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L’ITALIA CHE CAMBIA….COPIA A NON PERDE IL CONCORSO

Pubblicato il 1 febbraio, 2016 in Il territorio | No Comments »

«Aguzzate la vista», invita la Settimana Enigmistica su vignette identiche dove occorre scoprire dettagli diversi. Qui non occorre manco aguzzarla. Per andare in cattedra un docente messinese ha portato al concorso per l’abilitazione in Letteratura italiana contemporanea testi qua e là platealmente copiati di sana pianta. Fin qui, capita. Non è la prima volta, difficile sia l’ultima. Molto più grave è risposta del ministero. Dove si spiega che la commissione, messa davanti alle prove del plagio, ha deciso di non «modificare il giudizio». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…

I protagonisti della storia sono due. Di qua Dario Tomasello, dal 2006 «associato» di letteratura italiana contemporanea all’Università di Messina dove il padre Francesco era allora il potentissimo rettore, destinato a rimanere in carica tra mille polemiche fino al 2013. Di là Giuseppe Fontanelli, lui pure associato nello stesso Ateneo. Punti in comune: l’essere stati entrambi allievi di Giuseppe Amoroso, storico luminare della materia. Destini diversi: al concorsone del 2013 il giovane Tomasello passa, il più anziano Fontanelli no.

«Possibile?», mastica amaro il bocciato. Non si dà pace. Finché, come racconterà alla rivista «centonove», viene «colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta». In pratica, spiega oggi, «ho riconosciuto qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso e sono andato a controllare: c’erano pagine e pagine non ispirate ma riprese da questo o quel libro con il “copia incolla”. Senza virgolette e citazione dei testi originali».

Un esempio? Primo testo: «La vitalità di osservatore accanito del ciclo della natura spinge Pascoli a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Secondo testo: «La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…»

Uguali. Virgola per virgola, tranne due parole (di qua «ciclo della natura», di là «esistenza») ma soprattutto il poeta di cui si parla. Nel primo caso Pascoli nel libro La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore di Tomasello, nel secondo Quasimodo nel lavoro di Amoroso nel libro collettivo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre a cura di Finzi.

Cocciutamente deciso a smascherare il plagio, Fontanelli dice di avere per cinque mesi «letto tutto, confrontato tutto, scoperto tutto. O almeno quasi tutto». Messe insieme delle cartelle, mostra pagine e pagine a confronto. Saggio sul futurismo (Bisogno furioso di liberare le parole) di Tomasello: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Saggio sulla narrativa italiana (Forse un assedio) di Amoroso: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Ancora Tomasello: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto i testi nella misura di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Amoroso: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto le pagine sulla regola di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo».

Ancora Tomasello in L’isola oscena: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». Amoroso in Raccontare l’assenza: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». E potremmo andare avanti…

«Ho una produzione sterminata e, confesso, non mi ero proprio accorto del presunto “saccheggio”», disse dopo la denuncia Amoroso, «Ad aprirmi gli occhi è stato Fontanelli». Di più: «Non sono Proust, non pretendo che venissero riconosciuti la mia mano, il mio tratto. Questo mai. Non mi permetterei. Ma…». «Ho sempre agito con correttezza e professionalità», rispose Tomasello, minacciando sventagliate di querele.

Fatto sta che, davanti allo scandalo, la «chiamata» dell’accusato come ordinario a Messina fu sospesa e il nuovo rettore Pietro Navarra girò i documenti al Ministero e alla procura di Milano, competente perché lì si era riunita la commissione. Mesi e mesi di attesa, dubbi, polemiche e infine, giorni fa, al rettore messinese è arrivata una lettera del direttore generale del Miur Daniele Livon. La frase che conta è questa: «Visionata la documentazione» la commissione (che lodava il vincitore anche per i «contributi originali») ritiene di «non dover modificare il giudizio di abilitazione già reso nei riguardi del prof. Tomasello». Proprio educativo, per insegnare agli studenti a non copiare……  Gianantonio Stella, Il Corriere della Sera, 1° febbraio 2016

Cosa aggiungere a quanto amaramente chiosa Stella su questo caso di doppio nepotismi, anzi di familismo amorale che nell’Italia che cambia  (a parole), conferma che tutto si cambia perchè tutto rimanga com’è. g.

TANGENTOPOLI, FELTRI (Vittorio e padre) contro FELTRI (Mattia e figlio)

Pubblicato il 20 gennaio, 2016 in Il territorio | No Comments »

Mattia Feltri, figlio di Vittorio, ha scritto e pubblicato un libro-verità sulla vicenda di Tangentopoli il cui titolo, emblematico,  è “93″,  perchè è la storia di un anno, il 1992,  che travolse una intera classe dirigente accusata di ogni nefandezza. Mattia Feltri non la riabilita ma scava in profondità su quella vicenda tratteggiando i profili dei protagonisti e in qualche modo riequilibria colpe e ragioni di tutti. Il padre Vittorio non ci sta ed essendo stato a suo tempo tra i giornalisti che si schierarono senza se e senza ma dalla parte dei giustizialisti dell’epoca, ha  scritto una recensione del libro del figlio  estremamente dura sul Giornale. Gli ha risposto a stretto giro di posta il figlio sulla Stampa. Pubblichiamo nell’ordine i due articoli, non senza consigliarvi di acquistare e leggere il libro di Mattia Feltri. Serve a comprendere ciò che realmente accadde in quell’anno, tra il 1992 e il 1993, nel nostro Paese. g.

PERCHE’ NON SONO D’ACCORDO CON MIO FIGLIO, di VITTORIO FELTRI

Non avrei mai scritto un rigo sull’ultimo libro di mio figlio Mattia, Novantatré (L’anno del Terrore di Mani pulite), se egli non mi avesse, pur con qualche ragione, scaraventato nella discarica dei reietti che seguirono con passione la cosiddetta Tangentopoli, ricavandone la sensazione che fosse un’operazione di giustizia non sommaria, ma diretta a punire i reati commessi dai politici col pretesto di fare politica.

