Archivio per la categoria ‘Politica’
 	  
		
				
		
			
			
			
				Ricordate? Un giovane rom senza patente alla guida di un suv investì volontariamente e uccise un vigile urbano di Milano. 
Era il 12 gennaio del 2012. Poche settimane fa il ragazzo è  stato condannato a 15 anni di reclusione, una pene lieve se paragonata  ai 26 chiesti dall’accusa. Lo sconto è stato motivato dai giudici così:  «È cresciuto in un contesto di vita familiare caratterizzato dalla  commissione di illeciti da parte degli adulti di riferimento e in una  sostanziale assenza di scolarizzazione ». Noi titolammo,  sintetizzando la questione: «Se il killer è rom, l’omicidio è meno  grave», perché ci era parso che tra le righe si dicesse chiaramente che  era stata riconosciuta un’attenuante specifica caratteristica di  quella etnia.
 
Bene, la ministra alle Pari opportunità, Josefa Idem, ha fatto fare  dal suo dirigente un esposto all’Ordine dei giornalisti considerando  la nostra sintesi offensiva dei rom. Punite quei razzisti, chiede la  signora, politicamente corretta con noi del Giornale quando si tratta di  rom assassini, ma molto scorretta in quanto a etica personale. Già,  perché è lei quella che ha fatto la furba per non pagare l’Imu,  inventandosi finte residenze in palestra e non solo. Visto che anche  io, alla pari dei rom, voglio godere di pari opportunità, le chiedo,  signora: a chi mi rivolgo per non avere al governo un ministro evasore  visto che io l’Imu l’ho pagata?  Alessandro Sallusti, 22 giugno 2013
…….L’antico detto secondo il quale “fai come dico io e non fare come faccio io” è sempre in voga, spercie quando si dvee gustificare se stessi o i propri amici. E comunque il caso della Idem non è isolato e purtroppo non riguarda solo chi sta in alto, ma anche e spesso chi sta in basso. 
 
 
 
			 
			
		 
				
		
			
			
			
				
La rapidità con cui è fallito il progetto di Scelta civica è  sorprendente quasi quanto la velocità con cui si sta dissolvendo la  speranza del Movimento 5 Stelle. Eppure, con tutte le loro diversità, si  tratta delle due facce che la rivolta contro il sistema dei partiti  aveva assunto alle elezioni di febbraio; dei vincitori (Grillo) e degli  sconfitti (Monti) della cosiddetta «antipolitica». Sembra oggi di  assistere alla nemesi storica dei due partitoni che, seppure ammaccati e  logori, sono sopravvissuti all’assalto e si preparano a dare loro le  carte di una possibile Terza Repubblica.
 
Ma mentre la crisi dei grillini avviene sotto gli occhi del  pubblico come in una telenovela sudamericana, quella del partito di  Monti si è avviluppata invece in bizantinismi incomprensibili, in una  litigiosità tra correnti e personalità che stride con la modestia dei  numeri e ricorda le battute sulla scissione dell’atomo. Non ci  addentreremo dunque nelle ragioni per cui Monti e Casini stanno per  divorziare (anche se in realtà il loro è piuttosto un matrimonio rato e  non consumato, e in quanto tale spera di ottenere un più discreto  annullamento). Ma è interessante capire che cosa è andato storto, perché  tre milioni di italiani, e non i più impulsivi o disinformati tra gli  elettori, avevano dato fiducia a Scelta civica nelle urne. Consegnandole  un risultato che, seppure non un successo, era pur sempre una base  accettabile per contare qualcosa.
 
