IL SENSO DI UN VOTO, di Ernesto Galli della Loggia

Pubblicato il 29 ottobre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

La Prima Repubblica non è finita il 27 marzo 1994 con la vittoria di Silvio Berlusconi: è finita domenica sera a Perugia. Finisce adesso. Perché solo adesso, solo domenica sera, sembra essersi esaurita ogni possibilità di sopravvivenza e di adattamento di ciò che in un modo o nell’altro apparteneva ancora al passato. Solo adesso c’è una rottura autentica: in fondo il Cavaliere e Forza Italia non appartenevano forse per almeno tre quarti ancora al mondo di ieri? al mondo di Craxi e della Dc? non si costruirono in buona parte politicamente con personale e materiali del periodo precedente? Oggi solo, invece, sembra iniziare qualcosa di realmente nuovo.
È con il voto umbro, infatti, tanto per cominciare che Forza Italia è consegnata alla storia una volta per sempre. È altresì sempre con il voto umbro che sembra definitivamente tramontata ogni possibilità di rivitalizzare quel blocco cattolico-postcomunista, erede della vecchia accoppiata Dc-Pci, il quale era riuscito a tenere il campo da Mani pulite ad oggi e perfino a governare a lungo. Anche tale schieramento appare oggi definitivamente fuori gioco. L’elettorato della sinistra-centro sembra essersi ormai ridotto al solo zoccolo puramente ideologico e/o clientelare, mentre sempre più latita il consenso di un forte elettorato d’opinione. D’altro canto sembra ormai accertata l’inconsistenza di ogni capacità di richiamo politico di segno cattolico-democratico, nonostante l’impegno diretto della Chiesa come è successo in Umbria domenica.
Così pure si è rivelata impossibile la rivitalizzazione del blocco cattolico-postcomunista mediante l’alleanza con i 5 Stelle. Divorati dalle ambizioni personali, paralizzati dall’inesperienza e dall’inconsistenza culturale, i seguaci di Grillo hanno sprecato la loro grande occasione negli anni dal 2013 al 2018. Quando cioè, avendo avuto la fortuna di restare fuori dal governo dopo il loro primo grande successo elettorale, avrebbero potuto – e dovuto – impiegare il tempo prezioso cosi acquistato cominciando a pensare, a studiare, a imparare a leggere e a scrivere. Hanno invece creduto ingenuamente di essere ormai a cavallo, sicuri di aver scoperto gli stivali delle sette leghe che li avrebbero condotti di successo in successo. E invece, alle elezioni del 2018, unicamente grazie al vantaggio di essere rimasti sempre all’opposizione sono riusciti sì a vincere nuovamente e clamorosamente, sono quindi andati sì al governo, ma da quel momento in avanti un vero abisso si è aperto sotto i loro piedi: solo parole in libertà, inettitudine, e il buio del nulla.
La parabola dei 5 Stelle, con la loro repentina ascesa e il precipizio successivo ricorda singolarmente quella dell’Uomo Qualunque nel 1944-46. È un’analogia rivelatrice. Sembra un’ulteriore conferma che in realtà, come dicevo, stiamo vivendo una drammatica fase di rifondazione del nostro sistema politico, un vero e proprio passaggio di fase storica, forse domenica avviato a una conclusione. È tipica di simili transizioni infatti, è tipica della radicale perdita di punti di riferimento che in essa si verifica, la nascita d’improvvise fiammate di protesta, l’erompere di movimenti subitanei destinati presto a spegnersi. Così come è ancora già successo nel corso della nostra vicenda nazionale, proprio come si annuncia oggi, che le transizioni/rifondazioni abbiano sempre comportato un altissimo coefficiente di trasformismo e talora la presenza di un ambizioso non politico autocandidatosi a virtuale demiurgo politico — modello Badoglio insomma ma anche di altri più vicini a noi — in funzione di traghettatore non si sa bene dove ma che poi è costretto a ritirarsi con le pive nel sacco.
Per finire, se non bastasse tutto quanto appena detto e il già ricordato tramonto di Forza Italia nonché del disegno cattolico-postcomunista, c’è un sintomo ulteriore e quanto mai significativo dell’esaurimento del sistema della Prima Repubblica. Si tratta della fine conclamata del paradigma antifascista. Cioè di quell’asse portante del primo cinquantennio repubblicano e oltre che implicava l’interdetto pubblico (efficace eccome anche sul piano elettorale) nei confronti di chiunque fosse bollato come «fascista». Una scomunica che ha funzionato ancora abbastanza bene contro Berlusconi e i suoi, ma che oggi contro Salvini e Meloni — per giunta, si noti, in una regione di tradizioni politiche rosse — si è dimostrata del tutto sterile.
Ma come accadde tra il 1945 e il 1948, anche oggi la rifondazione del sistema politico sembra non poter avvenire che all’insegna di un grande compromesso con la pancia conservatrice del Paese. In Italia infatti sembra che solo così possano nascere nuovi equilibri stabili, salvo poi evolvere verso altri lidi. Lo straordinario successo attuale della destra sembra preludere – e insieme essere già il frutto – di un compromesso del genere: alla luce del quale la presenza di Forza Nuova nella piazza leghista di oggi ha lo stesso valore di un segnale inequivocabile che ebbe la presenza di Rodolfo Graziani sul palco insieme ad Andreotti in un lontanissimo comizio ad Arcinazzo nei remoti anni del centrismo. Perché è per l’appunto questo che oggi la Lega può accingersi a fare forte del suo potenziale consenso: ripercorrendo le orme della Democrazia Cristiana del ’48, cercare di rifondare intorno alla propria forza un blocco paracentrista di governo: con Meloni come sua corrente interna-esterna di tono più radicale, con Forza Italia in versione simil-Partito Liberale e magari con Matteo Renzi sulla sinistra in funzione simil-saragattiana.
Oggi è difficile non ricordare che già una volta un cambio di regime partì a suo modo dall’Umbria: allorché nel 1922 i fascisti posero in un albergo di Perugia il comando della marcia su Roma. Che a quel che si è visto Matteo Salvini abbia scelto per il suo quartier generale almeno un albergo diverso è già un motivo di speranza. Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera 29.10.2019