Non voglio impegnarmi in una difesa dalle accuse del mio diletto consanguineo rivolte ai magistrati e ai loro complici, cioè i giornalisti (categoria alla quale non mi onoro di appartenere): sarebbe un esercizio velleitario.

Le opinioni si discutono, ma raramente si cambiano. Tu, caro Mattia, narri con efficacia ciò che accadeva nei giorni del 1993 (e anche del 1992): arresti in massa, il tintinnio minaccioso delle manette che era diventato la colonna sonora di quei tempi funesti, le detenzioni tese a strappare confessioni, le delazioni finalizzate a ottenere la libertà (almeno) provvisoria. Racconti con dovizia di particolari le vanterie della Procura di Milano, la paura che serpeggiava nelle segreterie dei partiti (del Caf), le angosce degli indagati, le varie porcherie commesse nelle stanze del Palazzaccio, la disinvoltura acritica dei cronisti giudiziari che si abbeveravano negli uffici dei Pm e compilavano articoli interamente ispirati dalle toghe.Hai ricostruito fedelmente, con autentico pathos, il clima che si respirava in quegli anni tribolati a Milano: Antonio Di Pietro, oscuro manovale del diritto, all’improvviso salito sul piedistallo riservato agli eroi, venerato come la Madonna, invocato quale purificatore, amato dalle folle perché per primo castigava i reprobi. Hai dipinto un quadro in parte abbacinante e in parte fosco. La realtà, d’altronde, non è mai a tinta unita. Hai reso alla perfezione l’atmosfera diurna dell’epoca. Ma hai completamente trascurato cosa accadeva nelle notti della Prima Repubblica. Di notte entrava in azione la Banda Bassotti. Forse te ne sei dimenticato. Forse ti sei lasciato trascinare dalla vena letteraria e ti sei fissato sulle nequizie della famosa e turpe inchiesta. La smemoratezza è una malattia di molte famiglie, figurati se la nostra ne è immune.

Di giorno i magistrati facevano strage di mariuoli, di ladri e anche di innocenti: ma al calar delle Tenebre, caro Mattia, si perpetravano furti su furti per decenni impuniti, considerati perdonabile routine. Era diffusa la sensazione che la tangente fosse lecita, una pratica di ordinaria furfanteria. I politici che rubavano per il partito non si sentivano colpevoli, erano persuasi di agire per il bene della Patria e non esitavano a riempirsi le tasche di denaro sporco, confondendolo con il proprio e usandolo in proprio per pagarsi le ville sull’Appia Antica, la cui pigione veniva saldata prelevando l’occorrente dal bottino.Su questo è opportuno sorvolare? Essi spendevano e spandevano senza requie. Vivevano ben oltre le loro disponibilità. Con quali mezzi? Da notare che se fregare per il partito non sembra una grave scorrettezza, in verità è gravissima, perché non c’è neppure l’attenuante dello stato di necessità. Rubavano, i politici, allegramente a livello istituzionale. Autorizzati dal superiore principio secondo il quale la democrazia costa. I partiti organizzavano congressi e riunioni faraoniche, cui seguivano serate in discoteca dove scorrevano fiumi di champagne. Chi saldava il conto? Le aziende che versavano le stecche in cambio di lavoro. Ciò faceva comodo anche agli imprenditori, i quali però, se non si fossero piegati alle richieste delle segreterie, sarebbero stati tagliati fuori dagli appalti. Un’opera pubblica da un milione, finiva così per costare due milioni o tre. La spartizione era assai onerosa.Risultato. Il debito pubblico impazziva. E ne soffriamo ancora gli effetti devastanti. Che dovevano fare Di Pietro e i suoi soci, voltare la testa dall’altra parte, fingere di non vedere? I magistrati hanno sbarellato, ansiosi com’erano di salire alla ribalta. Ed io, come altri cronisti, ho assecondato ciecamente un sistema investigativo pressappochistico e dozzinale che, però, se non giustificabile, era comprensibile dato il momento. Un momento di forti tensioni sociali, influenzato ed alimentato dal desiderio di cancellare una classe dirigente incapace (come quella attuale) di amministrare la cosa pubblica, sacrificandola alla saccoccia.Mattia, ti chiedo per quale motivo il pentapartito, che era al governo, non ha mai pensato a legittimare il finanziamento privato della politica. Era nelle sue facoltà approvare una legge in proposito. Non ha mai provveduto a farlo perché, se tutto fosse stato chiaro e controllato, nessuno avrebbe più distratto una lira in quanto ogni partito sarebbe stato costretto a presentare bilanci verificati. Zero margini per appropriazioni indebite. E con quali soldi sarebbero stati liquidati gli affitti delle ville sull’Appia Antica? E chi avrebbe contribuito ad incrementare i consumi della cosiddetta Milano da bere?Non siamo nati ieri, né tu né io; abbiamo uso di mondo e siamo consapevoli di come girasse il fumo negli ambienti politici.

Sono stati trovati conti ricchi all’estero attribuibili a personaggi dei partiti. Ovvio che la magistratura abbia colpito duro, acquisendo poi un potere eccessivo di cui sopportiamo ancora i riflessi. Ti do atto che nel casino generato da Mani pulite, accresciuto dallo sbandamento provocato dalla avanzata della Lega, dal crollo del muro di Berlino, dalla perdita di credibilità dei partiti, si sono compiute nelle indagini delle immonde esagerazioni. Cosicché ha preso piede un giustizialismo che si spiega soltanto con la fregola di spingere la sinistra alla conquista del primato nazionale a spese degli altri partiti. E cara grazia che Berlusconi ha spaccato il giochino degli ex comunisti.Questo è noto a tutti. Ma prima di dire che il dipietrismo è stato solo schifezze occorre riflettere. Tonino non ha violentato un esercito di vergini, ma ha sbaragliato una cosca di ladri che non ebbe il coraggio di varare una legge idonea a porre ordine nella materia. Una classe politica di straccioni. Alcuni dei quali sono stati castigati ingiustamente, ma altri l’hanno fatta franca, per esempio i compagni. E ciò è indigeribile e autorizza a sospettare che le toghe non abbiano agito con troppo zelo. Tuttavia, non sottovalutiamo un fatto: se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70 per cento. Amen. Peccato che un libro sui grassatori non sia mai uscito, completo.Per concludere. Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile in pieno. Su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene. Se il prezzo della democrazia è la disonestà endemica, conviene intervenire col pugno di ferro. Quanto agli errori dei magistrati, non è il caso di enfatizzare quelli a danno dei politici. I cittadini ogni giorno sono vittime di soprusi e angherie in tribunale, e nessun parlamentare di oggi e di ieri ha osato fiatare. Vittorio Feltri

