veniva assegnata al portavoce del premier. «Ma è troppo piccola!», urlò, dopo lunghi secondi. I funzionari, mortificati, chinarono la testa: ora Rocco siede in una stanza adeguata, grande quasi come un campo da calcetto, adiacente a un ufficio dove alloggiano una ventina di collaboratori, alcuni dei quali si definiscono «sottoproletariato dell’informazione».
Dalla sua scrivania, ogni giorno, Casalino spedisce decine di whatsapp a decine di giornalisti. Rocco allude, promette, blandisce, annuncia, rimprovera, drammatizza, poi perdona e, quasi sempre, viene perdonato (ora vediamo come finisce il bisticcio con il sito Dagospia, «sebbene sia chiaro — diceva perfido un ministro grillino l’altra sera in un salotto con vista su piazza Campo de’ Fiori — che Casalino non conosca la barzelletta del “Cavaliere bianco e del Cavaliere nero” di Gigi Proietti»).

Il rapporto del M5S con i giornalisti è profondamente cambiato. Gianroberto Casaleggio teorizzava che se ne potesse fare a meno. Vito Crimi — ossequioso — esplicitò: «Mi stanno sul cazzo!». Beppe Grillo lanciò una vera fatwa contro i talk show. «Chi vi partecipa sarà scomunicato».
Vabbè.
Era per dire.
Ormai, ogni volta che cambi canale, trovi un grillino. Alcuni passaggi restano memorabili. Tipo quello dell’ex ministro per il Sud, Barbara Lezzi, che andò da David Parenzo su La7 a spiegare «come il Pil dell’Italia sia cresciuto grazie ai condizionatori d’aria». Solo nell’ultima settimana, Alessandro Di Battista è stato ospite sulla Nove e poi due volte a Retequattro. Dalla cronista di Quarta Repubblica ha finto di farsi sorprendere in strada, molto piacione come sempre, dico e non dico, ma poi dice, certo che dice, ormai tutti i cronisti conoscono la debolezza del Dibba, che adora comparire, sia pure in ruoli diversi: dissidente polemico, poi rivoluzionario in Chiapas, scrittore di reportage modesti, quindi aspirante falegname, provocatore e però eccolo subito di nuovo ragionevole e mansueto, non appena ascolta le promesse di Crimi e Patuanelli, Bonafede e Spadafora, tutti perfettamente a loro agio negli abiti scuri, nel caminetto da Prima Repubblica. Dove si decidono strategie, alleanze e — soprattutto — poltrone.

Gli specialisti sono Stefano Buffagni e Riccardo Fraccaro. Buffagni gira proprio con una cartellina rossa. Dentro ci sono i dossier per decidere, o condizionare. Eni, Enel, Poste, Terna, Leonardo, Alitalia. E Rai. I vertici del Movimento ormai vengono interpellati anche per la nomina di un caporedattore qualsiasi. Così è ripartita la vecchia liturgia romana inaugurata dai satrapi socialisti al tempo dorato (per loro) che fu. Li trovavi seduti ai Due Ladroni in piazza Nicosia, o da Fortunato al Pantheon. Li salutavi, un sorriso da tavolo a tavolo, c’è gente che ci ha costruito carriere. Adesso conduttori ambiziosi e showgirl disoccupate sperano di incontrare la nomenklatura grillina nei locali della movida, da Maccheroni o da PaStation, il ristorante del figlio di Denis Verdini, a sua volta suocero di Matteo Salvini. Incurante delle parentele ingombranti, ci capita anche la senatrice Paola Taverna, quella che si alzava nell’emiciclo di Palazzo Madama e urlava: «Io so’ der popolo e ve lo dico in faccia: a zozzoniiiii!» — vestita come se stesse al Tibidabo di Ostia, zatteroni di sughero e jeans strappati, mentre oggi invece gira tutta in ghingheri, con la sua Louis Vuitton d’ordinanza.

All’inizio, nemmeno entravano alla buvette di Montecitorio. «Noi — dicevano schifati i deputati a 5 stelle — il caffè ce lo andiamo a bere al bar, come cittadini normali». Però dopo qualche settimana erano già tutti lì al leggendario bancone, perché il caffè in se è una ciofeca, ma poi le papille iniziano a sentire un certo retrogusto dolciastro e stordente, sorseggi e sai di poter fare cose importanti: per esempio, sistemare nella tua segreteria i vecchi compagni di scuola (Di Maio li fa arrivare quasi tutti da Pomigliano d’Arco e Acerra).
Così adesso nessun parlamentare vuole tornarsene a casa. Secondo il sacro limite dei due mandati, a fine legislatura dovrebbero trovarsi un posto di lavoro in tanti: da Bonafede a Fico, dalla Castelli a Fraccaro, a Di Stefano, Crimi, Ruocco, Toninelli, Taverna e Di Maio. Che infatti ha cercato di scardinare la regola cominciando a introdurre per i consiglieri comunali il «mandato zero».
«Giggino, scusa, ma cos’è?», chiese, ingenuo, Crimi. «Che cos’è? Semplice: il primo mandato non lo contiamo più», rispose Giggino (con freddezza andreottiana)
. Fabrizio Roncone, Il Coriere della Sera, 21 giugno 2020

CORONAVIRUS, I CENTO GIORNI CHE CI HANNO CAMBIATO LA VITA, di Antonio Polito

Pubblicato il 15 giugno, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Coronavirus, i cento giorni che ci hanno cambiato la vita (e ci hanno reso più digitali e impauriti)

Cento giorni del Covid hanno cambiato gli italiani. Ma non tutti. Ci hanno reso diversi. Ma più diseguali. Migliori e peggiori, allo stesso tempo. Quasi tre Italie in una. Nel lungo lockdown cominciato cento giorni fa ci sono stati quelli «che hanno continuato a vivere nella povertà, che hanno tenuto i bambini in 40 metri quadrati, che erano abituati ad andare a fare la spesa dove le cose costavano meno», oggetto della commozione in tv del virologo dal volto umano, Giuseppe Ippolito dello Spallanzani. Insieme a loro — aggiungiamo noi — quelli che hanno dovuto uscire di casa ogni mattina perché fanno gli infermieri, i medici, gli addetti alle pulizie, i poliziotti, i rider, i postini, i benzinai, gli spazzini. Gente che ha tenuto in piedi l’Italia, e chissà quanto ci metteremo a dimenticarci il debito di riconoscenza che abbiamo nei loro confronti.

