Due colleghi di Panorama, il direttore Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, sono stati condannati al carcere per aver pubblicato un articolo in cui si raccontava la politicizzazione, in un clima di veleni, della procura di Palermo, quella di Ingroia per intenderci.
Quel Pm e quel giudice che hanno chiesto e concesso le manette dovrebbero leggere, per poi ingoiarlo, chiedere scusa e dimettersi, il documento con cui il Csm ha messo ieri sotto accusa il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. C’è da rabbrividire, in confronto l’inchiesta di Panorama è stata una carezza. Messineo, secondo i colleghi del Csm è uomo debole, succube del sottoposto Ingroia che lo manovrava a suo piacimento. Si parla di fughe di notizie pilotate, di intercettazioni imbarazzanti su Messineo che Ingroia ha imboscato, di tempo speso a inseguire teoremi politici a scapito della lotta alla mafia, tanto da fare fallire la cattura del nuovo capo dei capi Matteo Messina Denaro.
È anni che noi del Giornale sosteniamo la tesi della giustizia politicizzata a Palermo (e non solo) e per questo siamo stati oggetto di ogni genere di angherie: campagne mediatiche per delegittimarci da parte della cricca di colleghi (Travaglio e soci) che ha tenuto bordone a questa sorta di associazione segreta e deviata, condanne a risarcimenti milionari e più di recente alla galera.
Ora che la verità sta venendo a galla, come la mettiamo? Qualcuno ci restituirà soldi ed onore? C’era, e c’è tuttora, uno Stato nello Stato che non si capisce a chi risponde. A Palermo, come a Milano e Napoli, le procure e i tribunali sono fuori controllo, che è altra cosa da una sana indipendenza. Molti Pm hanno goduto, e godono, di protezioni politiche e mediatiche che li hanno fatti apparire come eroi del diritto e unici paladini della Costituzione quando in realtà si tratta solo di servitori dello Stato infedeli al servizio di chi, dentro e fuori il Paese, vuole sovvertire la volontà popolare. Di loro ci mettono solo megalomania e spocchia figlie di un’impunità totale che hanno ottenuto con il ricatto e l’inganno. Pensavano di mettere le mani pure sul Quirinale, coinvolgendo Napolitano in una delle tante patacche spacciate per verità giudiziarie. Hanno esagerato e ora pagano. Spero che questo da oggi accada anche di fronte ai loro soprusi nei confronti di comuni cittadini e di chi ha osato, come noi e i colleghi di Panorama, svelare i loro altarini e criticare il loro modesto lavoro.Alessandro Sallusti, 14 giugno 2013
…….Parole coraggiose quelle di Sallusti, spiace, però, che la politica, da destra a sinistra abbia fatto finta di niente. E ciò è sufficiente a farci inquietare ancor di più. g.
La decisione, comunicata dal portavoce del governo ellenico, Simos Kedikoglou, rientra nell’ ambito del programma delle privatizzazioni delle aziende a partecipazione statale concordato con la troika. Resteranno a casa i circa 2.800 dipendenti. Sospese, dalla mezzanotte, le trasmissioni della tv e della radio. La Ert sarà sostituita “da una struttura moderna ma non di proprietà dello Stato”, che operareà con personale ridotto. I lavoratori della Ert riceveranno un indennizzo.
Kedikoglou ha spiegato che “in un momento in cui al popolo greco vengono imposti sacrifici non ci possono essere entità intoccabili che possono restare intatte quando si applicano tagli ovunque”. E la Ert è un caso particolare di “sacche di opacità e incredibile spreco di denaro pubblico. Costa da tre a sette volte le altre tv e ha da quattro a sei volte il personale di altre strutture con ascolti ridotti”. Proprio per questa ragione il governo di Atene ha deciso di chiudere le trasmissioni, azzerare tutto e ripartire.
……Pensate per un attimo se al posto di “greca” ci fosse stato scritto “italiana”: che festa. Finalmente tutti a casa i super pagati giornalisti, conduttori, ballerini e ballarò di ogni genere, a incomiciare da Fazio per finire alla Clerici, costretti da ora in poi a guadagnarsi il pane come ciascuno di noi, poveri mortali, costretti a sorbirseli mentre versano lacrime di coccodrillo sui poveri italiani e loro appena possono se la spassano sulle meravigliose spiagge e sulle montagne innevate di mezzo mondo. Purtroppo la notizia non riguarda gli sperperi italiani che alla faccia di tutte le promesse del mondo rimangono esattamente come erano un paio di anni fa…purtroppo la RAI italiana continua ad essere come l’acquedotto pugliese che nella sua storia ha dato più da mangiare che da bere, parola dell’indimenticabile Montanelli. g.
Ma il Pd non era moribondo? Eppure ha stravinto le amministrative. Ma Grillo non rappresentava il futuro radioso e un nuovo modo di far politica? Il suo ciclo appare già finito? E il Pdl delle rimonte impossibili? Si è afflosciato miseramente. Aggiungete l’eclissi di Sel, l’agonia della Lega, per non parlare di Scelta Civica di Monti (a proposito, esiste ancora?), la misera fine di Fini, di Pietro, di Rifondazione comunista e vi accorgerete di quella che è la nuova realtà della politica italiana: il comportamento dell’elettorato non è più prevedibile.
O meglio, non può più essere analizzato attraverso i vecchi parametri, che limitavano l’erraticità e il voto trasversale ai partiti estremi, mentre il 60/70% era saldamente ancorato ai partiti moderati di destra e di sinistra.
Ora invece l’elettorato è diventato iperliquido, oscilla bruscamente da un fronte all’altro alla ricerca di un Partito o di un leader che lo rappresenti, con fiammate improvvise per alcune figure e altrettanto repentini abbandoni.
Gli zoccoli duri del centrodestra e del centrosinistra ormai sono ridotti a circa il 20% ognuno, con una differenza importante: quello del centrosinistra, che ha ereditato la struttura partitica del vecchio Pci, è stabile e fedele. Marino a Roma non ha vinto perchè bravo, ma perché, a fronte di un astensionismo record, quel misero 20% diventa sufficiente per vincere, anzi per stravincere, le elezioni.
E il centrodestra? Il centrodestra non è mai diventato un vero partito, non si è mai riganizzato capillarmente sul territorio, punta tutto, da sempre, sul voto d’opinione moderato, sulla regolarità delle classi medie, che, però, in un’Italia in crisi appaiono meno motivate, se non amareggiate, sfiduciate e dinque tendono a disertare le urne. Tanto più che il centrodestra appare ancora – anzi, sempre di più – dipendete dalla straordinaria capacità di mobilitazione di Silvio Berlusconi: quando il Cav si impegna in prima persona il centrodestra rimonta (vedi il voto di febbraio) o perde dignitosamente, quando se ne sta in disparte crolla fragorosamente.