PERCHE’ MIO PADRE SBAGLIA, di MATTIA FELTRI

Giovedì scorso è uscito un mio libro – «Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite», edito da Marsilio – e ieri il «Giornale» ne ha pubblicato un’ampia stroncatura firmata da Vittorio Feltri, cioè mio padre. Non c’è stupore né amarezza, abbiamo un rapporto eccellente e franco: in «Novantatré» lui è «scaraventato nella discarica dei reietti», per usare le sue parole, ma sappiamo entrambi che non c’è niente di personale. E poi su Mani pulite discutiamo da decenni, io spretato e critico, mio padre più favorevole, sebbene non entusiasta come quando dirigeva l’«Indipendente»; talvolta pare che ci stiamo avvicinando e invece no, ognuno resta al punto di partenza. Ci resta soprattutto lui, che mi rimprovera di trascurare «furti su furti, per decenni impuniti» da parte dei politici che «spendevano e spandevano senza requie» e per questo «il debito pubblico impazziva e ne soffriamo ancora gli effetti devastanti». Dunque «se la Giustizia ha sbagliato al 30 per cento, i ladri della Prima Repubblica hanno sbagliato al 70». Eppure il pentapartito non pensò mai di «legittimare il finanziamento privato della politica» perché sennò «zero margini per appropriazioni indebite». Infine, «Craxi quando disse che il ladrocinio era un male comune colse nel segno. Sul piano storico e politico pronunciò un discorso condivisibile (…) su quello giudiziario egli aveva torto: non esistono malversazioni a fin di bene».

Sono un po’ in imbarazzo perché la disputa mi sembra fuori fuoco: la disonestà generale della classe politica non è contestata, ma è il presupposto – nell’introduzione avverto che il libro non è negazionista, «le mazzette c’erano, i colpevoli c’erano, il sistema era talmente diffuso da coinvolgere tutti…» – esattamente come era il presupposto di Bettino Craxi che nel luglio del 1992, all’alba della grande inchiesta, riconobbe davanti a un Parlamento silente e vile che «fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati». Né impunità né «malversazione a fin di bene», piuttosto Craxi aggiunse che nessuno aveva diritto di nascondersi dietro un’onestà provvisoria, e da questa considerazione, politica, non penale, bisognava trarre le conseguenze. Un nuovo regime fondato sulla menzogna delle mani pulite vincenti sulle mani sporche non sarebbe andato lontano. Come poi si è visto.

Mi spiace che le mie pagine vengano lette come i tempi supplementari del derby politica-magistratura. Non ci credo più da secoli. La magistratura fu pessima come pessimi fummo tutti noi, semmai disponeva di armi micidiali; al linciaggio del pentapartito, che ci aveva tenuti dalla parte giusta della storia, e cioè lontani da Mosca, parteciparono in massa con sanguinario disincanto i giudici e gli ex comunisti, seconde file della politica e imprenditori, giornalisti e popolo eccitato, tutti a ritagliarsi uno spazio e un ruolo nell’Italia che rinasceva, e a ritagliarselo all’ultimo minuto, come al solito. Si esultava collettivamente a ogni arresto e a ogni suicidio perché avevamo trovato il capro espiatorio. E fummo così inconsistenti e sprovveduti da restare senza fiato quando si andò a sbattere contro l’esito della scalcagnata rivoluzione: nel ’93 avevano diritto di cittadinanza soltanto i partiti eredi delle tradizioni assassine del Novecento, postcomunisti e postfascisti, condannati dalla storia, ma assolti in tribunale. Ed era già troppo tardi.

Il mio libro si chiama «Novantatré» (come ha capito perfettamente Gianni Riotta, che lo ha recensito per la «Stampa») ma si potrebbe chiamare Sedici. Perché da ventitré anni continuiamo a raccontarci una favoletta insopportabile: tutta colpa della casta. Anche mio padre fa risalire il debito pubblico anzitutto alle tangenti, quando invece è stato contratto per garantire un colossale assistenzialismo fatto di welfare e pubblico impiego, per sopportare l’assenteismo degli statali e l’evasione fiscale degli autonomi: chi viveva e continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità è un Paese intero. Il problema del «Novantatré» è lo stesso problema del Sedici: la malattia sono gli italiani. Se abbiamo questa politica e questa magistratura e questo giornalismo è perché siamo questa Italia. Mattia Feltri

L’ARTE DI CONVIVERE, di Massimo Grimellini per La Stampa

Pubblicato il 13 novembre, 2015 in Il territorio | No Comments »

Si può proibire a dei bambini delle elementari una passeggiata di bellezza tra la «Crocifissione Bianca» di Chagall e i quadri a soggetto religioso di Guttuso e Van Gogh «per venire incontro alle sensibilità delle famiglie non cattoliche»? Succede alla scuola Matteotti di Firenze, dove alcuni genitori denunciano la cancellazione di una visita alla mostra di Palazzo Strozzi dedicata al rapporto tra arte e sacro.