SPAVENTARE I CETI MEDI: LA COAZIONE A RIPETERE DELLA SINISTRA DI GOVERNO, di Antonio Polito

Pubblicato il 23 ottobre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

C’è una coazione a ripetere nei governi cui partecipa la sinistra da 25 anni a questa parte; una specie di maledizione, come se lassù ci fosse qualcuno che le vuole talmente male da farle commettere sempre lo stesso errore. Il quale consiste nello spaventare fiscalmente i ceti medi ma senza produrre risultati che portino sollievo effettivo ai ceti popolari. Se fosse ancora vivo il grande storico Carlo Cipolla, avrebbe potuto aggiungere al suo aureo libretto una ulteriore legge fondamentale della stupidità, stavolta politica. Le settimane della manovra finanziaria sono state uno straordinario esercizio di masochismo. Terminato nel più classico dei modi, ovverosia con il rinvio delle proposte più controverse, l’abbassamento del limite dei contanti, delle sanzioni per i commercianti che non si dotano del Pos, del carcere per gli evasori. Ma l’impressione provocata da queste misure è rimasta viva nel ricordo di chi le temeva: i lavoratori autonomi hanno capito benissimo che solo la debolezza del governo ne ha fermato la mano. Allo stesso tempo le risorse racimolate per il taglio del cosiddetto «cuneo fiscale» (un altro Santo Graal della sinistra), al massimo 3 miliardi, non sono tali da potersi aspettare che nelle case dei lavoratori a reddito fisso si festeggerà il Natale brindando al governo.

In materia fiscale la politica degli annunci è suicida. Le cose o si fanno o non si fanno. Un tempo si metteva tutta questa parte nel decretone di fine anno proprio per tagliare corto alle discussioni. Oggi invece il governo è così dilaniato tra gli interessi elettorali divergenti dei tre contraenti, quanto se non più del precedente, che ognuno ritiene le proprie sorti distinte e divergenti da quelle degli altri, e dunque combatte all’ultimo sangue anche sulla più insignificante delle accise. Il ritorno di un ministro «politico» al Tesoro (che mancava dai tempi della Prima Repubblica, all’inizio anche Tremonti era un «tecnico») aveva fatto sperare in una guida di questo caotico processo. Così non è stato. E non certo solo per colpa del povero Gualtieri. Antonio Polityo, Il Corriere della Sera, 23 ottobre 2019