E questo è molto preoccupante per il Pdl e in genere per i moderati italiani che rischiano di rimanere senza rappresentanza quando Berlusconi, che non è più un ragazzino, deciderà o sarà indotto a ritirarsi dalla politica. Dietro di lui c’è il nulla.
Ecco perché, paradossalmente, il Pd, per quanto arruginito, poco credibile e cigolante, ha davanti a sé un futuro più radioso del Pdl, che continua a non capire, a non prevedere, a non programmare. Che disastro. Marcello Foa, 12 giugno 2013
.….Purtroppo questa “opinione” di Marcello Foa, giornalista ed opinionista di “destra” non è lontana dal vero. Sempre più si conferma che il PDL e il centrodestra si è appiattito su Berlusconi che sopperisced con la sua leadership alle carenze vistose di un partito la cui classe dirigente, quella degli eletti in primo luogo, è frutto non di esperienzas e capacità, ma solo di “scelt” dall’alto che non reggono sal confronto elettrorale quando Berlusconi non c’è. Del resto questa oipnione di Foa coincide perfettamente con quella oggi espressa in una intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno da Marcello Veneziani, indiscutibilmente ultima espressione dell’intellettualià di destra che sempre più si fa latitante nel Paese e nella cultur italiana. Anche Veneziani sostiene che il partito creato da Berlusconi vive solo della luce riflessa del suo leader la cui “scomparsa” determinerebbe la scomparsa del partito. Occorre correre ai ripari. Ma non sembra che nel PDL e nella sua mediocre classe dirigente si abbia contezza sino in fondo di ciò che c’è dietro l’angolo. g.
Si può anche fare l’elenco di vincitori e sconfitti nel giorno in cui vota solo il 48,6 per cento dell’elettorato. E dunque, è giusto affermare che il centrosinistra emerge dai ballottaggi nelle città con un profilo più solido degli avversari, incapaci di ritrovare i consensi dal Veneto alla Sicilia. Ma la tesi di un’Italia più «americana» perché si va meno alle urne, come negli Usa, è autoconsolatoria fino alla strumentalità. Esaltare come moderno un calo di partecipazione dai contorni patologici, anche per la rapidità con la quale si manifesta, significa sottovalutare la frattura che si è consumata.
Il leghista Giancarlo Gentilini, sconfitto al ballottaggio, ha annunciato con un sussulto egocentrico che a Treviso un’era è finita. In realtà, non lì ma in Italia. Non si è spezzato solo l’asse fra Pdl e Lega: a Roma il Carroccio non c’è, eppure il centrosinistra trionfa nell’oceano astensionista. Il sindaco Gianni Alemanno e il Pdl sono stati inghiottiti dai propri errori. E non convince l’idea che se Silvio Berlusconi si fosse impegnato la situazione si sarebbe ribaltata. Forse l’ex premier avrebbe limitato i danni, ma è improbabile che sarebbe riuscito a evitare del tutto percentuali umilianti. Di nuovo, come al primo turno, l’incognita è il non voto.
Collegarlo all’assenza di candidati del Movimento 5 Stelle non basta: l’astensionismo va molto oltre. Beppe Grillo segnala ed esaspera la crisi del sistema, senza però mobilitare e smuovere la grande massa dei delusi. Il malessere è più profondo e non riceve finora nessuna risposta, anzi. L’unico elemento rassicurante emerge di rimbalzo, per il governo nazionale. I risultati dei ballottaggi di ieri tendono a stabilizzare la coalizione anomala guidata da Enrico Letta. Dovrebbero tranquillizzare il Pd; e scoraggiare la minoranza berlusconiana che vuole le elezioni, magari in risposta alle sentenze dei processi a carico del Cavaliere.
Il partito di Guglielmo Epifani teme che il governo col Pdl snaturi la sinistra e metta in mora il bipolarismo. Per questo nei giorni scorsi il premier e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, hanno insistito sull’«eccezionalità» della coalizione. Il successo di ieri, con alleanze estese al Sel e a volte con una strizzata d’occhio ai grillini, dice che il governo Letta non logora il Pd. E questo dovrebbe attenuare l’impazienza di chi vuole archiviarlo: a cominciare da Nichi Vendola e dal sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ansioso di candidarsi alla segreteria e ipercritico verso palazzo Chigi.
Quanto al centrodestra, la tentazione di far saltare il tavolo da ieri suona almeno azzardata. Le pressioni di chi pensa di andare all’incasso elettorale non diminuiscono. Ma c’è voglia di stabilità, e di atti di governo che la giustifichino. Più che scommettere sul logoramento di Letta, ci si aspetterebbe un aiuto a fare il tanto o il poco consentito da questa inevitabile coabitazione. Inseguire la scorciatoia di un esecutivo omogeneo alle alleanze locali rischia di allontanarlo; e di far perdere all’Italia tempo prezioso. Massimo Franco, 11 giugno 2013
Le elezioni europee del maggio 2014 sembrano lontane per suscitare interesse. Eppure potrebbero condizionare pesantemente le possibilità dell’Europa di rigenerarsi e rafforzare la governance politica. Un processo di cui si discute in balia di reciproche diffidenze, soprattutto fra i due maggiori protagonisti – la Francia e la Germania -, benché proprio dalla sintonia di Parigi e Berlino dipenda il futuro assetto dell’Unione.
Il rischio – oltre a quello dell’astensione – è che a Strasburgo sbarchino le forze dell’euroscetticismo. Forze che stanno rumorosamente crescendo, come conseguenza della crisi e del fossato fra cittadini e istituzioni, fra europei del Nord e del Sud, fra i tedeschi e gli altri. La cessione di sovranità non viene percepita come un salto di qualità della politica comunitaria, ma come esproprio a vantaggio di poteri invisibili, non legittimati dal consenso.
Le maggiori componenti, popolari e socialdemocratici, sarebbero costretti a coabitare con gruppi che prosperano sulle difficoltà dei governi e che esaltano il ripiegamento nella sovranità nazionale, il bisogno di sicurezza, di identità anche religiosa, di protezionismo. «Le elezioni europee senza un progetto saranno un disastro», ha facilmente previsto Giscard d’Estaing, invitando a non confondere «populismo e malcontento dei cittadini».