Sarà un ragionamento insensibile, ma se alcune famiglie musulmane (la tartufesca definizione di «non cattoliche» si riferisce ovviamente ed esclusivamente a loro) si considerano così urtate dalla presenza di qualche croce in un museo, possono sempre tenere i figli a casa, senza per questo che a casa ci debbano restare pure tutti gli altri. Altrimenti il prossimo passo sarà mettere all’ indice il Battistero e la cupola del Brunelleschi, con il risultato che per non urtare la sensibilità di chi arriva da fuori si urterà terribilmente quella dei fiorentini, non meno meritevole di tutela.

Quando si parla di integrazione, si gira sempre intorno allo stesso tema: la mancanza di reciprocità. Per un occidentale, credente o ateo che sia, visitare una moschea o una mostra di mosaici non rappresenta un problema. Per molti musulmani, invece, l’ esistenza di altre culture intrise di simboli religiosi genera disagio o addirittura insofferenza. Questa mancanza di reciprocità vanifica ogni slancio di comprensione. Se gli sforzi vengono fatti sempre da una parte sola, alla fine producono esiti grotteschi come a Firenze. Alimentando per reazione un riflesso, questo sì reciproco, di chiusura. Massimo Grimellini, La Stampa, 13 novembre 2015

…….Da ieri ne stanno parlando tutti i giornali. Si tratta di un atto di razzismo al rovescio, anzi di intolleranza religiosa all’incontrario. Ma si tratta anche di un atto di estrema stupidità da parte di insegnanti che per dar prova di presunta “tolleranza” religiosa verso i mussulmani a danno dei cattolici,  hanno finito col commettere un atto di intolleranza religiosa nei confronti di bambini cui si è impedito di accedere alla visione di grandi artisti che tra le altre opere  hanno anche dipinto soggetti religiosi la cui natura immortale ed eterna non può essere ostaggio di sciocche e puerili manifestazioni di presunto “politicamente corretto”. Rispetto alla gravità del fatto che fa coppia con altri casi che si sono avuti nel recente passato (il mancato allestimento del presepe in alcune scuole, emulato i queste ore dal governo di sinistra della  Città di Madrid che a sua volta ha deciso di non allestire il presepe in città con le stesse motivazioni delle insegnanti di Firenze) non basta la denuncia giornalistica, il sarcasmo di Gramellini, la dichiarazione di “insensatezza” da parte del sindaco di Firenze, bisogna che il ministro della P.I.intervenga con provvediemti disciplinari nei  confronti delle insegnanti di Firenze che dissennatamente hanno deciso di privare gli alunni di loro diritti e anche di professare la loro religiosità. Ancor più il provvedimento disciplinare deve   riguardare i dirigenti scolastici che troppo spesso abdicano alle loro funzioni di controllo e talvolta si compiacciono di essere a capo di istituzioni che sopravanzano le leggi dello Stato e ancor più quelle del buon senso. g.

FORZA ITALIA E L’ALLEATO INEVITABILE, di Aldo Cazzullo

Pubblicato il 7 novembre, 2015 in Il territorio | No Comments »

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Ma perché dovrebbe stupire, scandalizzare, dividere Forza Italia – o quel che ne resta -, il fatto che Berlusconi vada nella piazza della Lega a Bologna? Era il caso di montare uno psicodramma? Non vale neppure la pena rispondere a chi sta cercando di creare un clima da luglio 1960: è evidente che qualsiasi forza politica democratica ha diritto di espressione in qualsiasi città; e proprio da Bologna, con una manifestazione dal titolo molto esplicito, Grillo lanciò la sua rincorsa al 25 per cento. Più interessante è capire perché desti meraviglia e acrimonia, anche dentro Forza Italia, la circostanza che il fondatore manifesti con la Lega .

Non c’è dubbio che, se dovesse scegliere un commensale o un compagno di vacanze, Berlusconi preferirebbe Renzi a Salvini. Ma, dopo la fine delle larghe intese e dopo la rottura del patto del Nazareno, l’alleanza con i leghisti e la ricostruzione del centrodestra è per lui la via obbligata. Ogni leader politico ha uno schema in testa. E con quello gioca la sua partita. Lo schema di Berlusconi fin dal ‘94 è sempre stato unire tutti gli oppositori della sinistra, dai moderati ai radicali, senza arretrare di fronte a nulla: il Bossi secessionista, il Fini secondo cui Mussolini era il più grande statista del Novecento, e poi gruppuscoli e personaggi anche meno significativi. Non si vede perché non dovrebbe cercare anche ora l’alleanza con una Lega in salute, oltretutto in un momento in cui Salvini sembra aver rinunciato, almeno a parole, alla scorciatoia populista – l’uscita dall’euro, la guerra a Berlino e a Bruxelles – che la svolta greca ha dimostrato impraticabile.

Berlusconi rischia di sottomettersi a Salvini? Ma il consenso ormai è lì, lì ormai – anche a causa degli errori di questi anni – sono i suoi elettori, non al centro, presidiato da Renzi: un’area in cui sarà molto difficile che partitini nati da operazioni di Palazzo si trasformino in una forza politica autonoma e competitiva alle elezioni. E, se vuole conservare un ruolo di raccordo, Berlusconi deve stare dov’è il consenso; tentando di orientarlo in una prospettiva ragionevole di opposizione e di alternanza, anziché verso una deriva antisistema. Che poi nel ruolo di trait d’union che fu di Tremonti ci sia oggi il suo arcinemico Brunetta – grande sostenitore della flat tax , l’aliquota unica proposta dal Carroccio – è solo un’apparente bizzarria che conferma la regola della politica italiana degli ultimi vent’anni.