Gli avversari dicono che il tentativo di Monti è fallito perché  «tecnocratico». Ma è più probabile che abbia invece pagato proprio un  eccesso di politicismo. La sua decisione di candidarsi alle elezioni è  stata l’opposto di una scelta tecnocratica: ha chiesto all’elettorato il  mandato a governare. Il Professore sarebbe stato più furbo, ma non più  corretto, se avesse aspettato in panchina un pareggio elettorale per  poter tornare a fare l’arbitro. Però Monti è entrato in campo portandosi  addosso la soma della vecchia politica. In primo luogo accettando il  ruolo di possibile stampella di una vittoria mutilata della sinistra.  Chi ha rifiutato il governo di Bersani e Vendola ha dunque rifiutato  anche lui, e questo ha chiuso a chiave il forziere dei voti moderati,  così riconsegnati al redivivo Berlusconi. Il secondo handicap, forse  anche più esiziale, è stato l’alleanza elettorale con i frammenti più  vetusti del big bang della Seconda Repubblica, che ha spogliato Scelta  civica di ogni credibilità come fulcro di un radicale rinnovamento del  sistema. 
L’errore nelle alleanze è stato così grave da aver prodotto  effetti anche dopo il voto. Ciò che in natura non può stare assieme,  prima o poi si divide. Quello che sta accadendo è la riprova che Monti e  Casini non potevano e non dovevano stare insieme. ANTONIO POLITO, Il Corriere della Sera, 22 giugno 2013
			
			
		 
				
		
			
			
			
				Tutto come previsto. Ora tra la vita e la morte politica di Silvio Berlusconi c’è solo un passo, una sentenza della Cassazione. 
È quella sul processo diritti Mediaset che dovrà confermare o  no, entro l’autunno, la condanna a quattro anni di carcere e cinque di  interdizione dai pubblici uffici inflitta in secondo grado al leader del  Pdl. 
come  chiesto dalla difesa – sostenendo che un Consiglio dei ministri  convocato d’urgenza (su pressione dell’Europa) dall’allora premier  Silvio Berlusconi non poteva valere come legittimo impedimento a  partecipare a un’udienza (che i giudici svolsero senza l’imputato).
In  sintesi: dei giudici che decidono che cosa è utile, necessario per un  governo e quindi per il Paese. Un’arrogante interferenza di un potere  dello Stato (la magistratura) nei confronti di un altro potere  (l’esecutivo), ultimo atto di una persecuzione formale e sostanziale  iniziata all’indomani della famosa discesa in campo. Tra pochi mesi,  quindi, il leader del Pdl perderà l’agibilità politica. Non uso il  condizionale perché sono sicuro che la sentenza di morte è in realtà già  scritta. Non c’è motivo perché la casta dei magistrati, se lasciata  libera di scorrazzare, si fermi sul più bello. So che non pochi, dentro  il Pdl e nella corte, consigliano Berlusconi di stare fermo immobile  perché in qualche modo le cose ancora si possono aggiustare. Sono le  famose colombe, le stesse che garantivano il buon esito della sentenza  di ieri. Io non sono contrario alle mediazioni, ma ai fallimenti sì.  Colomba è colui che fa la spola portando avanti e indietro un ramoscello  di pace. Mi pare che le nostre colombe invece partano col ramoscello e  tornino regolarmente a zampe vuote. Cioè sono inutili, direi dannose  come i piccioni.
Berlusconi se la cava alla grande quando dà retta  solo a se stesso, al massimo all’umore del suo elettorato. E non credo  proprio che gli elettori del Pdl siano felici di vederlo uscire di scena  silente e umiliato. Perché è chiaro che, via lui, il Pdl si scioglierà  come neve al sole. E non è un mistero che già qualcuno dei colonnelli  per salvarsi si stia spalmando crema protettiva gentilmente offerta da  finti amici (la stessa usata da Fini al tempo del tentato golpe).
Tre  mesi. Questo il tempo per stanare il presidente Napolitano, duro nel  sostenere il governo di larghe intese ma ambiguo nel garantire  l’agibilità politica di uno dei due soci. Non so se la sentenza di ieri  inciderà sulla tenuta del governo (Berlusconi dice di no). Ma so che  andare a braccetto e spianare la strada a chi ti vuole morto non è da  colombe. O è da fessi o da doppiogiochisti. Alessandro Ssallusti, 20 giugno 2013
……..Non ci sembra che siano alternative, nè che quanto sostiene Sallusti sulla sentenza già scritta dalla Cassazione sia campato in aria. Potremmo limitarci a sottolineare che quel che accade oggi è la conseguenza delle incertezze degli anni trascorsi dinanzi al problema giustizia e alla necessità di riformarla, senza che si sia mai tentato davvero di farlo. Ma diserteremmo dinanzi al problema che realisticamente evidenzia la prosa scarna ma efficace di Sallusti: il rischio che certa magistratura possa di fatto dettare le regole del gioco per i prossimi decenni e che nei prossimi decenni quel che resta della destra italiana ( bella o brutta che sia, fallace o meno che possa essere stata a parere di Antonio Polito  in  un suo recente  saggio sui fallimenti della destra italiana negli ultimi cent’anni) sia costretta a fare tappezzeria e i suoi esponenti – colombe o falchi – ad accontetarsi del ruolo di maggiordomi, è talmente alto e sopratutto inaccettabile, tanto da indurci a considerare unica alternativa ciò che sotto sotto Sallusti propone: far saltare il tavolo e giocare il tutto per tutto delle elezioni anticipate, con tutti i rischi che ciò comporta. Ma dinanzi all’inelluttabile, occorre far di ragion virtù. Del resto l’alternativa è  vedere che le cosiddette colombe, con l’aggiunta dei falchi che a loro volta, per salvarsi il c…o, si trasformeranno anch’essi in colombe, piangeranno lacrime di coccodrillo nel mentre  si appresteranno  a riciclarsi nel panorama che verrà. E’ un film già visto, purtroppo, e tante volte, nel corso della breve storia del nostro Paese, dal postunità a  tangentopoli.  Con buona pace di Berlusocni che ha trasformato tanti asini in cavalli e li ha issati sugli scranni più alti della Repubblica, come neppure Caligola aveva fatto che senatore ne fece solo uno. g. 
 