I mesi che seguono saranno decisivi per mettere in campo volontà e visioni coraggiose, a cominciare dagli impegni che verranno assunti ai prossimi vertici di giugno. Incontri che offriranno una prima verifica della disponibilità del presidente Hollande a discutere di sovranità – uno dei grandi tabù francesi – a condizione che l’Europa rimetta in ordine di marcia politiche sociali, investimenti, gestione comune del debito. Ma sarà importante verificare anche la maturazione della risposta tedesca, per ora prudente e influenzata dalle elezioni di settembre e dal destino di Angela Merkel.
Per la Germania, una maggiore solidarietà fra Paesi ricchi e poveri e una sostanziale revisione di Maastricht continuano a essere subordinate all’integrazione in senso federale e al primato delle regole. Si lascia intendere che la responsabilità dell’impasse ricada sulla Francia. Bruxelles ha concesso a Parigi due anni per risanare il bilancio e introdurre riforme strutturali, in termini di competitività, liberalizzazioni, concorrenza dei servizi. Ma i margini di manovra di Hollande sono ristretti. La protesta sociale potrebbe accentuare il sovranismo e vanificare gli sforzi del presidente.
È auspicabile che Parigi e Berlino giochino a carte scoperte. Il motore franco-tedesco continua a essere, nel bene e nel male, determinante. Ma è importante che la questione di una nuova governance , legittimata dal voto, appassioni il dibattito in tutti i Paesi, facendo comprendere che soltanto così si può crescere di più e difendersi meglio. Un new deal non può realizzarsi deprimendo identità, diritti e risparmi, né affidando le risorse a rappresentanze che rispondono in prima istanza ai mercati, ma ha bisogno di scelte nazionali forti e coraggiose, che seducano i cittadini e diano un futuro agli ideali europei. Anche il dibattito italiano sul presidenzialismo dovrebbe tenere conto della dimensione sovranazionale.
«Abbiamo bisogno di una legge europea, di un sistema monetario unico, delle stesse norme, pesi e misure per tutta l’Europa. Voglio un unico popolo». Lo diceva due secoli fa un francese: Napoleone, ma prima di andare in esilio all’Elba, quando il sogno era già tramontato. Massimo Nava, 8 giugno 2013
«E il governatore si rivolse di nuovo a loro, dicendo: «Quale dei due volete che vi liberi?». E quelli dissero: «Barabba». E Pilato a loro: «Che farò dunque di Gesù detto Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso». Sono quasi duemila anni che il Vangelo ricorda alle classi dirigenti che non si può governare coi sondaggi. E che Sua Maestà il Popolo, che di tanto in tanto viene invocato come un idolo e ipocritamente confuso con la democrazia, può sbagliare. E di grosso.
Spiegava Marshall Mc- Luhan che «difendere i sondaggi affermando che sono un modo per “consultare la saggezza collettiva” equivale a dire di poter estrarre la radice quadrata di uno spazzolino da denti di color rosa». Parole sante. Non sempre le emozioni, e più ancora le ondate popolari, sono sagge. Anzi.
C’è quindi qualcosa di storto nell’affanno con cui tanti leader politici, dopo avere smesso per anni di parlare con i loro elettori e soprattutto ascoltare le loro ragioni fino a creare quel distacco crescente tra il Palazzo e la società, si precipitano a precisare che su ogni cosa sarà «sentita la base». Ed ecco che c’è chi sta appeso ai cinguettii stizzosi di Twitter, chi agli sfoghi su Facebook, chi agli umori di un blog o di un rilevamento d’opinione. Come se da lì potesse levarsi finalmente una stella polare che indichi il percorso ai viandanti incerti.
L’ultimo, con l’impegno a «sentire tutti gli iscritti» sulla legge elettorale, è stato Guglielmo Epifani. Ma prima di lui Giuseppe Fioroni aveva già chiesto «un referendum consultivo di tutti i circoli pd». E il ministro Gaetano Quagliariello aveva assicurato «entro l’estate l’avvio di una consultazione popolare per coinvolgere i cittadini nel processo costituente sulle riforme». E i capigruppo della maggioranza varato una mozione che plaude alla «volontà del governo d’estendere il dibattito sulle riforme alle diverse componenti della società civile, anche attraverso il ricorso a una procedura di consultazione pubblica». E il titolare della pubblica amministrazione D’Alia lanciato «la consultazione online per chiedere ai cittadini di fare le loro proposte su 100 procedure da semplificare».
Per non dire di Silvio Berlusconi, che come nessuno conosce la pancia della propria gente, e che ad esempio dopo aver annunciato la scelta di «andare in maniera decisa verso il nucleare» definito «indispensabile», bloccò tutto dopo Fukushima perché aveva «spaventato gli italiani, come dimostrano anche i nostri sondaggi». O di Beppe Grillo che invoca referendum a raffica perché convinto della funzione salvifica del voto del popolo buono e sapiente.
Sia chiaro: la voce dei cittadini va sentita sempre. Online, nelle piazze, nei caffè, nelle sezioni… E ripetiamo: se i partiti e i leader politici avessero voluto e saputo ascoltare in questi anni l’insofferenza che saliva dalla pubblica opinione oggi non sarebbero così trafelati nello sforzo spaventato di ricomporre la frattura. Ma una vera classe dirigente, come dice la parola stessa, deve sapersi assumere le proprie responsabilità e mettersi alla guida dei processi storici. Anche a costo, talvolta, di fare scelte al momento impopolari. Se pensa che siano giuste. Sennò, se si accoda via via agli umori (per di più dettati da passioni partigiane) è una classe «accodante». È il succo della democrazia: chi viene eletto è eletto per fare delle scelte. Spiegarle. Difenderle. Se sono buone, il tempo gli darà ragione. A seguire i venti si possono vincere le elezioni, ma non guidare un Paese. Men che meno sotto i nuvoloni neri. Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 6 giugno 2013
………………….Abbiamo sempre pensato che governare è decidere. Anche a costo di risultare impopolare e crearsi nemici e magari odi perenni. Ma è così. Nè portrebbe essere diversamente. Divero invece è lo stare all’opposizione. Chi si oppone non ha neppure bisogno di spiegare il perchè, si oppone e basta. E la differneza tra chi governa e chi siede all’opposizione è tutta lì: decidere. Ovviamente si presuppone che la decisione sia mirata al bene collettivo e alle ragioni del benessere comune, al perseguimento di validi obiettivi di natura collettiva. Ma ciò è naturale che sia quando si opera in regime di democrazia e di libertà, cioè dove il popolo ha diritto e dovere di controllo e attraverso il voto scofessare e modificare scelte sbagliate. Qundi coglie nel segno Stella, ingiustamente definito “tumore” della democrazia per aver svelato, insieme al suo collega Rizzo, piccoli e grandi abusi della classe politica- tutta!- e coglie nel segno anche quando sostiene che il popolo non può essere quello della rete o dei tanti e diversi blog che affollano la rete, così tanti che finisconmo ciascuno pe rappresentare talvolta solo chi vi scrive. Perciò nè i sondaggi, cui si affidano un pò tutti, ciascuno facendo proprio ciò che meglio corrisponde ai propri “desiderata”, nè le consultazioni online – come quella, sommamente ridicola, di Grillo in occasione della elezioni del presidente della Repubblica- possono dirsi o rivedicasrsi il ruolo di vioce del popolo che ne ha una sola: il voto. g.