Non è impossibile che sia proprio la Lega a esprimere il candidato premier del centrodestra. Anche la Cdu – mutato il molto che c’è da mutare – nel 1998 lasciò che corresse per la cancelleria il capo degli alleati bavaresi della Csu: Stoiber però fu travolto dal socialdemocratico Schröder, il cui slogan era appunto «Die Neue Mitte», il nuovo Centro. Al di là della dimostrazione di forza a Bologna, per Salvini un ballottaggio contro Renzi sarebbe ostico; tanto più che il suo sbarco al Sud per ora è fallito, perché la Lega Sud non può nascere come una sottomarca di un prodotto del Nord. Ma se Salvini e Berlusconi trovassero insieme un uomo davvero nuovo, credibile e fuori dai giochi, come è stato Brugnaro per Venezia, allora l’esito finale potrebbe riaprirsi; perché il centrodestra in Italia ha una riserva di voti più ampia, e non è scontato che lo schema di Renzi – giocarsi la partita a tutto campo, ponendosi non come antiberlusconiano ma come postberlusconiano – porti i voti necessari a compensare l’emorragia a sinistra. Restare accanto alla Lega, per ricostruire un’alleanza credibile in futuro per il governo del Paese: al di là delle intemperanze verbali che certo ascolteremo domani da piazza Maggiore, Berlusconi non ha prospettive diverse da questa. Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 7 novembre 2015

….Aldo Cazzulo non è un “uomo di destra”, anzi è notoriamente su posizioni politiche molto lontane dalla Destra,  per cui c’è da stupirsi di quanto oggi scrive, anche paventando una possibile capacità di vittoria di un centro destra riaggregato alle prossime scadenze elettorali, vuoi amministrative, vuoi politiche. C’è da stupirsi, certo,   e magari anche da immaginare un qualche sospetto che si tratti di una tesi trappola, cioè sostenere la ineluttabilità della riaggregazione del centro destra e nell’ambito di questa il riavvicinamento di Forza Italia e Berlusconi alla Lega Nord e a Salvini,  per far scappare  gli elettori moderati, quelli non proprio felici del linguaggio di Salvini, allo scopo, nascosto, di indurli a rivolgersi al nuovo  ( e orrendo) nuovo centro  rappresentato da Renzi e dal suo partito in cui sono ormai più i transfughi che provengono da ogni parte politica che non gli originari fondatori del PD, cioè ex comunisti e ex cattolici democratici. Può essere, certo, perchè in politica ogni sospetto è lecito, anzi utile, ma nella fattispecie Cazzullo ha indicato una via obbligata per Berlusconi e per l’intero centrodestra: se non ci si aggrega non si va da nessuna parte, divisi si resta solo testimoni senza voce nel panorama politico del nostro Paese e del Continente che non è quello che avevano e avevamo sognato, cioè un continente capace di far politica, di essere interprete di tutti senza rinnegare le Patrie di nessuno. Sin qui la strategia, cioè unirsi. Poi c’è la tattica, cioè nell’ambito della riaggregazione individuare gli strumenti e i percorsi più utili per raggiungere l’obiettivo. E forse più che nella strategia, inevitabile, è nella tattica che si può e si deve misurare la capacità di una nuova alleanza che possa trasformarsi in forza di governo. E in questo senso non sono mancati nel passato, recente  e meno recente, molti errori, ma anche altrettanti esempi di intelligenza e buon senso. Da uomini di destra qual siamo,   senza se e senza ma, confidiamo con tutta la nostra forza che più che agli errori del passato, da passato  si attinga il buon esempio. g.

I MERITI DELL’EUROPA, di Antonio Polito

Pubblicato il 2 settembre, 2015 in Il territorio | No Comments »

Questa estate del settantesimo anniversario dalla fine della guerra l’Europa l’ha trascorsa a litigare sull’euro, ma l’Asia la sta passando a parlare di guerra. Domani la Cina comunista celebrerà per la prima volta, ascrivendosela, la vittoria contro il Giappone, con un’esibizione di potenza militare tanto più minacciosa perché inscenata in quella piazza Tienanmen dove l’Esercito Popolare fu usato contro il suo popolo (tra parentesi: era proprio necessario mandarci il nostro ministro degli Esteri? Non bastava un ambasciatore, come hanno fatto Usa e Germania?). Né è meno surriscaldato il clima nel Paese sconfitto: in Giappone infuria il dibattito sul riarmo, il governo reinterpreta e forse emenda l’articolo 9 della Costituzione, caposaldo del pacifismo nipponico post Hiroshima, con l’ambizione di riappropriarsi del diritto di usare le forze armate; e gli studenti protestano riempiendo la piazza di Tokyo come se fossero gli anni 60, insieme alle star della musica e della tv si schierano contro il premier Abe.

Territori restano contesi, tra il Giappone e la Russia, tra il Giappone e la Cina. La Corea del Nord è uno Stato canaglia che gioca col nucleare. Tokyo si sente accerchiata, sempre meno protetta da un’America stanca di guerra, teme di non potersi più permettere il pacifismo e appare sempre più stufa di dover chiedere continuamente perdono ai suoi ex nemici (per l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino l’attuale imperatore Akihito dovrebbe scusarsi con la Cina a nome del padre defunto Hirohito, riaprendo così la questione imperiale). Il Giappone riscopre il nazionalismo e lo nutre di un revisionismo storico che celebra, insieme alle vittime della guerra, anche i criminali di guerra sepolti con loro, e sempre più spesso tenta di ridimensionarne i crimini, a partire dallo stupro di Nanchino del 1937.

Per un europeo è sorprendente assistere al perdurare, e addirittura all’incrudelirsi di un così forte rancore per vicende storiche da cui ci dividono tre o quattro generazioni. I regimi asiatici sfruttano il patriottismo fino al punto di inventare tradizioni, per controllare il passato e far dimenticare i guai dell’oggi. È come se in Europa la Francia dedicasse una parata militare e una settimana di ferie dal lavoro a celebrare la sconfitta della Germania, o un giornale tedesco pretendesse le scuse di Elisabetta II per il bombardamento a tappeto di Dresda del 1945.