Poi c’è stata l’Italia di mezzo: quelli che hanno potuto restare a casa ma hanno perso il reddito, la gente che ha un negozio, un ristorante, un bar, un albergo, uno studio di avvocato o un salone di bellezza, o che non ce l’hanno ma ci lavorano. Mesi di risparmi bruciati e tanta paura per ciò che verrà. Per loro il peggio comincia ora.

E infine ci sono quelli che se la sono cavata: i «colletti bianchi» che hanno conservato posto e stipendio, hanno il Wi-fi e Netflix, fanno lo smart working e il bike sharing. A casa hanno riscoperto gli affetti, la lentezza, la gastronomia, i figli, l’amore coniugale. E quasi quasi ci sarebbero restati ancora un po’. Gli inglesi distinguevano, in mezzo alla tragedia dell’ultimo conflitto, coloro che avevano avuto una «good war». Stavolta, per fortuna, non sono pochi.

Queste tre Italie, rese anche più diverse di prima dalla pandemia, vanno ora riunificate. Altrimenti rabbia e risentimento le metteranno l’una contro l’altra, e tutte e tre contro il Palazzo. Non sarà un pranzo di gala, né un buffet a Villa Pamphilj. Bisognerà forse partire da ciò che ci ha invece unito.

Abbiamo visto il lato oscuro della Natura, la morte in faccia, un virus senza cure e vaccini. La nostra presunzione di invulnerabilità, l’idea che ormai si possa morire solo per un fallimento della medicina, ne è uscita a pezzi. Ora sappiamo, e vogliamo essere curati meglio, chiediamo ospedali e ambulatori più efficienti, con più dottori e meno politica. Diteci quanto costa e non badate a spese.

Sappiamo stare in fila. Mai visto niente del genere. Non è chiaro perché servizi essenziali come banche, poste e uffici pubblici funzionino ancora con il razionamento, ma lo accettiamo e stiamo in fila. È un patrimonio su cui costruire. Il rispetto delle regole è stato sorprendente per un popolo di solito così individualista. Vuol dire che c’è un capitale di responsabilità, di senso del dovere, consapevolezza che la libertà di ciascuno deve coesistere con quella di tutti gli altri.

Non che abbiamo imparato chissà che, né che la banda sia diventata così larga. Ma abbiamo capito qualcosa da cui difficilmente torneremo indietro: si possono fare tante cose, perfino una visita medica, senza spostarsi fisicamente. Senza prendere la macchina, salire su un aereo, viaggiare per ore, aspettare un bus, arrivare in ritardo. È una cosa buona. Ci saranno grandi risparmi per le aziende, meno pressione sull’ambiente e più flessibilità per tutti, per conciliare tempo di vita e tempo di lavoro. Siano perfino diventati più puntuali: le conference call, chissà perché, cominciano precise, senza il quarto d’ora accademico. Ma è anche una cosa pericolosa. Può trasformarsi in pigrizia, assenteismo, illusione di una vita in infradito. Soprattutto non può sostituire il lavoro in presenza lì dove è indispensabile: la scuola, l’università, i servizi agli anziani, dai quali non si può pretendere un collegamento su Zoom.

Otto milioni di italiani hanno perso un anno di scuola o giù di lì, per quanto encomiabili siano stati gli sforzi di didattica a distanza. C’è chi ha perso di meno e chi di più, perché la «DAD» ha funzionato solo nelle famiglie con un buon livello di istruzione, molti device e un ottimo collegamento in rete. Dunque ha eroso il sistema educativo nazionale e la sua funzione di coesione sociale. Guai a perdere pure l’appuntamento di settembre.

Le bandiere italiane sono comparse numerose ai balconi delle case, manco fossimo ai Mondiali: un modo di tenersi su, «stringiamoci a coorte». Grandi folle si sono radunate per guardare le Frecce Tricolori. Ampi consensi hanno sostenuto la difficile azione del governo. Ma attenzione: gli italiani che hanno investito nel tricolore saranno anche i primi a sentirsene traditi, se ne avranno motivo. Non ce lo possiamo permettere.

(Ps: cento giorni dopo, questo è anche il mio ultimo «Taccuino dal virus». È ora di raccontare il dopo.) Antonio POLITO, Il Corriere della Sera, 15 giugno 2020

L’ODIO A 5 STELLE CHE AVVELENA IL PAESE, di Alessanro Sallusti

Pubblicato il 23 maggio, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Riccardo Ricciardi, oscuro ex consigliere comunale di Massa, presunto esperto di regie teatrali miracolosamente approdato in Parlamento nel 2018 con l’infornata grillina, ieri è spuntato fuori dal nulla che ha caratterizzato la sua vita professionale e politica per attaccare violentemente il modello sanitario della Lombardia, i suoi tanti morti e il suo nuovo ospedale «costruito sprecando soldi pubblici» (essendo ignorante non sa neppure che l’ospedale in questione è stato costruito solo con i soldi di privati).
Da qui ne è nata una rissa verbale e fisica con i deputati lombardi che per poco coinvolge il presidente del Consiglio presente in aula.
Avendo l’acqua alla gola i Cinque Stelle mandano avanti picchiatori e provocatori con la benedizione del presidente della Camera Fico (amico del Ricciardi) e molto probabilmente anche del premier. I grillini non sono avversari politici, sono dei teppisti mantenuti della politica e pure senza scrupoli. Per fortuna è solo questione di tempo, al primo voto due terzi di loro dicono i sondaggi – andrà a casa a fare i conti con la disoccupazione dalla quale vengono. Tra questi sicuramente ci sarà il Ricciardi, ma anche i loro compagni di scuola (solo quelli di Di Maio sono cinque) i parenti e gli amici piazzati ben pagati in ogni dove, e questo sì è puro sperpero di denaro pubblico.
Sarà una liberazione, perché noi ci teniamo ben stretto il modello Lombardia e lasciamo ai grillini il modello Roma-Raggi (degrado e inefficienza da Terzo mondo), quello Bonafede-giustizia (quattrocento mafiosi scarcerati), quello Di Maio-reddito di cittadinanza (soldi nostri a mafiosi, pregiudicati e lavoratori in nero) e quello Conte-Coronavirus (milioni di italiani economicamente abbandonati).
Temo che il provocatore Ricciardi sia solo l’antipasto di ciò che ci verrà quotidianamente servito nei prossimi mesi, quando sarà chiaro a tutti che il governo non ha risolto neppure un problema. Fomentare odi e picchiare sugli avversari per depistare l’opinione pubblica diventerà lo sport preferito di chi vede avvicinarsi la fine della sua ricca avventura politica. Non ci faremo intimidire ma è ovvio che non ci aspettano bei tempi.Il Giornale, 23 maggio 2020