TAGLIO DEI PARLAMENTARI, OLTRE I SIMBOLI C’E’ LA REALTA’, di Gian Antonio Stella

Pubblicato il 9 ottobre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

Sul balcone no, questa volta Luigi Di Maio non è uscito. Ma obbligando Zingaretti e Renzi a ribaltare il loro no sul taglio dei parlamentari e costringendo Salvini (col centro-destra) a ribadire necessariamente il sì anche dopo il ribaltone denunciato, il Capo grillino che aveva puntato tutto, dopo le batoste, su questa scommessa, ce l’ha fatta. Ha vinto. Stappata la bottiglia resta il nodo: era proprio questa la madre di tutte le battaglie? Oltre i simboli, infatti, resta la realtà. Entusiasta, l’ex «plurisconfitto» ha gongolato: «È una riforma che farà risparmiare 300mila euro al giorno». Tanti: 109 milioni l’anno. Un miliardo abbondante in 10 anni. Non saranno le cifre ancora più grosse sparate nei mesi scorsi ma, con una Camera e un Senato che sfiorano insieme il costo di un miliardo e mezzo, sarà un taglio pesante. Meno convincente, è che quel terzo di parlamentari in meno possa portare a una «semplificazione perché con meno parlamentari avremo meno testi pieni di emendamenti, norme e contronorme che complicano la vita dei cittadini italiani». Difficile da sostenere, dopo aver presentato l’anno scorso la Finanziaria alle 10:33 del 27 dicembre con due ore e 55 minuti a disposizione dei deputati per leggere 436 pagine per un totale di 133.170 parole.
Un’autocisterna di leggine, commi e cavilli sui quali i singoli parlamentari, di fatto, non avevano quasi potuto mettere lingua. Certo, ci avevano già provato in tanti, da destra e da sinistra, a dare una sforbiciata ai parlamentari. E ogni volta la riduzione era saltata. E se ci avevano provato in tanti a partire dalla lontana «Commissione Bozzi» nei primi anni ‘80, ben prima dell’onda populista, significa che tutti sapevano quanto il numero dei rappresentanti dei cittadini fosse esagerato. Per capirci: prima della riforma avevamo un deputato ogni 96mila abitanti contro i 114mila necessari nei Paesi Bassi, i 116mila in Germania e in Francia, i 133mila in Spagna. Oggi diventiamo tra i virtuosi: ci sarà un parlamentare ogni 151.210 italiani. Cioè ci vorranno tre volte più abitanti a deputato che in Austria, quattro più che in Portogallo, cinque più che in Grecia o in Irlanda. Quindi, se il taglio sarà accompagnato da una seria riforma elettorale, evviva. Era ora. Guai, però, se il taglio di ieri fosse davvero, per il M5S, solo uno scalpo da mostrare alle folle armate di forconi. Era una battaglia sacrosanta? Certo non era l’unica.
A proposito dei costi del Palazzo, ancora una volta in primo piano, ad esempio, sarebbe il caso di riflettere su altre spese abnormi. Sulle quali, da tempo, c’è assai meno attenzione. Dice ad esempio lo stesso sito della Camera, in una pagina non facilissima da trovare, che dopo la scadenza del tetto massimo di 240.000 euro fissato (con qualche scappatoia) dal governo Renzi, oggi un tecnico o un assistente parlamentare anziano può arrivare al lordo a 137.368 euro più 24.215 di «oneri previdenziali», un documentarista o tecnico ragioniere a 241.221 più 42.398, un consigliere parlamentare a 361.389 più 63.818. Per carità, tutti bravissimi. Ma c’è o no molta meno attenzione su di loro rispetto ai parlamentari, i nemici additati alla plebe furente? Scrive Sergio Rizzo nel suo ultimo libro La memoria del criceto, che a leggere i bilanci dal 2005 ad oggi, negli anni in cui più dura è stata la polemica contro la casta politica, i dipendenti di Montecitorio sono drasticamente calati da 1.873 a 1.063. Creando tra l’altro problemi non secondari alla gestione del Palazzo.
Ma a causa dei costosi pensionamenti, la somma di tutti gli stipendi e di tutte le pensioni dei dipendenti avrebbe toccato nel 2018 «dicono ancora i bilanci, 450,6 milioni. Circa metà dell’intero costo della Camera». Prima le due voci insieme pesavano per circa un terzo del bilancio. Del resto, la paga media pro capite che già era «vertiginosa, al confronto con quella delle altre amministrazioni» risulta essere salita in 13 anni (anni durissimi per la crisi) da 109.183 euro l’anno lordi a 162.958. Fatti i conti, «un aumento del 49,2 per cento nominale, che corrisponde a un più 25,4 per cento reale, depurato cioè dell’inflazione». E qui torniamo alla domanda che facevamo prima. Dopo tanti tentativi fatti dalle maggioranze più diverse per oltre trentacinque anni con due riforme votate e bocciate poi dagli elettori, il taglio dei parlamentari è davvero benvenuto. Ma attenzione: vinta «la madre di tutte le battaglie» grilline si metterà mano, finalmente, a quelle svolte virtuose invocate da anni? Gian Anonio Stella, Il Corriere della Sera 9.10.2019