Ma la ragione per cui tutto ciò ci sembra assurdo e anacronistico non è perché la storia non si possa ripetere se non come farsa: basta guardare a ciò che sta accadendo in queste ore in Ungheria per capire che gli esseri umani sono capacissimi di ripetere anche la tragedia. Ciò che in Europa è diverso è l’atto di volontà politica con cui ci siamo buttati alle spalle il nostro tragico Novecento dando vita a una Unione tra gli Stati che si erano combattuti, trasformando cioè la fine della guerra in vera pacificazione, e l’antagonismo militare in cooperazione economica. I venti che soffiano in Asia, continente in cui questo processo non è mai nemmeno cominciato, dovrebbero ricordarcelo.

Aver messo fine alle guerre non è un merito obsoleto dell’Europa buono solo per la cerimonia del Nobel per la pace, qualcosa di così scontato e di così lontano dalle nuove generazioni da non giustificare più la fatica, le pecche e gli errori dell’Unione. Tutto sommato, è molto meglio litigare sull’euro che sul riarmo. Perfino la crisi dei migranti è una conseguenza di questo successo storico. L’Europa è un’oasi di pace circondata da un mare di guerre, attrae chi ama la vita come una calamita. O, se vogliamo, come un faro di civiltà nella notte infinita dell’odio tra i popoli . Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 2 settembre 2015

……Ha ragione Polito a rivendicare all’Europa il merito di aver trasformato  un’area di guerre, l’ultima  è stata la più disastriosa di tutte, in un’area di pace, e che è meglio litigare sull’euro ( e non solo!) piuttosto che cannonneggiarsi l’uno con l’altro. Però dimentica Polito di sottolineare  che il merito va riconosciuto e  ascritto ai Padri dell’Europa  che perseguirono con determinazione e impegno questo obiettivo; ma quegli stessi Padri dell’Europa unita, o meglio degli Stati uniti d’Europa, pensavano ad una Europa dei Popoli e delle Nazioni, non pensavano certo all’ Europa dei burocrati e ad una unione europea solo economica e non politica, o, peggio ad una europa dedescocentrica nonostante tra i Padri  della nuoiva Europa v’era Adenauer che, però, aveva una visione molto più aperta rispetto ai tedeschi di oggi. Ai meriti, quindi, debbono far da riscontro i demeriti e se si vuole le degenerazioni rispetto all’Idea che mosse gli statisti di un sessantennio fa ad adoperarsi per creare prima le condizioni e poi le basi per costruire uno Stato sovranazionale che però non affogasse gli spiriti e le tradizioni nazionali in una burocrazia cieca ed egemonica che ha finito col fomentare le avversioni ad una unione europa che annega in un mare di proteste e contestazioni. Si può tornare indietro, recuperare lo spirito dei Padri fondatori dell’unità eurpea e solo allora i meriti  di quei “visionari” potranno conuigarsi con una nuova e più fertile stagione “europea”. g.

SINISTRA DI GOVERNO: PENSIERI E PAROLE DA RITROVARE, di Antonio Polito

Pubblicato il 20 giugno, 2015 in Il territorio | No Comments »

La ex premier danese Helle Thorning-Schmidt (Reuters) La ex premier danese Helle Thorning-Schmidt (Reuters)

C ome i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.

Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata. Antonio Polito, Il Corriere  della Sera, 20 giugno 2015

IERI, OGGI E….DOMANI?

Pubblicato il 22 maggio, 2015 in Il territorio | No Comments »

QUELL’EUROCAVILLO CHE COSTA CARO ALLA PUGLIA, di Bepi Castellaneta

Pubblicato il 13 aprile, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »

La furia dell’acqua ha sparso terrore e morte trasformando una luccicante cartolina della Puglia turistica in una palude di fango. E un cavillo legato a una percentuale ha cancellato invece la speranza di un aiuto da parte dell’Europa. I danni infatti non sarebbero superiori all’1,5 del Prodotto interno loro regionale: tanto basta all’Ue per impedire di avviare la pratica, questa semplice soglia è sufficiente per respingere qualsiasi progetto di rinascita che passi per gli aiuti comunitari. Perché proprio quella percentuale è il limite fissato nei rigidi meccanismi di un ingranaggio che non fa sconti anche se paradossalmente si chiama «fondo di solidarietà». Una misura che sarà pure ancorata a una giusta ripartizione delle risorse tra i vari Paesi, ma sfugge a una logica di equità se si tiene presente che in una regione ogni provincia è differente dall’altra e il comune denominatore del Pil regionale può raccontare una situazione diversa dall’emergenza reale. Fatto sta che il Gargano si ritrova solo, lasciato a rimboccarsi le maniche dopo la tragedia che il 6 settembre dell’anno scorso travolse Peschici e altri centri vicini, un’alluvione che provocò due vittime e devastò nel giro di poche ore case e alberghi, campeggi e fattorie. Una terra in ginocchio, come annunciato dallo spicchio di mare divenuto marrone, un lago spettrale, immobile, sorvolato dall’elicottero di Matteo Renzi: il premier accorse al capezzale della Puglia ferita, ma non è chiaro quali verifiche siano state fatte dal governo per accertare se i danni fossero davvero inferiori alla fatidica soglia stabilita dall’euroburocrazia e se ci fossero i presupposti per avviare la richiesta di accesso ai fondi.

Due giorni fa la Commissione europea ha sbloccato 1,98 milioni di euro per la Bulgaria, 8,5 milioni per la Romania e 56 milioni per l’Italia: risorse che serviranno a coprire gli interventi di emergenza attivati in seguito alle alluvioni in Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte e Toscana. Lo ha annunciato la Commissaria per la Politica regionale dell’Ue, Corina Cretu, dopo l’interrogazione dell’europarlamentare (lombarda) di Forza Italia Lara Comi. Per la Puglia non è previsto neanche un centesimo: il governo italiano non l’ha inserita nel dossier inviato a Bruxelles. Sul Gargano dovranno arrangiarsi da soli, aggrappandosi a fondi statali e regionali. Come avvenne dopo il tragico incendio del 24 luglio del 2007 a Peschici: tre morti e migliaia di sfollati, almeno cinquanta milioni di danni, ma la richiesta di risarcimento fu respinta perché la domanda fu presentata in ritardo. E adesso, l’Europa è ancora più lontana. Bepi Castellaneta, Il Corriere del Mezzogiorno, 13 aprile 2015

…Una ragione di più per dubitare della efficienza e, sopratutto, delll’equilibrio della istituzione europea, la stessa che come nei paesi del terzo mondo sanzionano i pescatori italiani se usano reti di un millimetro in più dello stabilito per la pesca di pesci che attraverso le reti non passerebbero neppure se fossero fantasmi. Ecco, questa è la Europa dei burocrati strapagati per fare leggi e regolamenti a dir poco strampalati. E a farne le spese sono, come i quiesto caso, i ougliesi, i foggiani, i pescatori di Peschici. g.