C’ERA UNA VOLTA UN MINISTRO, ARALDO DI CROLLALANZA

Pubblicato il 21 maggio, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

A Bari la Fondazione Tatarella ha ricordato Araldo di Crollalanza nell’anniversario della sua nascita, col suo biografo Domenico Crocco. Quando ero ragazzo, in Puglia e non solo, non c’era persona, di qualunque estrazione sociale e politica, che non si togliesse il cappello al nome di don Araldo. Oggi temo che tocchi spiegare chi era Araldo di Crollalanza e poi vi dirò perché lo faccio. Dunque, partiamo dalla fine. Crollalanza è l’unico ministro fascista, podestà e poi senatore missino a cui Bari, col voto unanime di destra e sinistra, il sostegno dell’Istituto Gramsci e del suo direttore Beppe Vacca, dedicò un busto nel 2001.
Crollalanza è stato il Ministro dei Lavori pubblici più fattivo della storia d’Italia. Nato a Bari da famiglia valtellinese, combattente nella Grande Guerra, giornalista, fascista della prim’ora, dai tempi dei Fasci d’azione rivoluzionaria del 1915 e poi in Piazza San Sepolcro nel 1919, in giovane età vedovo con sei figli, Crollalanza va ricordato per le grandi opere pubbliche che realizzò, la ricostruzione rapida ed efficace dopo il terremoto che lacerò il cuore del sud nel 1930; la bonifica dell’agro pontino e la malaria debellata, il rilancio dell’agricoltura a partire dal Tavoliere, la trasformazione di Bari con la nascita della Fiera del Levante, dell’Università di Bari, lo Stadio, il Lungomare coi suoi imponenti edifici pubblici, il Policlinico, il grande porto. E poi ancora la direttissima Firenze-Bologna, l’istituzione dell’Istituto di previdenza dei giornalisti, la nascita e lo sviluppo delle città di fondazione, come Littoria, Aprilia e Pomezia, acquedotti, strade e ponti che ancora resistono, e molte altre cose.
È memorabile quel che fece da Ministro dopo il terremoto in Irpinia e nel Vulture, novant’anni fa. C’erano stati 4mila morti e decine di migliaia senzatetto. Crollalanza si accampò nelle zone terremotate e vi restò fino al compimento dell’opera, nell’arco di tre mesi; rifiutò soluzioni d’emergenza o tendopoli e in poco tempo ricostruì diecimila case definitive, in muratura. Restituì alla fine quel che era riuscito a risparmiare nella ricostruzione… Ebbe l’encomio delle Nazioni Unite e non ci fu l’ombra di nessun Irpiniagate come poi nel terremoto irpino di cinquant’anni dopo e nei i seguenti. Poi passò a presiedere l’opera nazionale combattenti.
Pur provenendo dal fascismo social-rivoluzionario e mazziniano, Crollalanza rappresentava l’ala pragmatica del regime, amava la concretezza delle realizzazioni, con vero senso dello stato e amore del popolo, ripudiando ogni violenza e fanatismo ma anche ogni vetrina. Pragmatico ma non cinico, di alta dirittura morale; anche nello scegliere collaboratori e dirigenti puntò ai più bravi, anche non fascisti.
Diffidente verso Hitler e la Germania nazista, Crollalanza aderì alla Rsi ma non accettò alcun ministero. Nel dopoguerra fu arrestato ma ogni accusa nei suoi confronti decadde, il ministro dell’interno Romita parlò in suo favore e la commissione d’epurazione non trovò addebiti, né illeciti arricchimenti; Crollalanza non possedeva una casa, terreni né conti in banca. Fu scarcerato e assolto, e riprese dalla gavetta, come giornalista. Aderì sin dalla fondazione al Msi, di cui fu senatore rieletto per ben sette volte consecutive. A Bari per anni si praticò il voto disgiunto: alla Camera la gente votava il partito ideologico o clientelare – la Dc, il Psi o il Pci – ma al Senato votavano per don Araldo. I suoi voti arrivavano a quadruplicare quelli raccolti dal suo partito. Si ricorda solo un episodio sgradevole al Senato: nel 1979, nella seduta d’apertura del Senato toccava presiedere al più anziano ma era Crollalanza. Pur di impedire che un ex fascista anche solo per un giorno presiedesse Palazzo Madama, trasportarono quasi moribondo il più vecchio Pietro Nenni, che di lì a poco morì. Quasi a riparare quel torto, due anni dopo Fanfani conferì a don Araldo la medaglia d’oro del senato per i suoi 90 anni. A proposito di Nenni, Crollalanza una volta raccontò a Beppe Niccolai che l’ultima volta che vide Mussolini sul Garda gli chiese cosa avrebbero dovuto fare dopo la guerra; e Mussolini gli suggerì di guardare al suo ex-compagno Nenni…
Francesco Compagna, anch’egli ministro dei Lavori pubblici, lo indicò come campione di onestà e competenza. Una volta intervistai don Araldo, parlava con un’inflessione barese acuta, come il prof. Aristogitone di Renzo Arbore e si rivolgeva a me chiamandomi “giovanotto”.
Alla sua morte, nel 1986, Indro Montanelli elogiò la sua cristallina onestà ed efficacia, ricordò le numerose sue opere, aggiungendo: “Crollalanza non fece mai mostra di sé, mai partecipò a spedizione punitive, mai si fece un partito o una clientela personale, mai brigò per carriere politiche. Di lui si parlava pochissimo. Non apparteneva alla Nomenclatura del regime e non fece mai nulla per entrarci”. Poi a Montanelli sfuggì un clamoroso lapsus: “Una volta Di Vittorio mi disse: «Senza Crollalanza io non esisterei perché i miei genitori non avrebbero nemmeno avuto la forza di procrearmi». Impossibile confessione, perché Peppino Di Vittorio era coetaneo di Crollalanza, classe 1892, ambedue interventisti e combattenti nella Prima guerra mondiale. E l’opera di Crollalanza nel Tavoliere è a cavallo degli anni Trenta. Svista o testo alterato nella versione digitale? Vero è che il leader sindacale comunista e l’ex ministro fascista continuarono a stimarsi a distanza.
Perché vi ho raccontato tutto questo? Perché Crollalanza fu l’esempio di una persona seria, onesta e competente al governo, che fronteggiò l’emergenza e realizzò molto apparendo poco. Non fu una banderuola, non cambiò mai casacca e non si sporcò mai di odio o intolleranza. E Crollalanza era pugliese, come Conte, Casalino e il ministro Boccia… Marcello Veneziani, La Verità del 19 maggio 2020