 
			 
			
		 
				
		
			
			
			
				
ROMA – Quattro-cinque euro annui in meno sulla bolletta della luce  del 2013, il doppio l’anno prossimo. Tanto dovrebbe valere per le  famiglie italiane (che ogni anno pagano in media 511 euro di luce) la  riduzione, pari a 550 milioni, del prezzo dell’energia elettrica,  deliberata dal governo Letta nel decreto «Fare».
Il condizionale è  d’obbligo, visto che ieri i tecnici dei ministeri competenti erano  ancora al lavoro per «cifrare» il decreto e nelle ultime ore è circolata  l’indiscrezione di 150 milioni di euro, di cui ora dispone l’Erario,  provenienti dalla cosiddetta componente A2 della bolletta (oneri per la  messa in sicurezza del nucleare), e che potrebbero essere destinati al  taglio delle bollette. Se queste risorse fossero risorse aggiuntive,  genererebbero un ulteriore sconto quest’anno di due euro, ma potrebbero  anche essere soltanto sostitutive di qualche altra voce.Fonte ANSA, 18 GIGUNO 2013
……………Insomma il decreto del “fare” ha partorito per gli italiani l’ennesimo topolino o, se si vuole, l’ennesima presa in giro. Letta, nella conferenza stampa di presentazione del decreto legge, annunciava,  tutto giulivo, che le bollette della luce sarebbero state diminuite nell’anno 2013. A conti fatti si tratta di 5 euro all’anno, che potrebbero salire a 7 ma non di più. Cioè quanto gli italiani di buona volontà fanno cadere nel cestino delle offerte durante la messa domenicale. Quindi una elemosina all’anno quella del governo delle larghe intese a fronte delle esosissime tasse che gli italiani pagano per mantenere in vita un sistema che fa acqua da tutte le parti. g. 
			
			
		 
				
		
			
			
			
				
Ma in Italia esistono ancora i partiti? Dietro le etichette  sopravvissute alla tempesta del voto, all’elezione del presidente della  Repubblica e alla nascita di un governo vissuto come una camicia di  forza è rimasto un vuoto politico, organizzativo e di leadership che ha  pochi precedenti nella storia della Repubblica. Un deserto che va dalla  formazione di Vendola all’ex destra di An, dal Pd a ciò che resta del  Pdl. Per non parlare di Scelta Civica svanita nel nulla e della Lega  sconfitta e messa alle corde perfino da Umberto Bossi.
 