I MISTERIOSI COSTI DEI POLITICI, di Gian Antonio Stella

Pubblicato il 2 aprile, 2015 in Il territorio | No Comments »

«Misteriosi e non accessibili»: sono sassate, le parole del «rapporto Cottarelli» per spiegare i troppi dubbi sui canali attraverso cui i soldi seguitano ad arrivare alla cattiva politica. Sassate che mandano in pezzi la bella vetrina luccicante dove era stata esposta agli italiani l’abolizione del finanziamento pubblico.
Ma come: neppure gli esperti scelti dal commissario incaricato dallo Stato di scovare le escrescenze da rimuovere con la spending review han potuto scavare fino in fondo? No. Carlo Cottarelli l’aveva buttata lì nell’intervista a Beppe Severgnini mentre già stava tornando al suo ufficio a Washington: «Spesso molti documenti non mi venivano dati. Non per cattiva intenzione, ma perché non facevo parte della struttura».

Il dossier «numero 5» sui costi della politica, tenuto in ammollo un anno (con spiritati inviti ad agire «entro fine febbraio 2014») accusa: «Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi». Non solo «l’eterogeneità della contabilità regionale ha reso molto difficile svolgere stime accurate» ma, appunto, «restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica». Testuale.

Vale per le Fondazioni dai nomi più altisonanti che, in assenza di regole chiare, sono ripetutamente coinvolte in pasticci troppo spesso dai risvolti giudiziari. Vale per i privilegi figli di altre stagioni e accanitamente difesi come le prebende ai giornali di partito, le agevolazioni postali (0,04 euro a lettera!) che si traducono «in un credito di Poste Italiane nei confronti del Tesoro per 550 milioni di euro», o l’Iva sulla pubblicità elettorale al 4 per cento, «ovvero la stessa aliquota vigente per i beni di prima necessità». Vale infine per le agevolazioni fiscali più generose concesse a chi regala soldi a questa o quella forza politica invece che, ad esempio, ad una onlus impegnata nell’assistenza ai malati terminali: «Non appare evidente il motivo per cui ai finanziamenti privati ai partiti debba essere riconosciuto un regime di favore rispetto alle altre associazioni».

Per non dire di norme che sembrano studiate apposta per sollevare fumo. Un esempio? Il comma 3 dell’articolo 5 dell’ultima legge sul finanziamento pubblico dove, in una brodaglia di 342 parole e tecnicismi si spiega che il nome di chi dona fino a centomila euro l’anno a un partito «con mezzi di pagamento diversi dal contante che consentano la tracciabilità» va reso comunque pubblico sul sito web del partito stesso. Ma solo nel caso «dei soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso». Evviva la trasparenza…
Eppure l’ex commissario ai tagli batte e ribatte lì: trasparenza, trasparenza, trasparenza. «La pressione dell’opinione pubblica è essenziale per evitare gli sprechi». Quindi, salvo le rare e ovvie eccezioni che riguardano la sicurezza, «tutto dev’essere disponibile online ». Tutto. Dalla banca dati dei costi standard a quella dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
E sempre lì torniamo. Alla necessità assoluta di offrire ai cittadini la possibilità di leggere i bilanci. Leggerli sul serio: la vera trasparenza non può essere alla portata dei soli specialisti in grado di capire le più acute sottigliezze da legulei. Se è vero, come scriveva un secolo fa Max Weber, che lo Stato «cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico», è fondamentale per noi, che abbiamo un enorme problema di corruzione, aprire le finestre perché ogni contratto sia finalmente trasparente. E leggibile.
Perché è lì, come hanno dimostrato decine di casi, che si annida la serpe del finanziamento occulto dei cattivi imprenditori ai cattivi politici. Scardinando le regole della sana economia, facendo lievitare i costi e imponendo, dice la Corte dei Conti, «una vera e propria tassa immorale ed occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».

Lo sapevamo già prima del rapporto Cottarelli? Certo. Colpisce, però, leggere su un documento ufficiale lo sfogo di chi, dopo essersi visto affidare dallo Stato la missione di studiare le storture di un sistema ancora corrotto dalla cattiva politica, spiega di aver dovuto fare i conti con ostilità enormi.
Basti leggere, oltre ai già citati, questo passaggio firmato dal gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon, che confessa di non essere proprio in grado di fornire dati precisi, ad esempio, sulle buste paga reali di governatori, assessori o consiglieri: «La difficoltà a ricostruire una banca dati affidabile per i costi del personale politico, incontrata anche in questo rapporto, dipende (oltre che dalla presenza della diaria) dalla moltiplicazione delle indennità, che gonfiano le retribuzioni e rendono poco significativa la retribuzione del singolo consigliere per la stima della spesa complessiva» Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 2 aprile 2015

……Mentre per gli italiani di serie B c’è l’Agenzia delle Entrate che controlla anche i respiri di ciascuno di noi, per i politici non c’è regola che tenga, i loro conti restano blindati e inaccessibili per tutti, anche per quelli designati al controllo con tanto di roboanti decreti e altrettanti roboanti annunci. g.