INTERVISTA AL PROF. LUCA RICOLFI, SOCIOLOGO E DOCENTE ALL’UNIVERSITA’ DI TORINO

Pubblicato il 9 maggio, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

“La nostra società, se non si cambia rotta, molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una ‘società parassita di massa’, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione ‘involutoria’, come forse la chiamerebbe un matematico”. Luca Ricolfi, sociologo che insegna Analisi dei Dati all’Università di Torino, nonché responsabile scientifico della Fondazione Hume, mostra tutti i rischi dell’epoca post-Covid per un paese che da anni si è auto-condannato al declino, come ben spiegato nel suo ultimo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo).

Professor Ricolfi, vado dritto al punto. Secondo lei, questo governo ha un’idea dell’Italia? Ha una visione del futuro di questo paese, cosa ancor più necessaria in una fase di gestione dell’emergenza sanitaria e soprattutto economica post- Covid?

Mi ha molto colpito l’osservazione del vostro De Angelis, secondo cui non si può governare l’Italia senza un’idea di futuro, idea che a questo governo parrebbe mancare. Sottoscrivo al 100% la prima affermazione, ma non la seconda: a mio parere questo governo un’idea del futuro ce l’ha eccome, purtroppo. Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso, infatti, le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque Stelle.

E il più straordinario paradosso politico è che un simile mostro socio-economico, che peserà chissà per quanti anni sul futuro dell’Italia, sia stato accuratamente apparecchiato dall’unica componente riformista e modernizzatrice della sinistra, quella di Renzi.

Proprio da Italia Viva, almeno a parole, sono piovute le critiche per le ricette economiche messe in campo dal governo: secondo Renzi vanno nella direzione di un più puro assistenzialismo, dal reddito d’emergenza ai bonus, passando per la cassa integrazione ordinaria e in deroga. Che effetto avrà nei prossimi anni sulla struttura della nostra società che già in epoca pre-Covid aveva e ha il limite di essere basata sulla rendita più che sul lavoro, come ha descritto nel suo ultimo libro?

La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta (ma forse è già tardi), è destinata a trasformarsi in una “società parassita di massa”, che non è il contrario della società signorile di massa, ma ne è uno sviluppo possibile, una sorta di mutazione “involutoria”, come forse la chiamerebbe un matematico.

Mi spiego: nella società signorile il parassitismo di chi non lavora convive con un notevole benessere, che accomuna la minoranza dei produttori e la maggioranza dei non produttori. Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione (e l’export) sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti. I nuovi parassiti non vivranno in una condizione signorile, ma in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto, e un’attitudine a pretendere tutto dalla mano pubblica, con conseguente dilatazione della “mente servile”, per riprendere l’efficace definizione di Kenneth Minogue.

Però l’ex premier Romano Prodi domenica scorsa ha sostenuto la diversa tesi secondo cui da questa crisi si può uscire con una presenza più forte dello Stato nell’economia.

Prodi è la perfetta manifestazione della forma mentis della nostra classe politica: qualsiasi problema si presenti, e più è grande il problema che si presenta, più forte è l’istinto a invocare “più politica”, “più intervento”, “più stato”. E’ un tic mentale, come lo è quello degli europeisti doc, che qualsiasi cosa accada chiedono “più Europa”, e come lo è quello dei liberisti duri e puri, che qualsiasi cosa accada chiedono “più mercato”.

E invece abbiamo bisogno di fantasia, di apertura mentale, non di rifugiarci ognuno nelle proprie credenze di sempre.

Dalle imprese tuttavia s’è visto uno scatto d’orgoglio. Il neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha attaccato duramente il governo su questi primi accenni di politica assistenzialista, per non parlare della reazione dura alle ipotesi di entrata nel capitale nelle aziende che rischiano di fallire nei prossimi mesi. Sorpreso?

Sì, sono rimasto (felicemente) sorpreso. Nonostante io nutrissi parecchie speranze in Bonomi, che mi è parso subito più attrezzato e più coraggioso dei suoi predecessori, mi aspettavo che Confindustria non dismettesse la prudenza (eufemismo) che, almeno dopo i tempi di Montezemolo e del compianto Andrea Pininfarina, ha sempre caratterizzato i suoi rapporti con il potere politico. Da almeno un decennio non ricordavo una presa di posizione così netta contro il governo.

Perché, secondo lei, Bonomi ha assunto una posizione così critica?

Me lo sono chiesto anch’io, mi sono chiesto, in particolare, se sia in corso una manovra per sostituire un premier la cui inadeguatezza, dopo gli ultimi errori, è divenuta difficile da nascondere dietro i fumi delle parole e la mortificante soggezione di una parte dei media.

Poi però mi sono dato un’altra risposta, molto più semplice: “è la sopravvivenza, bellezza!”. Persino un coniglio, se sta per essere inghiottito da un pitone, combatte la sua estrema battaglia per non morire. Figuriamoci una potente organizzazione come Confindustria.

La mia impressione è che il mondo dei produttori, specie nelle regioni del centro-nord, abbia perfettamente capito quel che sta succedendo, e viva una sorta di presentimento di morte. Poiché molte imprese sono già morte, altre agonizzano, altre sanno che non potranno durare, le imprese superstiti cercano disperatamente di non scomparire. E avendo capito che la sopravvivenza delle imprese non è in cima alla lista delle priorità di questo governo, tentano l’ultima battaglia per salvare sé stesse dalla catastrofe che si annuncia.

Insomma, voglio dire che il governo Conte è riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese. E meno male che ciò sta accadendo, perché in questo momento (preciso: in questo momento, non sempre e comunque) dare la priorità alle imprese è l’unico modo di difendere l’interesse collettivo e nazionale. Sul piano economico-sociale (lascio perdere quello sanitario, per non infierire) la più grande bugia di questo governo è stata di lanciare il messaggio: nessuno perderà il lavoro, nessuno sarà lasciato indietro.