CONTRO IL TAGLIO DEI PARLAMENTARI, di Pino PISICCHIO

Pubblicato il 7 ottobre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

La domanda che sorge spontanea è semplice: ma si fa così una riforma costituzionale che stravolge, con un metodo a spanne, giusto perché paiono più belli i tagli vigorosi a cifra tonda, ciò che c’è di più essenziale nell’espressione della sovranità popolare, e cioè il Parlamento?
La risposta, desolante, è altrettanto semplice: si fa così. Passo gagliardo avanti verso la democrazia diretta. In piena linea di continuità col lavoro solo per poco incompiuto dal governo gialloverde, la maggioranza giallorossa si appresta mercoledì prossimo a rendere irreversibile la mutilazione della rappresentanza parlamentare con un senso di inconsapevolezza collettiva che colpisce. E francamente inquieta per la ricorrenza di un lessico che sembra estratto dal vocabolario politico che nella parte più buia del secolo scorso colpiva l’immaginario popolare con riferimenti ad “aule buie e grigie”. Tagliamo le “poltrone”, si dice oggi. Le parole raccontano, in questo caso l’idea di una inutilità del Parlamento e dei suoi riti, dunque di chi occupa quelle poltrone, a quanto parrebbe abusivamente. Qual è la motivazione che viene data all’opera sartoriale che si compirà nella prossima settimana? Risparmiamo sui costi della politica. Portando a galla il non detto, la filosofia della riforma costituzionale sarebbe più o meno questa: data la comprovata inutilità dei parlamentari, almeno risparmiamo qualche indennità. C’è in questo, bisogna riconoscerlo, una certa ammirevole considerazione autocritica che ci piacerebbe apprezzare ma, ahimè, se il Parlamento diventa inutile non è per il numero degli scranni ma per l’inutilita’, sinceramente autoriconosciuta, di chi li occupa: concetto alquanto diverso. Senza contare che se davvero si desidera compiere questo gesto nobile di provvedere ad un ridimensionamento dei costi del parlamento si può sempre procedere alla riduzione delle indennità dei deputati e dei senatori. Ma, a parte i miserandi profili numismatici che non fanno fare mai bella figura a chi li agita, c’è un argomento che va chiarito e che riguarda la presunta indecente esorbitanza del numero dei parlamentari italiani che sarebbe assolutamente “fuori misura” nel mondo. Ora diamo un’occhiata a quella parte di mondo a noi più vicina, che sarebbe l’Europa, e guardiamo ai paesi che hanno più o meno il nostro stesso numero di abitanti, intorno ai sessanta milioni, la Francia e l’Inghilterra. In Francia abbiamo 925 parlamentari, in Inghilterra addirittura 1432 ( lì sono i Lords ad esagerare). In Italia sono 945: una manciata in più dei colleghi francesi e 487 meno dei britannici. Solo i tedeschi, demograficamente più larghi, si mantengono austeramente sotto gli ottocento ( 778). Allora? Siamo questa insopportabile anomalia? Ma c’è di più. La mano del Costituente, sempre illuminata e piena di coerenza, cuci’ un abito alla Costituzione equilibrato in cui ogni istituto si teneva con gli altri. Pensiamo al ruolo del Capo dello Stato, la cui figura di super partes si è rivelata essenziale e risolutiva anche nei frangenti politici più recenti. Il ruolo del presidente viene tutelato nella sua posizione di garante dell’equilibrio costituzionale proprio dalla composizione attuale del Parlamento e dalle maggioranze importanti che occorrono per eleggerlo, affinché non venga avvertito come “presidente di una parte politica “. Una riduzione capotica dei parlamentari di fatto potrebbe consegnare questa fondamentale figura costituzionale ad una sola parte politica, soprattutto se si dovesse mettere mano alle leggi elettorali in senso maggioritario. E la posizione delle minoranze? A quanto salirebbe, dopo la riduzione di mercoledì, lo sbarramento “di fatto” per avere una rappresentanza parlamentare? All’ 8, al 9% ? Col rischio di lasciare fuori dalle assemblee liste che raccolgono fra i tre e i quattro milioni di voti? La fine dei partiti e la virtualizzazione dei rapporti col corpo elettorale lasciano presumere ai capi politici che la gente amerebbe la riduzione dei rappresentanti del popolo per cui pochi si prenderanno a Montecitorio la responsabilità di votare contro questa bizzarria e dalla prossima settimana la procedura approvativa della legge costituzionale potrebbe essere compiuta. Dopo i prevedibili osanna che si verseranno sui social e nei talk show qualcuno dovrebbe ricordare che la buona regola vorrebbe che si andasse allo scioglimento delle Camere, ormai completamente delegittimate dall’avvento di una riforma epocale. Non domani, ma appena trascorso il tempo utile per indire il referendum, se la maggioranza non fosse dei due terzi, oppure anche domani se la maggioranza fosse invece così salda. Capiamoci: non c’è una legge che lo dica, ma la regola della politica: duecento deputati e centoquindici senatori diventerebbero un’escrescenza del vecchio sistema. Abusiva e invasiva. Politicamente scorretta.
Pino PISICCHIO, La Gazzetta del Mezzogiorno del 5 ottobre 2019

IL BUON ESEMPIO AMERICANO CONTRO L’EVASIONE FISCALE

Pubblicato il 30 settembre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

risponde Luciano Fontana

Caro direttore,

nel 1952 il ministro Vanoni convoca mio padre Noè Cinti, apprezzato funzionario del ministero delle Finanze, e lo manda negli Stati Uniti per studiare il sistema tributario americano, convinto che il più urgente problema italiano sia quello dell’evasione fiscale. Mio padre parte, lasciando una moglie incinta e con quattro figli a carico, con grande senso del dovere, e svolge sei mesi di intensa missione visitando tutti i singoli Stati di quella nazione. Al ritorno porge al ministro un voluminoso plico con una dettagliata relazione: «Se vuole, posso riassumere in due frasi: 1) l’evasione fiscale è considerata furto allo Stato e giuridicamente più grave dell’omicidio, e per gli evasori c’è solo il carcere; 2) tutto è deducibile per cui nessuno si fa sfuggire una ricevuta». Il ministro congedò mio padre con una deprimente affermazione (simile a quella che ho sentito oggi alla radio del premier Conte) relativa al fatto che era contrario ai sistemi coercitivi. Settant’anni dopo siamo ancora alle prese con il problema enorme dell’evasione fiscale, forse è giunto il momento di applicare quanto suggerito allora.
Saverio Cinti