DOPO IL CASO LUPI: DUE PESI E DUE MISURE, di Antonio Polito

Pubblicato il 21 marzo, 2015 in Il territorio, Politica | No Comments »

Maurizio Lupi, ex ministro delle Infrastrutture (Reuters)

Maurizio Lupi, ministro della Repubblica, non indagato, dimesso. Vincenzo De Luca, candidato governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso di ufficio, non dimesso. Francesca Barracciu, indagata, candidata governatore della Sardegna, dimessa; poi promossa sottosegretario (insieme ad altri tre sottosegretari indagati, sulla cui posizione pare che il premier stia ora riflettendo). Nunzia De Girolamo, ministro, all’epoca non indagata, dimessa.

Ce n’è abbastanza per chiedersi se esista un nuovo codice non scritto per il trattamento dei politici che finiscono negli scandali, e chi l’abbia scritto. Di certo quello vecchio è caduto in disuso. All’epoca di Tangentopoli bastava un avviso di garanzia per tagliare la testa a un membro del governo. Ma anche dopo, nella Seconda Repubblica, vigeva una prassi che potremmo definire sì «giustizialista», ma regolata. In sostanza consisteva nell’affidare ai pm e ai giudici la selezione della classe dirigente: a ogni provvedimento giurisdizionale seguiva una più o meno adeguata sanzione politica. Prassi poi codificata in legge con la Severino, che fissa nella prima condanna il limite oltre il quale scattano le punizioni, cominciando con la sospensione per finire con la decadenza in caso di sentenza definitiva.

Ma oggi, nell’era Renzi, la Severino è contestata per eccessiva rigidità, e infatti pur condannato De Luca si candida; mentre sembra essersi alzata la soglia di tolleranza per i non indagati. La spiegazione potrebbe essere nello strapotere del premier: in realtà si dimette solo chi decide lui. E qualcuno perciò lo accusa di colpire di preferenza gli scandali degli altri, e di coprire quelli più vicini a lui; un classico caso di due pesi e due misure. Ma neanche questo sembra essere del tutto vero, perché fu Renzi a far dimettere il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, democratico, indagato, che non ne aveva alcuna voglia. Qual è allora il nuovo criterio?

Io credo che sia l’umore dell’opinione pubblica, di cui Renzi si considera un buon medium. Nel senso che il premier usa come metro morale il suo gradimento politico: se una condanna può essere perdonata dagli elettori (nel caso di De Luca, per esempio, parrebbe di sì, visto che ha vinto le primarie) lui lascia perdere, se capisce che può arrecargli un danno serio nel suo rapporto con l’opinione pubblica, come nel caso di Lupi, diventa inflessibile.


È un metodo a suo modo politico, certo più di quello giustizialista che non si può davvero rimpiangere; ma senza regole, e molto arbitrario. Soprattutto perché dipende da circostanze e dettagli casuali, spesso senza rilevanza penale, che possono molto influenzare l’opinione pubblica se sono mediaticamente efficaci. Un Rolex in regalo, per esempio, un abito di sartoria in offerta, un modo di parlare sgradevole o volgare al telefono, valgono mille condanne penali nel tribunale del popolo e dei media. E non è certo una novità. Berlusconi ha pagato molto di più in termini di consenso e di credibilità per il caso Ruby, nel quale è stato assolto, che nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato.

È un processo tipico delle società di massa, ma pieno di incognite. Se infatti un’intercettazione è più importante di una sentenza, e diventa decisivo se farla conoscere o no, per riassunto o testuale, e il momento dell’inchiesta in cui la si rende pubblica, allora rischiamo che la lotta politica condizioni il corso della giustizia, invece che la giustizia influenzi la politica come avveniva vent’anni fa. Un giustizialismo alla rovescia, esercitato dalla piazza invece che dal tribunale. Non so se è meglio. Fu una piazza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 21 marzo 2105

……..Ci gira intorno, Polito, ma la sostanza del problema è che Renzi decide chi deve soggiacere e chi no al giustizialismo edizione 2015. E’ valso per Lupi, non indagato, la regola del “prodomosua” cioè di Renzi che oramai è l’unica regola a cui si attiene il capo  del Pd e il capo del governo. Già questa anomalia,  il doppio incarico, la dice lunga sulla situazione italiana. Chi non ricorda, ai tempi della DC, la furibonda guerra che si scatenò all’interno della Balena Bianca quando De Mua, segretaro della DC, ebbe l’incarico di formare il governo, succedendo a Craxi fatto sloggiare da palazzo Chigi? I demitiani volevano che De Mita mantenesse il doppio ncarico, forse temendo, a ragione che il loro capo averbbe perso nel tempo tutti e due gli incarichi. Avevano ragione perchè così andò! Ma regola della incompatibilità del doppio incarico – segretario e premier – era una antica tradizione democristiana – solo Fanfani li aveva tenuti entrambi ma per pochiossimo tempo -  e quella regola prevalase, giustamente,  anche nel caso di De Mita. Del resto anche nel partito post comunista questa regola fu osservata allorquando D’Alema segretario, lasciò la carica per fare il premier. Invece Renzi, giunto a Palazzo Chigi dopo aver fatto sloggiare Letta con un post su twitter, si autò segnalò quale successore di Letta e si guardò bene dal lasciare il posto di segretario, senza che nessuno, all’interno del suo partito, glielo contestasse. Questa anomalia, il ruolo di controllore-controllato (qualcuno rilegga in proposito un piccolo saggio  degli anni 70 del secolo scorso che reca la firma di Pinuccio Tatarella) gli consente ora di spradoneggiare a suo piacimento decidendo, come se ci si trovasse ancora nell’assemblea francese postrivoluzione, chi deve morire e  chi deve essere salvato, usando a  questo riguardo, come parrebbe sostenere Polito, solo l’umore della folla, ovviamente utilizzato da Renzi solo a proprio favore. Ma non è così. Renzi decide solo in base al suo personale interesse che osa far coincidere con il suo di interesse. Tutto ciò più che apriree la strada ad un regime, apre la strada all’ulteriore arretramento del Paese a danno dei cittadini. g.