«Il presidenzialismo rompe», titola l’Unità . E in effetti tutte le riforme sono una gran rottura per chi non vuol cambiare. Bisogna però capire se ciò che rompono era già rotto. In casi del genere anche il più prudente dei conservatori dovrebbe accettare l’urgenza del cambiamento. Ebbene in Italia da due anni e mezzo il governo non è più espressione del voto dei cittadini: prima con il Berlusconi-Scilipoti, poi con il Monti-Passera e ora con il Letta-Alfano, si è dovuti ricorrere a soluzioni in vario grado extra-elettorali. Di conseguenza il capo dello Stato, figura non eletta direttamente dai cittadini, svolge di fatto da tempo il ruolo di primo piano nella formazione dei governi e del loro programma. La legge elettorale non riesce più a dar vita a una maggioranza in entrambe le Camere. La Corte costituzionale sta per sancirne la illegittimità. Il nostro sistema politico è già rotto, che altro ci vuole a capirlo? Chi dice che non è una priorità cambiarlo usa dunque lo stesso argomento di Grillo, per il quale non era una priorità nemmeno fare un governo.
Eppure è bastato un barlume di possibile accordo tra i partiti sulla riforma costituzionale per far scattare il riflesso pavloviano di chi da vent’anni crede che riforme e berlusconismo siano sinonimi: e giù allarmi di svolta autoritaria, pericoli di scorciatoie carismatiche, mobilitazioni in difesa della Costituzione più bella del mondo, che non si tocca perché non è cosa vostra (dunque è cosa nostra?). Siccome è impossibile dipingere la Francia semi-presidenziale come una Repubblica delle banane, allora si lascia intendere che lo sia l’Italia, malata cronica di autoritarismo e sempre in cerca di un nuovo duce. Gli stessi che sostenevano l’improbabile tentativo di Bersani di reclamare Palazzo Chigi con l’argomento che in Francia Hollande aveva ottenuto l’Eliseo con il 29% dei voti al primo turno, ora inorridiscono all’idea del secondo turno e dell’Eliseo. Chi ha speso anni a raccomandare una radicale rigenerazione della nostra democrazia rappresentativa, ora si accontenterebbe di una «manutenzione». Non è questione di sistemi. Hanno respinto a turno anche il modello americano perché dà troppi poteri al presidente, l’inglese perché ne dà troppi al premier e il tedesco perché ne dà troppi al cancelliere. Ora bocciano il francese per salvare l’unico potere cui tengono: il loro potere di veto.
Qualche giorno fa il governatore Visco ha detto che l’arretramento del nostro Paese dipende dal fatto che da 25 anni non riusciamo più a «rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» del mondo. Più o meno la data a partire dalla quale la nostra politica ha cominciato a dividersi tra chi vorrebbe cambiare tutto per non cambiare nulla e chi pensa di fargli un dispetto non cambiando davvero mai nulla. Sarebbe ora di accettare l’idea che anche una comunità, come tutti gli esseri viventi, può perire per paura di cambiare. Antonio Polito, Il Corriere della Sera, 4 giugno 2013
……Il “sospetto” di Polito è più che fondato. E riguarda tutti. La battaglia per introdurre il presidenzialismo nel nostro Paese è datato da almeno 4 decenni. Agli inizi degli anni 70 del secolo scorso fu la bandiera del MSI almirantiano che puntò tutte le sue carte elettorali sulla modifica istituzionale mirata alla elezione diretta del Capo dello Stato per sottrarla alle alchimie dei partiti. Non fu soolo il MSI in questa battaglia. Ben presto gli si affiancò il Movimento Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi, repubblicano dell’Edera, antifascista vero, non imputabile quindi di revanscismi autoritari che impugnò la bandiera del presidenzialismo, anch’esso però senza fortuna, perchè osteggiato dai partiti, in primo luogo il PCI che si erse a difesa della Costituzione così come era stata sfornata dalla Costituente. A distanza di 4o anni siamo al punto di partenza. Da una parte c’è chi si ostenta una voglia di cambiamento e invoca una riforma costituzionale intestata al presidenzialismo o al semipresidenzialismo alla francese, e chi invece vede ciò con il fumo negli occhi. Il timore di Polito che condividiamo è che gli uni e gli altri potrebbero giocare la partita, come spesso accade in Italia, dell’ecquivoco. Nel senso che usano la contrapposizione verbale solo per spoerare il momento di caduta verticale di credibilità dei partit, i per superarlo e quindi proseguire con lo stesso sistema, vecchio e decrepito, che pe4rò assicura a chi lo gestisce, al governo e/o all’opposizione, rendite vitalizie di potere cristallizzato. Le prossime settimane, al più i prossimi mesi, ci diraqnno se i dubbi di Polito, che sono anche i nostri, sono fondati o meno. g.
Il taglio dei finanziamenti ai partiti è una beffa che ci costa 300 milioni: ai 230 milioni di fondi in vigore fino al 2016 vanno aggiunti 3 milioni per gli spot. Più l’affitto che diventa gratuito!