Caro signor Cinti,

La sua storia ci ricorda che giriamo sempre intorno allo stesso problema: come rendere semplice ed efficace la lotta all’evasione fiscale. In Italia non solo si pagano tasse alte, se ne pagano anche tante spesso complicate. Ridurre il peso del Fisco sulle imprese e i lavoratori è un’emergenza, combattere quella tassazione occulta dovuta a una burocrazia assurda una priorità. Come nella domanda se è nato prima l’uovo o la gallina, non so se i furbi siano il risultato o la causa di un sistema fiscale così penalizzante per l’economia. Di sicuro non aver varato poche regole semplici e certe favorisce l’esplosione dell’evasione fiscale.
La certezza di una pena severa è sicuramente un disincentivo all’evasione ma io ritengo che il punto fondamentale sia nel secondo suggerimento di suo padre: in ogni occasione i cittadini devono avere un vantaggio a chiedere la ricevuta fiscale, a non farsi ingannare da chi promette uno sconto in cambio della mancata emissione di una fattura. Il conflitto d’interesse tra i soggetti in gioco è una chiave decisiva. In Italia sta prendendo piede e qualcosa di simile è previsto anche nella discussione sulla riduzione del contante. Non ci resta che sperare che arrivino finalmente le mosse giuste. Lo slogan di Conte, «meno tasse e pagate da tutti», per ora è un desiderio. Luciano Fontana, Direttore del Corriere della Sera, 30 settembre 2019

.…Ha ragione il direttore Fontana. Il “trucco” sta proprio nel togliere agli evasori di ogni tipo le ragioni per cui il contribuente si rende complice dell’evasione, cioè come scrive Fontana i cittadini devono avere un vantaggio a chiedere, anzi pretendere la ricevuta fiscale dai suoi fornitori. In America accade così, il contribuente paga e riceve la ricevuta che viene poi utilizzata con percentuali diverse in sede di dichiarazione dei redditi. Ricordo un episodio durante una mia visita in Canadà.  Un italiano, si chiamava Fava, che gestiva una agenzia di viaggi di cui si servivano molti italiani, ci invitò a prendere un caffè che pagò con la carta di credito. Stupito chiedi ai miei connazionali il perchè dell’uso della carta per un costo minimale e mi fu spiegato che la ricevuta anche per i 4 caffè consumati sarebbe stata utilizzata  in sede di dichiarazione dei redditi per una pur piccola detrazione che unita alle altre avrebbero contribuito a ridurre l’importo finale delle tasse da pagare. Il tutto nell’ambito della legge. Perciò è quanto mai fondata l’opinione del direttore Fontana per cui “il buon esempio americano” è un utile antidoto all’evasione fiscale  che nel nostro sfortunato Paese si aggira intorno ai 100 miliardi di euro all’anno. p.g.