Se dai partiti si passa a quello che orgogliosamente si considera  un «movimento di cittadini» il panorama non cambia: dopo il successo  del 24 febbraio i 5 Stelle hanno vissuto una serie interminabile di  abbandoni, processi ai dissidenti, liti su soldi e scontrini. Ora siamo  all’atto finale: tanti eletti sono pronti ad abbandonare il gruppo  mettendo in discussione la figura di Grillo, trasformatosi da  trascinatore dell’Italia ribelle in capo autoritario e bizzoso.
 
Ma è quello che accade nel Pd e nel Popolo della Libertà che deve  più preoccupare. Il Paese ha bisogno di un’alleanza di governo che duri  il tempo necessario a promuovere le misure contro la crisi. Riforme  radicali per liberare le risorse utili alla crescita, promuovere  l’innovazione, creare opportunità di lavoro per i giovani, rendere  efficiente la pubblica amministrazione, cambiare le istituzioni e la  legge elettorale. Compito al limite dell’impossibile.
 
Il Partito democratico è invece ancora immerso in una resa dei  conti interni senza fine. È arduo seguire la scomposizione delle vecchie  correnti e la nascita delle nuove, decifrare il dibattito sulla scelta  del segretario e sul metodo per eleggerlo. C’è un unico punto certo:  rendere più complicata la corsa di Matteo Renzi, leader popolare ma  alieno alle liturgie degli ex comunisti. Si avverte l’assenza di una  linea politica comune, la tentazione di buttare a mare le larghe intese  per tornare ai lidi tranquilli di un’identità di sinistra rafforzata  dall’iniezione di grillini dissidenti. 
 
Ancora più indecifrabile è il confronto in corso nel Pdl. Da un  anno si litiga sul ritorno a Forza Italia, una questione irrilevante  dopo l’addio dei politici provenienti da An. Ci si accapiglia tra falchi  e colombe filogovernative senza rispondere alle vere domande: come  sopravviverà il partito senza la leadership (scossa dalle inchieste e  calante nella presa elettorale) di Silvio Berlusconi? Quali dirigenti  saranno in grado di interpretare le aspirazioni di un elettorato  moderato in fuga verso l’astensione? E come potrà convivere il populismo  movimentista con il progetto di una forza legata ai popolari europei?
 
 Partiti seri, consapevoli della sfiducia totale del Paese  approfitterebbero dell’attuale tregua per ripensare se stessi,  ricostruire la credibilità perduta, promuovere nuove classi dirigenti.  Invece non sanno neppure riconoscere che sono loro i malati gravi,  scaricano sull’esecutivo tensioni e movimenti scomposti. La speranza di  una «democrazia normale», con due poli (progressista e conservatore) che  competono per conquistare il consenso degli elettori è sempre più  lontana. Luciano Fontana, Il Corriere della Sera, 16 giugno 2013
…………………..Non nutra speranza l’autore di questo editoriale: i partiti, quel che resta di ciò che essi furono nel passato, nel bene e nel male, i protagonisti della rinascita nazionale, della trasformazione di un Paese demolito, non solo materialmente, dalla guerra al Paese che si rimboccava le maniche, ricostruiva il futuro, conquistava obiettivi e guardava lontano, quei partiti non esistono più e non esisteranno più neppure nel futuro. Tutti, nessuno escluso, sono ormai  conventicole che si rinchiudono in se stesse allo scopo, neppure tanto nascosto, di eternare ciascuno la propria  la classe dirigente costruita non come nel passato,  attraverso la selezione dal basso, ma attraverso cooptazioni e chiamate dall’alto. Anche per i  livelli più bassi dell’apparato, e ciò è caratteristica sia dei piccoli, sia dei grandi partiti, dal Pd al PDL. In quest’ultimo, poi cresce, ad onta dell’uragano che sempre più si avvicina,  una nuova  classe di “ras” che considerano i territori come conquiste da trattare come personali capisaldi da affidare ai peggiori  figuri che abbiano la caratteristica d essere assolutamente imbecilli. Di questo  passo è ovvio che  si scade nel nulla e si aggrava la malattia di cui i partiti sono affetti: la miopia, anzi la più totale cecità. Tanto da non accorgersi di essere sempre più impopolari e sempre più individuati come le vere calamità dell’attuale situazione socio-economica-politica-morale e quindi come l’emblema di ciò che deve essere rimosso, spazzato via.  Come potrà avvenire la rimozione è difficile pronosticarlo: ma avverrà. g.
			