La grande ipocrisia è divenuta disegno di legge. Il consiglio dei ministri guidato da Enrico Letta ieri ha approvato un testo che scrive al suo primo articolo «È abolito il finanziamento pubblico dei partiti». Un’affermazione che già in sé è inutile, quando non falsa. Il finanziamento pubblico dei partiti è stato abolito da venti anni con un referendum, e in effetti non c’era più. Fino al 2012 era in vigore una legge per rimborsare a forfait le spese elettorali per le politiche, le europee e le regionali con un fisso che era arrivato a 182 milioni di euro l’anno. L’anno scorso, in mezzo a mille polemiche e con Beppe Grillo che stava già impazzando, i partiti hanno cambiato quella legge, dimezzandone la portata: 91 milioni di euro l’anno. Questa cifra era in gran parte (63,7 milioni di euro) il solito rimborso a forfait delle spese elettorali, e per 23,7 milioni una forma di “cofinanziamento” delle risorse private che i partiti sarebbero riusciti a racimolare: 0,50 euro pubblico ogni euro privato raccolto fino a quel tetto massimo. Una formula nuova, di cui sapremo poco o nulla perché di fatto non verrà applicata. Con la nuova legge voluta da Letta che pomposamente abolisce quello che formalmente non c’è, ai partiti andranno ora finanziamenti pubblici per la prima volta di 91 milioni nel 2013; 54,6 milioni nel 2014; 45,5 milioni nel 2015 e 36,4 milioni nel 2016. Detto in poche parole: la legge che inizia con «è abolito il finanziamento pubblico» assicura per la prima volta dopo 20 anni un finanziamento pubblico e dichiarato ai partiti di 227,5 milioni di euro da oggi alla fine del 2016.
A quei 227,5 milioni di euro se ne aggiungeranno altri sempre a carico delle finanze pubbliche. Una piccola cifra inserita nel disegno di legge: 3 milioni di euro fra il 2014 e il 2016 per regalare ai partiti spot gratuiti da un minuto sulle reti Rai. E fanno già 230,5 milioni di finanziamento pubblico garantito. Poi sarà dato loro in ogni capoluogo di provincia ogni locale pubblico richiesto (prima era solo una facoltà) per «lo svolgimento delle attività politiche, nonché la tenuta di riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche» o gratuitamente o a «canoni di locazione tariffari agevolati». Dunque, in ogni città ci sono italiani che perdono la casa e il lavoro e non sanno dove andare a dormire, spesso occupando le cantine delle case popolari. Prima che a loro ora si penserà ai partiti politici (a livello nazionale sono una decina almeno le sigle) che avranno diritto a locali assicurati in 118 città: quindi almeno 1.200 sedi trovate dallo Stato per loro. Un costo enorme, e non quantificato: ma sarà finanziamento pubblico pure questo, e a volere stare stretti vale almeno 6 milioni di euro l’anno (300 euro al mese per sede), 18 milioni da aggiungere, e fanno 248,5.
Terzo finanziamento pubblico: quello a carico della fiscalità generale. E qui raggiungiamo le vette dell’ipocrisia. Con il ddl ogni persona fisica potrà detrarre il 52% (quindi a costo dello stato) per ogni finanziamento fra 50 e 5 mila euro annui e il 26% fra 5.001 e 20 mila euro annui. Non solo: con un tetto di 500 euro si potrà detrarre anche il 52% della spesa “per l’iscrizione a scuole o corsi di formazione politica promossi e organizzati dai partiti”. Le persone giuridiche – le società che finanziano i partiti – possono detrarre il 26% per importi compresi fra 50 e 100 mila euro. Quale è l’ipocrisia? Solo un anno fa gli stessi sostenitori del governo Letta di oggi si erano scandalizzati in Parlamento per la disparità di condizioni sulle detrazioni fra partiti (i cui contributi oggi sono detraibili al 24%) e Onlus (i cui contributi sono detraibili al 19%). E avevano stabilito di parificarli tutti e due dal 2014 al 26%. Ora i partiti raddoppiano il vantaggio (52%) tanto per dimostrare che sono più eguali degli altri. E in effetti uguali non sono: i partiti politici occupano lo Stato, le Onlus invece sostituiscono lo Stato quando non riesce più a farcela. Quanto vale questa somma? Cifre non ce ne sono nel ddl, ma se consideriamo i 23,7 milioni di euro l’anno previsti dalla legge in vigore come metà dei contributi privati (soprattutto di eletti e iscritti) ricevuti dai partiti, il costo per le finanze pubbliche sarebbe di 14 milioni di euro l’anno. In tre anni siamo già a 290,5 milioni di euro di finanziamento pubblico ai partiti garantito dalla legge che abolisce il finanziamento pubblico: quasi 100 milioni di euro l’anno, più di quelli di oggi.
Oltre a quei fondi a partire dal 2014 (e dal 2017 in via esclusiva) ci saranno anche i contributi volontari dei cittadini, che potranno destinare ai partiti il 2 per mille della propria dichiarazione dei redditi annuale. Qui le cifre sono impossibili da prevedere. Il governo ieri è sembrato essersi inventato questo nuovo sistema. Invece è preso pari pari dalla legge n.2 del 1997, firmata da Romano Prodi: quella sul 4 per mille ai partiti. Il meccanismo è identico a quello di allora, che fu il più clamoroso flop della storia dei partiti: scelse il 4 per mille solo lo 0,5% dei contribuenti, e l’incasso fu di 2 milioni di euro. I partiti si anticiparono 55 milioni, avrebbero dovuto restituirne 53, e naturalmente non lo fecero. Cambiarono la legge, e si inventarono quella sui rimborsi elettorali. Perché fece flop? Banale: sarebbe stato incostituzionale potere scrivere nel 740 il partito a cui devolvere i soldi, perché il voto è segreto. E non si può nemmeno oggi. Ma chiedere a un elettore di Fratelli di Italia di dare i suoi soldi a Sel, è obiettivamente difficile. Sarà un flop al 100% e dopo avere dato 100 milioni di finanziamento pubblico all’anno ai partiti, dal 2017 ci si inventerà un nuovo modo per continuare a darli.
Questa legge ipocrita e inutile per altro regala ai partiti locali e spot in Rai a patto che il governo (lo fa dettagliatamente nell’articolo
metta il naso in casa loro decidendo le regole della democrazia interna. Se non obbedisci, niente spot. Questo non solo è ingiusto, ma sicuramente anticostituzionale. E non vale la pena discuterne… Franco Bechis, Libero, 1° giugno 2013
……………..Lasciamo il commento, amaro!, a chi ci legge. g.