E invece no: se il Pil perderà il 10 o il 20% in un anno, come è verosimile, spariranno milioni di posti di lavoro, e vivere di sussidi sarà l’unica possibilità per milioni di famiglie.

Cerchiamo appunto di guardare ai prossimi mesi. Il Covid alla fine ci potrà dare una vera spinta per evitare il declino – lei lo definisce “argentinizzazione lenta” – verso cui da anni ci siamo incamminati? Pensa che davvero si creerà un clima da ricostruzione post-bellica o è solo retorica e propaganda politica?

Molto dipenderà da tre fattori. Il primo è che la base produttiva non subisca una distruzione catastrofica (caduta del Pil superiore al 10-15%). Il secondo è che le imprese vengano messe, per la prima volta nella nostra storia, in condizione di lavorare senza ostacoli burocratici e vessazioni fiscali. Il terzo è il fattore-Churchill: ovvero, avere al comando una classe dirigente seria, e possibilmente non frutto di manovre di palazzo.

Per ripartire e ricostruire c’è però bisogno di una generazione che se ne faccia carico, un po’ come quella che ha fatto tanti sacrifici nel Dopoguerra e che però ha portato l’Italia al miracolo economico degli anni ’60. Dovrebbe, almeno teoricamente, essere quella degli attuali giovani, fra i 20 e i 40 anni. Ma si tratta di quella stessa generazione che si è abbandonata all’opulenza negli ultimi anni, preferendo consumare ricchezza invece che creare reddito. Mi sembra un bel dilemma, non crede?

Sì, la riconversione dei cosiddetti Neet (che alcuni chiamano bamboccioni, o generazione choosy) è un’impresa difficile, specie se di lavoro ce ne sarà ancora meno che oggi.

Proprio per questo tendo a pensare che, se ricostruzione ci sarà, sarà grazie all’apporto di tutti, compresi anziani e pensionati, non certo soltanto o principalmente per opera degli attuali 20-40enni. Ma soprattutto penso che, a differenza che in passato, si dovrà puntare sull’auto-imprenditorialità, più che sull’attesa messianica del posto di lavoro.

E se poi uno dei motori della ricostruzione fosse formato da quegli immigrati che lavorano in condizioni para-schiavistiche e che sono funzionali alla società signorile di massa come braccianti, colf, badanti e via dicendo?

Di alcuni segmenti di quella che nel mio libro definisco la “infrastruttura para-schiavistica” della società italiana sarà difficile fare a meno. Ma mi piacerebbe che il dopo-Covid fosse anche l’occasione per attenuare il loro giogo: i fiumi di miliardi che oggi vanno a sussidiare chi non fa nulla, o lavora in nero senza pagare le tasse, troverebbero una destinazione più degna di un paese civile se servissero a trasformare i nostri attuali para-schiavi in veri lavoratori, restituendo loro il rispetto che la civiltà del lavoro ha sempre riservato al mondo dei produttori, compresi i più umili.

IL FASCISMO TOTALITARIO DI MUSSOLINI, di Antonio Carioti

Pubblicato il 26 aprile, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Antonio Carioti, scrittore e storico, commenta la uscita di una collana di  20 saggi sul fascismo a cura del Corriere della Sera il cui primo volume è “Fascismo, Storia e interpretazione”, di Emilio Gentile, il più illustre storico italiano  del Fascismo dopo DeFelice.

è Dalla caduta del fascismo deriva l’attuale ordinamento democratico del nostro Paese, la Repubblica «nata dalla Resistenza», come si usa dire. Perciò la discussione su quel periodo oltrepassa la dimensione storiografica e finisce inevitabilmente per mescolarsi con la lotta politica.
La destra italiana attuale, composta da forze estranee a quelle che scrissero la Costituzione (quando non eredi dell’esperienza neofascista missina), tende a presentare il periodo della dittatura in modo edulcorato, rimuovendone gli aspetti più atroci, dallo squadrismo omicida ai crimini coloniali, eccezion fatta soltanto per le leggi razziali. Un atteggiamento utile a rilanciare, in chiave anti-immigrati o anti-europea, un nazionalismo aggressivo e demagogico che rifiuta di imparare alcunché dai disastri del passato.

A sinistra è in voga invece da sempre l’uso di proiettare sui propri avversari l’ombra del regime di Mussolini per squalificarli. Così di volta in volta sono stati accusati di tendenze fasciste Mario Scelba, Amintore Fanfani, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. Un tempo si diceva che il fascismo è un prodotto del capitalismo, quindi solo chi vuole superare il mercato e la proprietà privata è davvero antifascista, ergo chiunque non condivida tale programma è sospetto di voler ripercorrere le orme del Duce. Dopo la bancarotta del comunismo, ragionamenti del genere sono difficilmente riproponibili, ma resta in un certo mondo intellettuale l’abitudine di presentare come «antifascismo» la propria ideologia di sinistra e di bollare come parafascista chi la critica.
Tutto ciò poco ha a che vedere con uno studio serio del fascismo in quanto fenomeno concreto, che nacque, si affermò e crollò in condizioni storiche specifiche, nell’Italia della prima metà del Novecento. A questo hanno provveduto invece, con diverse visioni interpretative, gli autori dei volumi che il «Corriere della Sera» offre ai propri lettori nella collana da domani in edicola. L’unica eccezione è il libro di Giacomo Matteotti, prezioso invece come testimonianza della lotta contro la tirannia nascente, che fu pubblicato dal leader socialista un anno prima di essere rapito e assassinato, il 10 giugno 1924, da sicari fascisti organizzati e foraggiati da strettissimi collaboratori di Mussolini.
Ad aprire la collana è un volume di grande importanza, Fascismo. Storia e interpretazione di Emilio Gentile, nel quale l’autore, uno degli storici italiani più noti nel mondo, ha raccolto contributi molto significativi, accompagnati da un’introduzione che chiarisce alcuni punti chiave.
Il primo è che non si può ridurre il regime littorio a una dittatura personale di Mussolini, presentata spesso come blanda se non bonaria, priva di una caratterizzazione ideologica forte. Al contrario si trattò di un sistema riconducibile alla categoria del totalitarismo: monopartitico, connotato da un’assoluta concentrazione del potere, teso a forgiare un nuovo tipo umano, a trasformare gli italiani in una «stirpe guerriera». E strutturalmente aggressivo.
Risulta limitativo, se non improprio, sostenere che Mussolini commise un «errore» con l’ingresso in guerra del giugno 1940. In realtà fu una scelta coerente con l’impostazione espansionista che il Duce aveva adottato da tempo e che solo la consapevolezza dell’assoluta impreparazione del Paese lo aveva trattenuto dal compiere nel settembre 1939, quando la Germania aveva aggredito la Polonia.
Allo stesso modo Gentile riporta il movimento delle camicie nere alla sua identità particolare, legata ad eventi come la Prima guerra mondiale e l’avvento della società di massa. Nega in questo modo validità alla formula bizzarra del «fascismo eterno», secondo la quale ogni manifestazione di razzismo o di tendenze liberticide sarebbe riconducibile al fascismo stesso, per cui il pericolo della sua ricomparsa sarebbe sempre attuale in qualsiasi circostanza storica.
Una tesi che, tra l’altro, ignora come il dispotismo e il razzismo non siano affatto monopolio di Mussolini e dei suoi seguaci. Della coalizione che sconfisse l’Italia del Duce e la Germania del Führer facevano parte l’Urss di Iosif Stalin, che certo non scherzava quanto a brutale soppressione di ogni libertà, e gli Stati Uniti, nei quali all’epoca vigeva in tutto il Sud un regime di pesante discriminazione razziale ai danni dei neri.
Il fascismo è stato spesso rimosso dalla coscienza collettiva. Abbiamo preferito credere che fosse pura barbarie, che il consenso di cui godeva fosse superficiale o estorto, che non avesse radici nella cultura. Ma l’analisi del passato porta a conclusioni diverse. Il totalitarismo mussoliniano è parte integrante del nostro retaggio storico. Quindi bisogna sforzarsi di conoscerlo, come c’invita e aiuta a fare Gentile, andando oltre le convenienze e le contingenze della politica. Antonio Caroti, Il Corriere della sera, 26 aprile 2020