LEGGE ELETTORALE: LA SOLITA MEMORIA CORTA, di Angelo Panebianco

Pubblicato il 22 settembre, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

Uno sconsolante dejà vu. È vero che gli elettori, quando si tratta di certe faccende, hanno la memoria corta. Ma la classe dirigente non dovrebbe soffrire della stessa malattia. In vista di una ennesima, possibile riforma elettorale, si torna a parlare di virtù e difetti dei vari sistemi (maggioritario a un turno o due turni, proporzionale puro, eccetera) con spensierata ignoranza, come se non avessimo alle spalle trenta e passa anni di discussioni e di esperimenti. Facciamo il punto su quanto la storia dovrebbe averci insegnato.
Primo: chiunque dica che il tale o tal altro sistema elettorale è in grado di dare stabilità alla democrazia non sa di cosa sta parlando. La stabilità di una democrazia dipende da tre cose. Il radicamento sociale dei partiti è una di esse. Così come lo sono le tendenze in atto, in una certa fase storica, alla radicalizzazione degli elettorati o alla de-radicalizzazione. Così come lo è, infine, l’assetto istituzionale complessivo (di cui la legge elettorale è solo un frammento, ancorché importante). In questa fase storica, non solo in Italia, si assiste a un indebolimento — ma più accentuato in alcune democrazie — del radicamento sociale dei partiti. Inoltre, a causa (forse) della lunga crisi economica, viviamo in un periodo di forte radicalizzazione.
Ciò può spiegare quanto accade in Paesi — dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna alla Spagna — con assetti istituzionali diversi ma con una cosa in comune: sono costruiti in modo da favorire stabilità politica e capacità di governo della democrazia. Ciò significa che se e quando la tendenza alla polarizzazione degli elettorati si esaurirà, quelle democrazie torneranno probabilmente ad essere stabili. È escluso che in Italia ciò sia possibile. Perché il nostro assetto istituzionale è costruito in modo da garantire che, in nessun caso, l’Italia possa essere una vera democrazia governante. La «costituzione più bella del mondo» (sic) generò un regime assembleare con governi istituzionalmente deboli. Altro che «pesi e contrappesi». Crearono contrappesi di ogni tipo (due camere con uguali poteri, un primo ministro senza reale possibilità di controllare i ministri, eccetera). Ma «si dimenticarono» di fabbricare i pesi. Nonostante la stabilità politica di fondo dovuta alla presenza di un partito dominante, reso inamovibile dalla Guerra fredda, nel periodo 1948- 1993, l’Italia soffrì di continua instabilità governativa, governi deboli e (salvo qualche eccezione) di brevissima durata. Non fu un caso. Era l’inevitabile conseguenza di quel particolare assetto istituzionale.
Secondo: quando trenta anni fa, soprattutto a causa della fine della Guerra fredda, le circostanze favorirono un cambiamento in senso maggioritario della legge elettorale, i fautori di quella riforma (fra i quali c’era anche chi scrive) non pensavano che ciò sarebbe bastato a fare dell’Italia un’autentica democrazia governante (nella quale il governo di legislatura è la regola mentre la sostituzione di un governo all’altro senza elezioni, pur sempre possibile, è l’eccezione). Pensavamo (speravamo) che quella riforma fosse solo il primo passo: l’obiettivo era cambiare la Costituzione, trasformare il regime assembleare, voluto dai costituenti per loro rispettabilissime ragioni, in una democrazia governante, per l’appunto. Sono stati tanti gli sforzi inutili. Occorre prendere atto che quel tentativo è definitivamente fallito. Il risultato del referendum costituzionale del 2016 (la schiacciante vittoria del conservatorismo costituzionale) ha posto la pietra tombale sulla possibilità di cambiare la Costituzione. Se ne riparlerà, forse, fra venti o trenta anni. Ma ciò significa anche che quale che sia la legge elettorale in vigore l’instabilità governativa cronica non potrà essere eliminata.
Terzo: ridimensionate le aspettative rispetto alla legge elettorale, data la particolare condizione italiana, si può solo dire quanto segue. Ci sono inconvenienti più o meno gravi, anche se fra loro diversi, sia con il sistema maggioritario sia con il proporzionale. Il maggioritario favorisce una competizione elettorale bipolare, ossia fra due coalizioni. Ma, come l’esperienza italiana insegna, è improbabile che chi esce vincitore dalle urne possa governare per un’intera legislatura. Le coalizioni elettorali che si formano sono troppo eterogenee al loro interno per generare governi stabili. E il contesto istituzionale in cui opererà il governo è fatto per esaltare le divisioni entro le maggioranze, per alimentare instabilità. Il vero vantaggio è comunque che, in un gioco bipolare, normalmente, gli elettori premiano le componenti meno estremiste delle due coalizioni. I cui leader, tuttavia, devono subire il ricatto dei gruppi minori.
Se vige il sistema proporzionale gli inconvenienti sono di altro tipo. Da un lato, in regime di proporzionale, è necessario che si costituisca un «centro» abbastanza forte da dare un minimo di stabilità alla democrazia. Altrimenti essa finirà in balia degli estremisti di ogni colore arrivando presto a un punto di rottura. Dall’altro lato, un centro tendenzialmente inamovibile (sempre al governo, ora con la destra ora con la sinistra) non è fatto per garantire al Paese, quanto meno nel lungo periodo, un buon governo. In ogni caso, nulla può essere peggio del sistema elettorale (misto) oggi in vigore: ha i difetti sia del proporzionale sia del maggioritario e nessun pregio.
Chiudo con una notazione su un aspetto più contingente. La scissione di Renzi sembra avere creato, per il Pd e per Conte, una specie di Comma 22. Se verrà accelerata, in concomitanza con la prevista riduzione dei parlamentari, la riforma elettorale proporzionale, ciò darà immediatamente grande forza politica a Renzi come a chiunque voglia ricostituire il centro. D’altra parte, una riduzione dei parlamentari senza proporzionale favorirebbe Salvini (sovra- rappresenterebbe elettoralmente il partito più forte). Se, infine, il Pd e Conte fossero tentati di rinviare la riduzione dei parlamentari ciò aprirebbe un conflitto con i 5 Stelle che su quel provvedimento hanno investito molto della loro identità di movimento antiparlamentare. Un bel trilemma. Sarebbe anche uno spettacolo divertente. Se non riguardasse proprio noi. Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 22 settembre 2019

PINUCCIO TATARELLA E LA DESTRA PERDUTA, di Alessandro CAMPI

Pubblicato il 6 febbraio, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

Ricorre l’8 febbraio il ventennale della morte di Pinuccio Tatarella. Per l’occasione il prof. Alessandro Campi, politologo,  ha ricordato la figura di Tatarella  e quanto egli ha rappresentato nella politica italiana in in articolo  pubblicato sul Foglio del 5 febbraio u.s. che pubblichiamo di seguito. L’articolo, peraltro, ricorda le altre due straordinarie figure della destra pugliese del secondo dopoguerra Araldo Di Crollalanza ed Ernesto De Marzio alla cui politica si ispirò lo stesso Tatarella. Una sola annotazione tecnica: la foto cui si è ispirato il prof. Campi non è riferita alla campagna elettorale delle politiche del 1968 bensi alle amministrative per la elezione del Consiglio Comunale di Bari che vedevano Di Crollalanza n. 1 della lista, De Marzio n. 2 e Tatarella n. 60.