Va bene, Cinque stelle si è ridotto a Due stelle e mezzo. Certo, è tornato a galla, benché malconcio, il bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra, l’interregno tecnico-grillino è in ritirata, il governo se ne giova. D’accordo, a questa tornata amministrativa è cresciuta l’area del non voto, Toro Astenuto ha trionfato alla grande. Ma vogliamo dire una cosa? Da vent’anni o quasi, ogni volta che non è in gioco direttamente o simbolicamente Berlusconi, il centrodestra annaspa, s’ammoscia, perde colpi. Coi candidati il più delle volte insegue con affanno i rivali, con le liste arranca, con i programmi non ingrana. Se non è in gioco il Cavaliere, fa risultati deludenti. Eppure l’area moderata antisinistra, conservatrice, mezza cattolica, mezza liberale, mezza destrorsa, forse è maggioritaria nel Paese. Questo non è un elogio di Berlusconi, ma una preoccupata fotografia del suo regno. Senza Berlusconi il centrodestra è una mucillagine, poca roba, nessuna identità o progetto forte, non leader o sindaci svettanti né una classe dirigente affidabile e popolare. La soluzione non può essere Berlusconi forever, meno male che Silvio c’è, dopo di lui il diluvio o il pediluvio, comunque appiedati. Si deve puntare su uomini, proposte, idee e non confidare solo nell’immortalità di Berlusconi e nell’accanimento terapeutico di giudici e nemici che gli allunga la vita politica e gli allarga il consenso. Che dite di fare un pensierino adulto e non aspettare che poi arrivi Padre Silvio a salvare baracca e burattini? Marcello Veneziani, 29 maggio 2013.
……..Tutto vero, quando Berlusconi non c’è (in lista), il centro destra, anzi, per dir meglio, il PDL annaspa e affoga, salvo che in qualche sporadico angolo del Paese. Ma la cosa, cioè la questione, pare non interessare nè preoccupare la classe dirigente pidiellina che poi è quella che si identifica con gli eletti, perchè gli altri, i non eletti, poco contano e quindi, a parere dei primi, cioè degli eletti, non hanno nè il dovere, figuriamoci il diritto, di preocuparsi. Ci pare di poter dire, quindi, e a ragion veduta, che quelli che dovrebbero preoccuparsi si limitano a tirar a campare (seguendo l’insegnamento andreottiano) e al più a intonare la canzone (di Iva Zanicchi, ci sembra di ricordare): finchè la barca va, lasciala andare…..con tutto quel che segue. g.

Mai così marginale, ininfluente, inafferrabile dal secondo Dopoguerra a oggi. Così si offre la destra italiana allo sguardo di chi voglia misurarne il battito cardiaco dopo le elezioni politiche del febbraio scorso. Malgrado alcuni recenti, non disprezzabili tentativi di dilatarne la rappresentazione includendovi la ventennale vicenda berlusconiana (vedi Antonio Polito nel suo “In fondo a destra”, Rizzoli), la destra qui presa in esame è quella post fascista nelle sue più sottili ramificazioni, secondo la filiera che dal Movimento sociale italiano ha via via generato: Alleanza nazionale (1995-2008), un terzo del Pdl guidato da Gianfranco Fini (2008-2012), la Destra di Francesco Storace (2007) e Fratelli d’Italia (2012). La quota di ex missini rimasta nel partito berlusconiano e riconducibile a Maurizio Gasparri ha programmaticamente rinunciato a un collegamento esplicito con l’area politico-semantica della destra. All’inventario delle sigle va naturalmente aggiunta la formazione di Fini, Futuro e libertà (2011), disastrosa scommessa personale del più longevo e discusso leader nella storia post fascista. Quanto alle così dette forze residuali anti sistemiche presentatesi agli elettori, da CasaPound e Forza nuova alle innumerevoli fiammelle sparse, la totalità dei loro voti è appena superiore alla loro completa irrilevanza sulla scena. I numeri fuoriusciti dall’ordalia delle urne – Fratelli d’Italia 1,95 per cento; la Destra 0,64 per cento; Futuro e libertà 0,46 per cento; Forza Nuova 0,26 per cento; CasaPound Italia 0,14 per cento; Fiamma tricolore 0,13 per cento – ci dicono al dunque che i vari affluenti della destra italiana sono oggi rappresentati da una decina di Parlamentari (nove FdI; due finiani uno dei quali, Benedetto Della Vedova, viene dal Partito radicale). E’ un dato di grande interesse politico, poiché segnala la quasi sopraggiunta estinzione di un equivoco storico nato nel 1995 a Fiuggi, quando l’Msi si è suicidato nel letto di Procuste di An senza neppure la forza di elaborare il proprio lutto. Molte delle prefiche di allora versarono lacrime d’occasione senza aver ancora compreso di candidarsi, in quel preciso momento, al ruolo di esecutrici testamentarie del mondo che veniva da Giorgio Almirante, Arturo Michelini e Pino Romualdi. Ma questa è una tragicommedia già ampiamente vivisezionata (ce ne siamo occupati nel 2007 con “Il passo delle oche”, Einaudi).
La novità del momento è questa: ammessa per ipotesi retorica che la temperie del Ventennio mussoliniano sia rappresentabile come una possente tempesta d’acciaio piombata sui cieli italici dal 1922 al 1945, a distanza di quasi settant’anni si stanno definitivamente prosciugando le pozzanghere di quella tempesta, gli acquitrini sopravvissuti al Fascismo. Come ha scritto il terzaforzista Gabriele Adinolfi, “adesso non veniteci a cantare la solita solfa della riunificazione. Il Msi è stato definitivamente sotterrato. Se non si riuscirà a immaginare e concretizzare un futuro peronista non si potrà che assistere al continuo declino per scissioni” (noreporter.org). Ma più che di declino è bene parlare di dissoluzione per sfinimento. E non è detto che sia un male.