I FANATICI CHE HANNO RESO IL 25 APRILE UN RELITTO IDEOLOGICO, di Andrea Amata

Pubblicato il 25 aprile, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Pur di riconoscersi nella narrazione contraffattoria del 25 Aprile il governo rossogiallo ha autorizzato l’Associazione nazionale partigiani d’Italia a partecipare alle celebrazioni per il 75esimo anniversario della Liberazione in deroga al lockdown. Nonostante la dottrina comunista sia ormai irrancidita e in uno stato di putrefazione, ancora oggi alcuni suoi residuali epigoni pretendono di leggere la storia con gli occhiali graduati dal dispotismo ideologico, imponendo la versione di una libertà riconquistata con l’esclusivo contributo dei partigiani. Quale anelito di autentica libertà potevano inalare coloro che erano subordinati al liberticida regime sovietico?
Sul 25 aprile volteggiano rapaci parassitici, gli hooligans dell’antifascismo che antagonizzano con un fantasma, appropriandosi, pur di suffragare il loro autoritratto democratico, della genesi della democrazia italiana e ostracizzando il tributo di sangue degli alleati anglo-americani. Sulle celebrazioni della Liberazione ha attecchito un monopolio fazioso che le ha impedito di elevarsi a momento di pacificazione tra gli eredi e i posteri del fascismo e dell’antifascismo.
Il 25 aprile è diventata una data divisiva sia per il resoconto omissivo della sua rievocazione sia per la prerogativa settaria che aleggia nella ricorrenza che rivela una sorta di prelazione, un infondato riconoscimento ad essere preferiti, rispetto ad altri, nel tirocinio democratico. Cosicché, la Liberazione è diventata il balsamo eternizzante di una spavalderia etica convenzionalista, ma diventa ardito riconoscerle una matrice nazionale di memoria condivisa considerando che il suo principale accaparratore simbolico, il partito comunista, avallò le violenze annessionistiche della Jugoslavia titina sulla Venezia Giulia e su Trieste. Quale sentimento patriottico possono emanare gli eredi del partito comunista che si rese protagonista di pratiche epurative e sommarie scatenate nel Paese e dell’asservimento ideologico allo stalinismo nella sua massima espressione di negazione della libertà e della democrazia?
Non si vuole minimizzare il valore della conquista democratica che rappresenta la radice da cui è germogliato il godimento della libertà per il merito preminente degli anglo-americani e dell’adesione al Patto Atlantico, ma l’appropriazione indebita della data simbolica da parte di una cultura che si dimostrò subalterna al regime sovietico ne mette in evidenza l’abuso del monopolio celebrativo. L’Anpi che il governo ha autorizzato a “violare” la quarantena, riconoscendogli un privilegio escluso a milioni di cittadini a cui è stata negata l’Eucarestia il giorno di Pasqua e altri migliaia non hanno potuto concedere l’estremo saluto ai propri cari periti per mano del virus cinese, ancora oggi manifesta pulsione negazioniste sulle Foibe e sugli atroci crimini compiuti dai partigiani a guerra conclusa contro i fascisti o presunti tali e gli antifascisti non comunisti.
Evidenziare il carattere divisivo della commemorazione ad usum Delphini non significa cedere ad un’anacronistica apologia di fascismo ma esercitare una “resistenza” etica che non si lascia attrarre dal mulinello del travisamento e della distorsione storica. L’Italia non si è liberata con l’autonomia delle sue forze e il merito dell’emancipazione non può essere ricondotto alle forze comuniste.
Per sentirci tutti figli del 25 aprile la verità storica andrebbe onorata nella sua integrità, mentre il panegirico selettivo delle vicende introduttive della democrazia è espressione dell’egolatria storica di un relitto ideologico. La libertà è un bene che appartiene a tutti, ma questo 25 Aprile ci ricorda che qualcuno è più libero di altri. Andrea Amata, 25 aprile 2020