C’è la foto  (in alto) di Pinuccio Tatarella candidato alle elezioni politiche del 1968 (ma in quell’occasione non venne eletto) dalla quale si può partire per cercare di spiegarne la peculiare personalità politica. Lo ritrae sorridente, con un microfono in mano, accanto ad un’auto che sul tettuccio – come si usava in un’epoca in cui la comunicazione politica era ancora artigianale e basata sul volontariato dei singoli candidati – montava un cartello propagandistico recante quest’immaginifica scritta: “Contro la corruzione D.D.T”. Sigla che richiamava il micidiale insetticida, grazie al quale metaforicamente spazzare via gli insetti della partitocrazia, ma che stava anche ad indicare le iniziali di tre candidati: Di Crollalanza, De Marzio, Tatarella. Appunto, D.D.T. (vedi foto a sinistra)
Si tratta di un documento d’epoca che sollecita due riflessioni. La prima, più effimera, riguarda il linguaggio politico d’un partito d’opposizione radicale quale era all’epoca il Msi. Oggi c’è la tendenza a lamentare lo scadimento del costume politico e l’imbarbarimento della dialettica tra avversari. Ma è una lamentazione da educande, se solo si ha una pallida conoscenza di cosa sia stata la lotta politica nell’Italia repubblicana. Non c’era la capacità amplificatrice dei social media attuali, con la loro tendenza a banalizzare i messaggi sino all’estremo della violenza. Ma c’erano il bianco e il nero, i buoni e i cattivi, il manicheismo ideologico che portava appunto a raffigurare il ‘nemico’ politico con un parassita da neutralizzare con un agente chimico. Ci sarà anche stata, nel caso specifico di questa foto, una certa dose di goliardia e di allegra irriverenza contro il blocco di potere, essenzialmente democristiano, che i missini dell’epoca contestavano. Ma in occasione degli appuntamenti elettorali non si andava tanto per il sottile, sul piano del linguaggio e degli slogan: le divisioni tra schieramenti erano politico-culturali, ma anche antropologiche. Il che non impediva il permanere di un fondo di cavalleria e rispetto, ma nel quadro – giova ricordarlo – di un’assoluta alterità e distanza ideologica che autorizzava il ricorso all’estremismo delle parole (e non solo).
La seconda riflessione, meno espressionistica e più direttamente riferita alla storia politica di Pinuccio Tatarella, riguarda la genealogia socio-culturale e politica che si ricava dall’associazione gerarchico-cronologica di quei tre nomi. Una filiera, sperando che il termine non suoni inappropriato, che fa capire bene quale sia stata la peculiarità della destra pugliese nel quadro del neofascismo italiano. E che fa capire perché Tatarella, quando quest’ultimo si è dissolto e disgregato, intorno alla data simbolica del 1994, sia potuto diventare l’ispiratore di una svolta politica – quella incarnata dalla sigla di Alleanza nazionale – che ha avuto tanti aspetti contradditori (oltre ad essersi esaurita in malo modo dopo aver acceso molte speranze), ma che un merito grande l’ha comunque avuto: quello di farla finita, per essere un sentimento paralizzante e antistorico, col nostalgismo politico rivolto alla memoria del Duce e al tragico vitalismo del fascismo di Salò.
Nella destra pugliese certe mitologie romantiche – la “bella morte”, il culto sepolcrale per i caduti, la fiamma ardente da tenere sempre viva, lo spirito del combattentismo divenuto fatalmente reducismo col passare degli anni – non hanno mai attecchito. Certo per ragioni banalmente territoriali, essendo stata quella zona d’Italia, dopo la caduta del fascismo, parte integrante del Regno del sud, lontana dunque dalle zone dove tra il 1943-45 si consumò la “guerra civile” tra fascisti repubblicani e partigiani. Ma anche perché la continuità storico-ideale tra fascismo e neofascismo in Puglia fu incarnata, come è noto, da un personaggio peculiare e a suo modo leggendario quale appunto Araldo di Crollalanza (1892–1986): la prima sigla della triade. A sua volta reduce della Rsi, ma soprattutto esponente di quella componente del fascismo-regime più legata al mito dell’Italia da edificare su nuove basi architettoniche, economiche e sociali, attraverso il lavoro dei singoli e la volontà progettuale dello Stato. La sua biografia è nota: giovane capo dello squadrismo pugliese, poi podestà di Bari, sottosegretario e ministro dei lavori pubblici, presidente dell’Opera nazionale combattenti, presidente della Commissione Lavori pubblici della Camera dei fasci e delle corporazioni; e in questi diversi ruoli molto impegnato nel risanamento urbano (a partire proprio da