La scomparsa di cui stiamo parlando riguarda anzitutto una “classe dirigente”: uomini e donne che autoproclamandosi “di destra” hanno progressivamente dissipato una rendita ben radicata nell’Italia del Novecento, dimostrandosi completamente inadatti a rappresentare le idee e le istanze delle quali s’erano improvvisati cantori e portavoce. A meno di ritenere, e non è così, che nel corredo genetico della destra siano contenuti come legge di natura l’insopprimibile tendenza al malgoverno e, in casi non rari, alla delinquenza. L’esperienza della destra di potere, appuntamento epocale reso possibile dall’affiliazione al berlusconismo, è al riguardo un banco di prova inoppugnabile. Messa più volte, dal 1994 a oggi, in condizioni di governare l’Italia da Palazzo Chigi, senza contare numerose regioni e altrettanto importanti enti locali, la destra si è sfarinata elettoralmente e ha rovinosamente perduto la sua credibilità politica. Il corredo di scandali, denunce per nepotismo e inchieste giudiziarie che ha accompagnato la fine della giunta Polverini nel Lazio e che accompagna ora l’ingloriosa fine-sindacatura romana di Gianni Alemanno vale come testimonianza plastica di una bancarotta morale non meno che strategica. Che tutto questo sia stato possibile è un fatto, per quanto stupefacente agli occhi del senso comune. Come tutto questo sia avvenuto è questione sulla quale dovrà soffermarsi chiunque si sentirà chiamato a ricostruire sulle rovine della destra. Che fai, mi cacci? C’è stato un momento nel quale la così detta destra finiana, già contrafforte malgré soi del neonato Popolo della libertà, ha dato l’impressione di volersi sottrarre a una subalternità non più tollerabile nei confronti di Silvio Berlusconi. Nel 2010, sorretto dalle speranze variopinte dei mezzi d’informazione persuasi dell’imminente trapasso del berlusconismo, Gianfranco Fini si è intestato la battaglia del patricida. Accusato d’infedeltà e ingratitudine dai pretoriani del Cavaliere (molti dei quali provenienti dalle file di Alleanza nazionale), Fini ha dato l’impressione di voler costruire una destra di stampo europeo, un po’ neogollista (tendenza Chirac), un po’ troppo giovanilistica, con punte di radicalismo sociale (la battaglia per il riconoscimento dello ius soli agli extracomunitari, una certa improntitudine sulle questioni di natura bioetica) e non senza occhieggiamenti verso il così detto establishment editorial-finanziario dichiaratamente ostile a Berlusconi. Malgrado i notevoli chiaroscuri biografici dell’allora presidente della Camera, compresa la brutta storia della casa di Montecarlo appartenente alla Fondazione di An e assegnata per vie tortuose al cognato di Fini, la sola volontà di rompere con il patriarca di Arcore sembrava trovare un promettente riscontro nei sondaggi. Uno psichismo diffusamente compiacente verso l’impresa finiana ha insinuato nei protagonisti della rottura la certezza di poter vincere per vie parlamentari, infliggendo una sfiducia brutale al governo Berlusconi. All’immediato fallimento dell’espediente tattico, non è seguita una fase di riorganizzazione politica e di ridefinizione culturale autentica. Semplicemente, Fini e i suoi hanno immaginato di dover soltanto rinviare il tempo della vendemmia. Negli interstizi dell’attesa è emerso il vuoto della proposta di Futuro e libertà: tagliati i ponti con il passato prossimo (del passato remoto è inutile qui parlare ancora), a Fini è riuscita più congeniale l’eliminazione diretta della parola “destra” dal proprio arsenale retorico. La sua offerta si è richiamata anzi all’esigenza di rompere del tutto con categorie che a suo dire erano ormai deprivate di senso: la dialettica destra/sinistra è così uscita dal cono di luce del delfino almirantiano, ma senza che a questa eliminazione sommaria corrispondessero un disegno dai contorni precisi, una base identitaria, una prospettiva intorno alla quale conservare, rendere coeso e incrementare l’insieme dei consensi e delle aspettative ingenerate. Il risultato di questa meccanica è stato l’avvicinamento “destinale” a Pier Ferdinando Casini e della sua Unione di centro, cui è seguita l’accettazione acritica del tecno-governo di Mario Monti con l’intermittente consiglio/sostegno di Luca Cordero di Montezemolo. L’entente, come noto, è sbocciata nella formazione di liste sorelle (unitaria per il Senato) che sono apparse come la sommatoria di calcoli, debolezze e vanità comuni. Gli elettori ne hanno fatto giustizia, consegnando Fini e i suoi consiglieri al limbo degli esuli in Patria. Anzi dei senza Patria e basta. A distanza di tre anni dalla nascita dei primi focolai di dissenso nel Popolo della libertà, è difficile che l’azzardo di Fini possa essere rubricato sotto la categoria della destra in rivolta contro l’assimilazione violenta alla compagine berlusconiana. Se innegabile era la tendenza livellatrice e monocratica esibita dall’allora premier, altrettanto manifesta è stata poi la natura personalistica, politicistica e velleitaria di Futuro e libertà. Di là dalla rimasticazione episodica degli slogan futuristi primonovecento, di là dalla improvvisata modernolatria dei pochi (e presto abbandonati) intellettuali alla corte di Fini, non è stato possibile individuare alcun nucleo politico o ideale degno di sopravvivere alla fragorosa condanna elettorale. Ma il danno d’immagine, per un mondo che almeno nei presupposti e nelle provenienze individuali non è possibile disgiungere dall’archetipo post fascista, quello è chiaro e distinto. E sarà durevole. Che fai, mi riprendi? Gli altri gruppi della così detta destra italiana, accomunati senz’altro da un livore furibondo nei confronti del loro ex sovrano Gianfranco Fini, sono nati o sono cresciuti ora in conflitto ora in rapporto di vassallaggio con Berlusconi. La Destra di Storace è stata allestita come controparte identitaria anti finiana, ma al tempo stesso si è più volte proposta come un cuneo di ribellione conficcato ai fianchi del Cavaliere. Salvo poi ripiegare appena possibile, calendario elettorale alla mano, nella più confortevole ombra di Arcore. Le immagini di Daniela Santanchè nella sua versione paleo berlusconiana, poi storaciana (la “destra con la bava alla bocca” che non accetta di stare sdraiata) e infine nuovamente, appassionatamente accanto al capo del Pdl, ci danno la misura delle oscillazioni mostrate dalla classe dirigente post fascista. In questo quadro, Storace si è impegnato a impersonare un ruolo di vaga ed equivoca testimonianza identitaria non poi così dissimile rispetto a quello svolto dall’estrema sinistra post bertinottiana (con conseguenze simmetricamente funeste).
Su tutt’altro fronte, quel che resta della Destra sociale di Gianni Alemanno ha combusto la propria immagine di forza alternativa allo strapotere berlusconiano, all’amletismo finiano, al tatticismo superficiale degli storici avversari interni Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. La totale assenza alemanniana dal discorso pubblico innescato con la nascita di Futuro e libertà si è perfettamente combinata con il tentativo di procedere a un berlusconicidio pre elettorale sanzionato dal mondo clericale (da Comunione e liberazione in giù) con cui il sindaco di Roma è infeudato da sempre. In poche parole, dall’inverno scorso Alemanno ha cullato il sogno di un’iniziativa di conio popolare che procedesse alla rimozione dolce (ma nondimeno completa) dell’ostacolo Berlusconi. Receduto dall’azzardo, causa colpo di reni della vittima sacrificale, Alemanno è stato fra i primi a ritornare all’ovile proclamando nuovamente una fedeltà tanto palloccolosa quanto inane. Il che non è gli bastato, tuttavia, per riconquistare una dimensione nazionale degna della sua superbia, né per sfuggire alle conseguenze del suo disastroso quinquennio al Campidoglio.