			
		 
				
		
			
			
			
				
 
Due  colleghi di Panorama, il direttore Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro,  sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui  si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura  di Palermo, quella di Ingroia per intenderci. 
Quel Pm e quel giudice che hanno chiesto e concesso le  manette dovrebbero leggere, per poi ingoiarlo, chiedere scusa e  dimettersi, il documento con cui il Csm ha messo ieri sotto accusa il  procuratore di Palermo, Francesco Messineo. C’è da rabbrividire, in  confronto l’inchiesta di Panorama è stata una carezza. Messineo, secondo  i colleghi del Csm è uomo debole, succube del sottoposto Ingroia che lo  manovrava a suo piacimento. Si parla di fughe di notizie pilotate, di  intercettazioni imbarazzanti su Messineo che Ingroia ha imboscato, di  tempo speso a inseguire teoremi politici a scapito della lotta alla  mafia, tanto da fare fallire la cattura del nuovo capo dei capi Matteo  Messina Denaro.
È anni che noi del Giornale sosteniamo la tesi della giustizia  politicizzata a Palermo (e non solo) e per questo siamo stati oggetto di  ogni genere di angherie: campagne mediatiche per delegittimarci da  parte della cricca di colleghi (Travaglio e soci) che ha tenuto bordone a  questa sorta di associazione segreta e deviata, condanne a risarcimenti  milionari e più di recente alla galera.
Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Qualcuno ci  restituirà soldi ed onore? C’era, e c’è tuttora, uno Stato nello Stato  che non si capisce a chi risponde. A Palermo, come a Milano e Napoli, le  procure e i tribunali sono fuori controllo, che è altra cosa da una  sana indipendenza. Molti Pm hanno goduto, e godono, di protezioni  politiche e mediatiche che li hanno fatti apparire come eroi del diritto  e unici paladini della Costituzione quando in realtà si tratta solo di  servitori dello Stato infedeli al servizio di chi, dentro e fuori il  Paese, vuole sovvertire la volontà popolare. Di loro ci mettono solo  megalomania e spocchia figlie di un’impunità totale che hanno ottenuto  con il ricatto e l’inganno. Pensavano di mettere le mani pure sul  Quirinale, coinvolgendo Napolitano in una delle tante patacche spacciate  per verità giudiziarie. Hanno esagerato e ora pagano. Spero che questo  da oggi accada anche di fronte ai loro soprusi nei confronti di comuni  cittadini e di chi ha osato, come noi e i colleghi di Panorama, svelare i  loro altarini e criticare il loro modesto lavoro.Alessandro Sallusti, 14 giugno 2013
…….Parole coraggiose quelle di Sallusti, spiace, però, che la politica, da destra a sinistra abbia fatto finta di niente. E ciò è sufficiente a farci inquietare ancor di più. g. 
 