LE NOMINE E I METODI ANTICHI, di Paolo Mieli

Pubblicato il 20 aprile, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Ci avevano detto che niente sarebbe stato piu come prima. Poi, però, abbiamo assistito alla moltiplicazione delle task force e s’è avvertito nell’aria un sentore dei tempi andati. Adesso che è giunta l’ora delle nomine, si è avuta conferma di quel sentore e ci si può render conto che un pezzo della tradizione italica è sopravvissuto alla prima ondata Covid. Prudenza e decenza avrebbero dovuto imporre che i prescelti della volta scorsa restassero, in proroga, ai posti di comando fino al momento in cui tutto tornerà tranquillo. Tre, quattro mesi, il tempo di non offrire agli italiani il poco edificante spettacolo di un mercanteggiamento di cariche mentre sono ancora alti il numero dei contagi e quello dei morti. Giusto per dare l’idea che nessuno ai posti di comando del sistema Italia in questi giorni ha avuto altra preoccupazione che la messa in sicurezza del sistema stesso. Come si è fatto del resto saggiamente e senza tentennamenti rinviando a data da definire referendum ed elezioni.
Invece la fase due, la stagione della ripartenza, inizia con le designazioni di partito per gli enti pubblici: presidenti, amministratori delegati, consiglieri di amministrazione. Dopodiché, visto che, come rimedio alla crisi, qualcuno propone un buon numero di nazionalizzazioni, possiamo fin d’ora immaginare che la prossima volta i nominati saranno il doppio di quelli di oggi. Forse il triplo. Offrendo un ottimo rifugio ai parlamentari «tagliati» dopo la definitiva approvazione della riforma per via referendaria.
Va subito detto che nella spartizione si sono impegnati tutti, proprio tutti, i partiti della maggioranza. E anche l’opposizione ha a suo modo partecipato. Nessuno del resto aveva promesso di fare voto di astinenza. Nessuno? Qualcuno, a dire il vero… All’epoca del successo elettorale che due anni fa lo portò a conquistare un terzo dei parlamentari, il M5S aveva preso l’impegno di rifiutare la designazione per incarichi pubblici di manager lottizzati dai partiti. Tanto meno quelli che avevano conti aperti con la giustizia. Poi però — per motivi sui quali neanche uno di loro ha ritenuto di dover offrire pubblici chiarimenti — il Movimento ha ritenuto opportuno cambiare idea. Come per altri versi fu con la Tav. Come sarà, probabilmente, adesso che verrà al pettine il nodo del Mes. Ai tempi della Torino-Lione, quantomeno, il partito di Beppe Grillo trovò un modo, a dire il vero un po’ goffo, per ribadire in Parlamento la propria contrarietà. In occasione delle nomine, invece, ha scelto di ammainare le proprie bandiere senza sentirsi in dovere di dare spiegazioni. Anzi. Stavolta — come già quando si discusse dei vertici della Rai — Vito Crimi, Riccardo Fraccaro, Stefano Buffagni hanno ritenuto conveniente accomodarsi ostentatamente al tavolo delle decisioni. L’unica differenza è che, quando si decise per l’ente radiotelevisivo di Stato, i Cinque Stelle riuscirono almeno ad ottenere qualche importante incarico ai posti di comando. Adesso invece dovranno con ogni probabilità accontentarsi di alcune presidenze destinate quasi esclusivamente a far felici i familiari dei prescelti.
Nel compiere questa operazione, i leader del M5S hanno però dimenticato di avvertire Alessandro Di Battista e una trentina di parlamentari (tra i quali Barbara Lezzi, Massimo Bugani, Nicola Morra, Giulia Grillo, Ignazio Corrao) che, a fatto compiuto, protestano — oltreché per la conferma all’Eni di Claudio Descalzi imputato in alcuni processi — per l’assenza complessiva di «discontinuità nel merito e nel metodo delle scelte», assenza di discontinuità che a loro avviso provocherebbe il «perdurare di un potere sempre nelle stesse mani». Discorso che, si sentono in dovere di precisare, «vale per tutte le nomine in discussione». Tutte? Proprio tutte?
Tra le designazioni di nomi di presidenti, amministratori delegati, membri di consiglio di amministrazione, ce ne sono un bel po’ che verranno fatte su suggerimento dei pentastellati. Secondo il «Fatto Quotidiano», giornale che non può essere definito ostile al movimento grillino, Descalzi non sarebbe mai stato neanche «in bilico» e i vertici Cinque Stelle si sarebbero esibiti in una «pantomima» sulla sua riconferma così da ottenere, «a titolo di risarcimento per aver ingoiato quel nome», un «bel po’ di presidenze con funzioni poco più che decorative». Tra le quali quella della stessa Eni, assegnata a Lucia Calvosa proveniente dai cda di Mps, Tim e da quello di Seif, la società che edita il «Fatto». Per trovare i candidati – racconta il quotidiano – «si è deciso di pescare nell’unica fucina di manager considerati degni di fiducia, le municipalizzate romane». Tra i «pescati» Stefano Donnarumma, scoperto nel 2017 da Virginia Raggi, «indagato e poi archiviato nell’inchiesta sullo stadio della Roma», che da Acea dovrebbe spostarsi in Terna. Adesso, annuncia il giornale di Marco Travaglio, tra i Cinque Stelle «è partito il giochino a scaricare le colpe e poi a cancellare le impronte» dell’intera operazione di ricambio ai vertici delle partecipate. Soltanto «dopo», però. Dopo che saranno completati i consigli di amministrazione dove – sempre secondo il «Fatto» – sono destinati a trovare posto tale Carmine America, un compagno di scuola di Luigi Di Maio (già reclutato alla Farnesina), ed Elisabetta Trenta, costretta tempo fa a lasciare, oltre al ministero della Difesa, un’abitazione a canone d’affitto assai conveniente alla quale si era molto affezionata. A Di Maio viene riconosciuta l’abilità di essersi saputo «eclissare tatticamente su Eni per non rimanere impigliato nelle polemiche» così da poter poi «scaricare le colpe» su altri. La stessa tattica sarebbe stata adottata dal viceministro Stefano Buffagni che pure si è assunto l’incombenza di indicare la Calvosa. A immediato ridosso di tale indicazione, Buffagni si è prontamente «defilato» dall’ingarbugliato affaire Eni di cui il sottosegretario Fraccaro «è diventato, suo malgrado, protagonista». Cronache che riportano alla memoria quelle di altri tempi. Non tra i più fausti.
Da questo super game, in ogni caso, escono trionfatori i partiti che hanno architettato il rinnovo delle cariche: Pd e Italia Viva di Matteo Renzi (che pure non si è sentito appagato in tutti i propri desideri e di ciò si lamenta). È un ulteriore segnale dello spostamento del baricentro di governo a vantaggio del partito di Nicola Zingaretti. E di rafforzamento di Giuseppe Conte, riuscito nella non facile impresa di imbrigliare i Cinque Stelle coinvolgendoli in trattative che li rendono per così dire più malleabili in vista del delicato appuntamento del Mes. A proposito del quale c’è da aggiungere che si spera a nessuno, in Olanda e in Germania, venga in mente di approfondire la conoscenza del modo assai poco trasparente con cui qui in Italia ancor oggi si procede alle nomine pubbliche. Ne verrebbero aggravati i ben noti, antipatici pregiudizi nei nostri confronti. Paolo MIELI, IL CORRIERE DELLA SERA 20 APRILE 2020