Una debolezza parallelamente meschina caratterizza l’operazione Fratelli d’Italia. Il volto non più acerbo della leader (ed ex ministro pidiellino) Giorgia Meloni è insufficiente a coprire il pizzetto consunto dell’ex berlusconiano d’acciaio Ignazio la Russa. Concepito come un disperato tentativo di differenziarsi dal declinante benefattore di Arcore, nell’auspicio di contenere l’emorragia di voti destinati all’astensione o al grillismo, il gruppo di Meloni è appassito prima ancora di germogliare per la semplice ragione che non aveva alcunché da offrire al suo potenziale elettore che non fosse già stato offerto in precedenza con l’etichetta del Pdl. Per quale ragione un cittadino che ha votato prima An e poi Pdl avrebbe dovuto premiare Fratelli d’Italia? E in effetti, a ben guardare la composizione di quel deludente uno-e-qualcosa per cento rimediato nelle urne, si comprende con facilità che la cifra origina nel pacchetto sempre più impoverito delle clientele militanti di una corrente (la Destra protagonista) un tempo egemone in An e dalla quale, con una coerenza che gli va riconosciuta, si è distaccato l’iper berlusconiano e mai fascista Maurizio Gasparri. Che fai, mi ignori? Se la caduta delle destre istituzionali dipende in larga parte dal fatto che, sequestrate dai loro piccoli cacicchi vanitosi e imbelli, non erano più “di destra” in senso tradizionale da circa vent’anni, il “sonno” delle destre radicali extraparlamentari trova una sua ragione nella quasi totale assenza di leadership carismatiche e messaggi auscultabili all’esterno della claustrofobica catacomba neofascista. In questa congiuntura il brodo di coltura antisistemico italiano è stato fecondato dalla proposta millenaristico-settaria che il comico Beppe Grillo ha condiviso con il guru dell’e-commerce Gianroberto Casaleggio. Un lavoro scientifico, il loro, che per la verità è cominciato da diversi anni e che si è talmente rafforzato da attirare come un magnete perfino le limature di ferro dello scontento estremista, sia di destra sia di sinistra. Nel frattempo i cuori neri si baloccavano con le loro solite, logore liturgie intonate al culto della sconfitta neofascista e con l’immancabile rivalità fra consanguinei. Fatta eccezione per il movimentismo di CasaPound, reso popolare dal recupero del migliore dannunzianesimo ma viziato spesso da pulsioni avanguardistiche inconcludenti, non c’era una sola buona ragione per la quale le destre anti sistemiche dovessero presentarsi alle elezioni immaginando di non venirne malamente sbertucciate. Requiem o palingenesi? In natura nulla va perduto, è così perfino nell’Italia a sovranità limitata, assoggettata alla germanizzazione del suo sistema economico-finanziario e appetita dal capitalismo apolide responsabile della crisi internazionale. Dunque anche per la destra c’è speranza. Non è possibile qui aggettivare oltremisura la destra di riferimento, ma certo è che per rinascere bisogna essere stati qualcosa nel passato. E’ a una destra tradizionale che si può o si deve guardare, nel senso più alto, nobile e purtroppo negletto dalla maggior parte delle formazioni esistenti: ogni altro tentativo e ogni altra variante essendo falliti alla prova dei fatti recenti. Il grillismo è un fenomeno di falsa rottura transeunte ed è destinato prima o poi a liberare energie insospettabili, dopo aver caoticamente rilegittimato alcune idee e istanze di sovranità politica e culturale tipicamente di destra. Chi un domani sappia saldare questo accumulatore di energia con un circuito elitario, nel quale le nuove personalità di riferimento siano realmente formate lungo linee di vetta metapolitiche (frutto di una disciplina perfino interiore, siamo portati a dire), potrà modellare un corpo adatto al manifestarsi di una “destra eterna” che attende la sua prossima incarnazione. Quando il sole avrà estinto l’ultima pozzanghera. Alessandro Giuli, Foglio, 25 maggio 2013
…………….Terribile quanto assolutamente esatto ritratto dello “stato” oggi della Destra italiana. Giuli, autore di altre inchieste sulla Destra, non dà scampo ai rappresentanti della Destra post missina, tutti, nessuno escluso, da Fini a Gasparri, passando per i tanti altri che nel ventennio berlusconiano hanno occupato posti di rilievo nelle struttre di partito e in quelle di governo, hanno da di sè cattiva, anzi orrenda prova. Sinchè si era all’opposizione, magari agitando nelle aule parlamentari il cappio per gli avversari, erano in grado di apparire (non di essere!) “protagonIsti”, ma quando si è passati dall’altra parte, tutti, nessuno escluso, hanno mostrato i loro limiti, non solo politici, ma spesso etici e morali. Sino alla dissoluzione di un patrominio umano che aveva attraversato, quasi indenne, l’oceano delle difficoltà e dei pericoli e delle persecuzioni degli anni 70 e 80 del secolo scorso. Fini è stato di certo il maggior responsabile, quello che si è mostrato e dimostrato di gran lunga il meno capace di interpretare i sogni e le speranze della Destra, solo innamorato di se stesso e solo preoccupato del suo personale interesse, dello sfacelo della Destra, ma gli altri non lo sono stati di meno. Risultato è quello che Giuli definisce “requiem per la destra” punto e basta e al quale abbiamo aggiunto di nostro il punto interrogativo. Perchè osiamo sperare che la storia della Destra italiana, inopportunamente legata al postfascismo e che invece affonda le sue radici nella fase postunitaria del nostro Paese, non si sia conclusa e che possa avere e vivere una nuova età. Ciò che scrive Giuli, il quadro che delinea della Destra oggi, non lascia ben sperare, anche perchè il Paese affonda nelle vischiosità di proposte politiche legate esclusivamente all’immediato, cioè, per dirla fuor dai denti, agli obiettivi provvisori e perciò stesso assai limitati dei gestori attuali dei partiti. E anche perchè gli appelli, come quello da poco lanciato da Marcello Veneziani, qualificato intellettuale d’aria, di un “ritorno ad Itaca”, sembrano cadere nell’indifferenza più impenetrabile delle varie frange, del tutto inconsistenti e quindi marginali, in cui è ora diviso ciò che resta della Destra, sopratutto o forse solo quella elettorale. Ma non si può e non si deve disperare che in Italia possa ritornare ad avere cittadinanza e rappresentaza la Destra, quella vera e anticas, con i suoi Valori e i suoi programmi. g.