 
 
 
 
 
			 
			
		 
				
		
			
			
			
				 
La decisione, comunicata dal portavoce del governo ellenico,  Simos Kedikoglou, rientra nell’ ambito del programma delle  privatizzazioni delle aziende a partecipazione statale concordato con la  troika. Resteranno a casa i circa 2.800 dipendenti.  Sospese, dalla mezzanotte, le trasmissioni della tv e della radio. La  Ert sarà sostituita “da una struttura moderna ma non di proprietà dello  Stato”, che operareà con personale ridotto. I lavoratori della Ert  riceveranno un indennizzo.
 Kedikoglou ha spiegato che “in un momento in cui al popolo  greco vengono imposti sacrifici non ci possono essere entità intoccabili  che possono restare intatte quando si applicano tagli ovunque”. E la Ert è un caso particolare di “sacche  di opacità e incredibile spreco di denaro pubblico. Costa da tre a  sette volte le altre tv e ha da quattro a sei volte il personale di  altre strutture con ascolti ridotti”. Proprio per questa ragione il governo di Atene ha deciso di chiudere le trasmissioni, azzerare tutto e ripartire.
……Pensate per un attimo se al posto di “greca”  ci fosse stato scritto “italiana”: che festa. Finalmente tutti a casa i super pagati  giornalisti, conduttori, ballerini e ballarò di ogni genere, a incomiciare da Fazio per finire alla Clerici, costretti da ora in poi  a guadagnarsi il pane come ciascuno di noi, poveri mortali, costretti   a sorbirseli mentre  versano lacrime di coccodrillo sui poveri italiani e loro appena possono se la spassano sulle meravigliose spiagge e sulle montagne innevate di mezzo mondo. Purtroppo la notizia non riguarda gli sperperi italiani che alla faccia di tutte le promesse del mondo rimangono esattamente come erano un paio di anni fa…purtroppo la RAI italiana continua ad essere come l’acquedotto pugliese che nella sua storia ha dato più da mangiare che da bere, parola dell’indimenticabile Montanelli. g.
 
 
			 
			
		 
				
		
			
			
			
				
Ma il Pd non era moribondo? Eppure ha stravinto le amministrative.  Ma Grillo non rappresentava il futuro radioso e un nuovo modo di far  politica? Il suo ciclo appare già finito? E il Pdl delle rimonte  impossibili? Si è afflosciato miseramente. Aggiungete l’eclissi di Sel,  l’agonia della Lega, per non parlare di Scelta Civica di Monti (a  proposito, esiste ancora?), la misera fine di Fini, di Pietro, di  Rifondazione comunista e vi accorgerete di quella che è la nuova realtà  della politica italiana: il comportamento dell’elettorato non è più  prevedibile.
O meglio, non può più essere analizzato attraverso i vecchi parametri,  che limitavano l’erraticità e il voto trasversale ai partiti estremi,  mentre il 60/70% era saldamente ancorato ai partiti moderati di destra e  di sinistra.
 
Ora invece l’elettorato è diventato iperliquido, oscilla bruscamente  da un fronte all’altro alla ricerca di un Partito o di un leader che lo  rappresenti, con fiammate improvvise per alcune figure e altrettanto  repentini abbandoni.
Gli zoccoli duri del centrodestra e del centrosinistra ormai sono  ridotti a circa il 20% ognuno, con una differenza importante: quello del  centrosinistra, che ha ereditato la struttura partitica del vecchio  Pci, è stabile e fedele. Marino a Roma non ha vinto perchè bravo, ma  perché, a fronte di un astensionismo record, quel misero 20% diventa  sufficiente per vincere, anzi per stravincere, le elezioni.
 
E il centrodestra? Il centrodestra non è mai diventato un vero  partito, non si è mai riganizzato capillarmente sul territorio, punta  tutto, da sempre, sul voto d’opinione moderato, sulla regolarità delle  classi medie, che, però, in un’Italia in crisi appaiono meno motivate,  se non amareggiate, sfiduciate e dinque tendono a disertare le urne.  Tanto più che il centrodestra appare ancora – anzi, sempre di più –  dipendete dalla straordinaria capacità di mobilitazione di Silvio  Berlusconi: quando il Cav si impegna in prima persona il centrodestra  rimonta (vedi il voto di febbraio) o perde dignitosamente, quando se ne  sta in disparte crolla fragorosamente.
 
E questo è molto preoccupante per il Pdl e in genere per i moderati  italiani che rischiano di rimanere senza rappresentanza quando  Berlusconi, che non è più un ragazzino, deciderà o sarà indotto a  ritirarsi dalla politica. Dietro di lui c’è il nulla.
 