CASSESE: LA PANDEMIA NON E’ UNA GUERRA. I PIENI POTERI AL GOVERNO NON SONO LEGITTIMI

Pubblicato il 15 aprile, 2020 in Il territorio | Nessun commento »

Intervista al giudice emerito della Corte costituzionale: “Da palazzo Chigi continuano ad arrivare norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme”

Colloquio con piacere con il professor Sabino Cassese. Ma più che una intervista è un dialogo su tematiche molto delicate che l’emergenza Coronavirus ha evidenziato. Cominciamo così.
Caro Sabino, se siamo in guerra, sia pure anomala, allora vale quanto meno per analogia l’articolo 78 della Costituzione: le Camere conferiscono al governo i poteri necessari. E non, si badi, i pieni poteri. E’ così?
Nell’interpretazione della Costituzione non si può giocare con le parole. Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara. La profilassi internazionale spetta esclusivamente allo Stato ( art. 117, II comma, lettera q).
Lo Stato agisce con leggi, che possono delegare al governo compiti e definirne i poteri. La Corte costituzionale, con un’abbondante giurisprudenza, ha definito i modi di esercizio del potere di ordinanza «contingibile e urgente», cioè per eventi non prevedibili e che richiedono interventi immediati. Le definizioni della Corte sono state rispettate a metà.
Il primo decreto legge era “fuori legge”. Poi è stato corretto il tiro, con il secondo decreto legge, che smentiva il primo, abrogandolo quasi interamente. Questa non è responsabilità della politica, ma di chi è incaricato degli affari giuridici e legislativi. C’è taluno che ha persino dubitato che abbiano fatto studi di giurisprudenza.
Bene. Il Parlamento ha conferito quei poteri al governo con un decreto legge. Ma è sufficiente quel tipo di provvedimento? Senza contare che quel decreto legge è andato oltre. Ha consentito che le predette autorità possano adottare misure ulteriori rispetto a quelle dell’articolo 1. Ma, in punto di diritto, è legittimo tutto questo? Non si tratta di una sorta di delega in bianco?
Il primo decreto legge era illegittimo: non fissava un termine; non tipizzava poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati; non stabiliva le modalità di esercizio dei poteri.
A palazzo Chigi c’è un professore di diritto: avrebbe dovuto bocciare chi gli portava alla firma un provvedimento di quel tipo. Poi si è rimediato. Ma continua la serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme. Non c’è fretta che spieghi questo pessimo andamento, tutto imputabile agli uffici di palazzo Chigi incaricati dell’attività normativa.
Andiamo avanti. Sui Dpcm il capo dello Stato non ha voce in capitolo. A suo avviso, quell’oggetto misterioso che è il Consiglio supremo di difesa potrebbe avere una qualche voce in capitolo? O questo vale solo per il caso di guerra?
Mi chiedo: perché evocare il Consiglio supremo di difesa, se non c’è un evento bellico, e specialmente se c’è lo strumento per far intervenire uno dei tre organi di garanzia, il presidente della repubblica?
Bastava, invece di abusare dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, ricorrere, almeno per quelli più importanti, a decreti presidenziali.
Aggiungo che, per la legge del 1978 sul Servizio Sanitario Nazionale, competente a emanare più della metà di quegli atti era il ministro della Salute. Abbiamo, quindi, assistito, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali. È forse eccessivo parlare di usurpazione dei poteri, ma ci si è avvicinati.
Sabino, si può dire che Dpcm a gogò in qualche misura rappresentano un correttivo della forma di governo parlamentare per i poteri che acquista il presidente del Consiglio nei confronti degli altri ministri? Per non parlare del presidente della Repubblica e, soprattutto, del Parlamento. Che non tocca palla. E la funzione di indirizzo e di controllo è andata a farsi benedire.
Gli organi di garanzia più diretti sono il presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. Quest’ultima, salvo casi eccezionali, interviene necessariamente ex post. Parlamento e Presidente della Repubblica, invece, collaborano nella funzione normativa, in modi diversi. Ma ne sono sembrati esclusi, per ragioni e con modalità diverse, senza neppure il motivo dell’urgenza, perché l’uno e l’altro organo hanno corsie preferenziali o di emergenza.
Tu non sei pregiudizialmente contrario a che per qualche tempo limitato il Parlamento lavori da remoto. Ma ci sono attività informali che solo a Montecitorio e a Palazzo Madama funzionano a dovere. Come i contatti tra leader di partito, tra capigruppo, tra parlamentari dei vari partiti eccetera.
Senza dubbio. Tanto che ho ritenuto errata l’espressione votazione telematica. Infatti, il lavoro a distanza è possibile a due condizioni. La prima che le Camere siano attrezzate ( e pare che non lo fossero). La seconda che in via telematica si possa ascoltare, intervenire, discutere, dibattere, replicare, e solo alla fine votare.
Perdonami. Con qualche esagerazione, premesso che da noi non c’è nulla di più definitivo del transitorio, ho personalmente sottolineato il rischio che le sedi istituzionali delle Camere cambino destinazione e diventino musei per la gioia dei visitatori. E’ solo una battuta?
Quando si parlò dello SDO, Sistema direzione orientale, l’idea venne presa in considerazione. Sollevarla in questo momento mi pare sbagliato. Poi, c’è da valutare l’interesse storico artistico rispetto alla funzionalità materiale dei luoghi.
Per finire. Si può capire che i Costituenti ebbero orrore a parlare di stato di emergenza. Ma con il senno di poi, alla luce della guerra contro il virus, non fu un errore questa omissione? E come colmare, a tuo avviso, questa lacuna?
Non la ritengo una lacuna. E chi abbia letto gli articoli 48 e seguenti della Costituzione ungherese sa quali pericoli si annidino in norme costituzionali di quel tipo. C’è poi l’esperienza negativa della Costituzione di Weimar. L’unica positiva mi pare quella dell’articolo 16 della Costituzione della V Repubblica francese. La Costituzione non ha peraltro ignorato la questione, solo che ha considerato la possibilità di disporre limiti dettati dalla urgenza e dal pericolo caso per caso, per singole libertà.
PIETRO ARMAROLI, IL DUBBIO, 14 APRILE 2020