Ecco perché, paradossalmente, il Pd, per quanto arruginito, poco  credibile e cigolante, ha davanti a sé un futuro più radioso del Pdl,  che continua a non capire, a non prevedere, a non programmare. Che  disastro. Marcello Foa, 12 giugno 2013
.….Purtroppo questa “opinione” di Marcello Foa, giornalista ed opinionista di “destra” non è lontana dal vero. Sempre più si conferma che il PDL e il centrodestra si è appiattito su Berlusconi che sopperisced con la sua leadership alle carenze vistose di un partito la cui classe dirigente, quella degli eletti in primo luogo, è frutto non di esperienzas e capacità, ma solo di “scelt” dall’alto che non reggono sal confronto elettrorale quando Berlusconi non c’è. Del resto questa oipnione di Foa coincide perfettamente con quella oggi espressa in una intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno da Marcello Veneziani, indiscutibilmente ultima espressione dell’intellettualià di destra che sempre più si fa latitante nel Paese e nella cultur italiana. Anche Veneziani sostiene che il partito creato da Berlusconi vive solo della luce riflessa del suo leader la cui “scomparsa” determinerebbe la scomparsa del partito. Occorre correre ai ripari. Ma non sembra che nel PDL  e nella sua mediocre classe dirigente si abbia contezza sino in fondo di ciò che c’è dietro l’angolo. g. 
			 
			
		 
				
		
			
			
			
				
Si può anche fare l’elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui  vota solo il 48,6 per cento dell’elettorato. E dunque, è giusto  affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con  un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi  dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un’Italia più «americana» perché  si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla  strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai  contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta,  significa sottovalutare la frattura che si è consumata.
 
Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha  annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un’era è finita. In  realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l’asse fra Pdl e  Lega: a Roma il Carroccio non c’è, eppure il centrosinistra trionfa  nell’oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono  stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l’idea che se Silvio  Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse  l’ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe  riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al  primo turno, l’incognita è il non voto.
 
Collegarlo all’assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta:  l’astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la  crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei  delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna  risposta, anzi. L’unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il  governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a  stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero  tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che  vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a  carico del Cavaliere. 
 
Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi  la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi  il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito  sull’«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze  estese al Sel e a volte con una strizzata d’occhio ai grillini, dice  che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare  l’impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e  dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla  segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.
 
Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da  ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare  all’incasso elettorale non diminuiscono. Ma c’è voglia di stabilità, e  di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul  logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il  poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la  scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di  allontanarlo; e di far perdere all’Italia tempo prezioso. Massimo Franco, 11 giugno 2013
 
			
			
		 
				
		
			
			
			
				
Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare  interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità  dell’Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un  processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze,  soprattutto fra i due maggiori protagonisti – la Francia e la Germania  -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro  assetto dell’Unione.
Il rischio – oltre a quello dell’astensione – è  che a Strasburgo sbarchino le forze dell’euroscetticismo. Forze che  stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del  fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra  i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita  come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a  vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso. 
 
Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici,  sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle  difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità  nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di  protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un  disastro», ha facilmente previsto Giscard d’Estaing, invitando a non  confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che  seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni  coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi  vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della  disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità – uno dei  grandi tabù francesi – a condizione che l’Europa rimetta in ordine di  marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma  sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca,  per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino  di Angela Merkel.
 
Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi  e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere  subordinate all’integrazione in senso federale e al primato delle  regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell’impasse ricada  sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il  bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività,  liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di  Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il  sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.
 
È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte  scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel  male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova  governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i  Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e  difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità,  diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che  rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte  nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro  agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo  dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo  bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle  stesse norme, pesi e misure per tutta l’Europa. Voglio un unico popolo».  Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in  esilio all’Elba, quando il sogno era già tramontato. Massimo Nava, 8 giugno 2013