Bari), nelle grandi bonifiche dell’Agro Pontino, nella gestione delle grandi emergenze (il terremoto dell’Irpinia e del Vulture del 1930) e nell’edificazione di Littoria (Latina), Sabaudia e Pontinia. Il suo fu un fascismo, potremmo dire, pragmatico e fattivo, pur nell’osservanza dell’ortodossia ideologica. Il che spiega come anche nel dopoguerra, senatore della Repubblica per ben sette legislature (ininterrottamente dal 1953 all’anno della morte), Di Crollalanza abbia avuto poca indulgenza per il settarismo ideologico dei missini rimasti rivoluzionari e contestatori della democrazia e abbia piuttosto inclinato verso una destra con una forte identità e coscienza di sé ma non chiusa al mondo e prigioniera dei fantasmi del passato.
La stessa visione politica propria dell’altro grande esponente del neofascismo pugliese (rectius: della destra post-fascista pugliese) del secondo dopoguerra: Ernesto De Marzio (1910-1995). Anch’egli proveniente dai ranghi del regime mussoliniano, ma su posizioni anti-romantiche e di classicismo nazional-cattolico (come il suo grande amico e sodale Nicola Francesco Cimmino, il letterato con cui fondò nel 1961 il Centro di Vita Italiana). De Marzio nel Msi ricoprì tutte le cariche più importanti, salvo la segreteria. E fu sempre il fautore di una destra dialogante e aperta, moderata e compiutamente democratica. Esattamente le basi che lo portarono nel 1976, in polemica insanabile con l’almirantismo e il suo ambiguo oscillare tra lotta e doppiopetto, allo strappo di Democrazia nazionale. Un fallimento politico, certificato da un elettorato all’epoca ancora prigioniero di una mistica fascisteggiante, che aveva però alla base un’intuizione anticipatrice: rompere con la logica, anche psicologicamente confortante, del ghetto, lasciare perdere le velleità di alternativa al sistema e di lotta ai valori repubblicani, smetterla con il culto sterile delle memorie e provare a inserirsi nella lotta politica nazionale da posizioni di moderatismo conservatore, provando a prendersi la base sociale che la Dc aveva impropriamente incamerato (quel che farà poi Berlusconi con la sua Forza Italia avendo però avuto dalla sua il vantaggio della scomparsa traumatica della Balena bianca).
Ecco, Pinuccio Tatarella, come semplificato dalla foto galeotta che abbiamo preso a pretesto di queste poche righe, era l’erede e il coerente prosecutore di questa visione della destra, che da pugliese (andrebbe anche ricordato, accanto al suo, il nome del brindisino Domenico Mennitti, altro seguace di De Marzio ed egualmente un modernizzatore post-fascista da posizioni di riformismo liberal-conservatore) divenne nazionale, dunque egemone, con lo scioglimento del vecchio Msi e la nascita del nuovo contenitore di An.
Di quest’ultima esperienza Tatarella è stato l’ispiratore, l’accompagnatore, il custode e il garante, sino alla morte prematura, che secondo leggenda sarebbe stata la causa diretta e inevitabile degli sbandamenti successivi di Gianfranco Fini, rimasto orfano del suo miglior consigliere. La verità è che la morte di Tatarella è stato anche un formidabile alibi per la classe dirigente di quel partito, che nel tributargli onori e ricordi ne ha però smarrito ben presto gli insegnamenti. Se Tatarella era per l’apertura, la mediazione e il dialogo, per il rinnovamento, per la creazione di una più vasta aggregazione dei moderati, coloro che avrebbero dovuto mettere in pratica questa visione hanno in realtà seguito altre e non sempre coerenti strade, spesso per semplice tornaconto personale: l’arroccamento oligarchico (mai partito fu più incapace di rinnovarsi al vertice quanto An); il cedimento allo spirito di mediazione (cosa diversa dallo spirito politico di compromesso); l’assoggettamento psicologico al dominus del centrodestra Berlusconi (mentre Tatarella lo trattava da alleato e dunque alla pari); lo scontro frontale con Berlusconi per ragioni più personal-caratteriali che politiche (come appunto capitò al Fini degli ultimi anni, laddove Tatarella avrebbe spiegato che i contrasti politici interni ad una stessa area, per quanto esasperati, hanno senso quando creano ricomposizioni e non fratture irreparabili che finiscono per danneggiare tutti); la rinuncia a qualunque sforzo progettuale, culturale o editoriale (il Msi scriveva, pensava ed elaborava quando era difficile trovare persino i mezzi materiali per farlo, mentre con An al potere la destra italiana raggiunse il grado zero della sua capacità di proposta culturale). Errori e sbagli che a furia di cumularsi hanno prodotto la scomparsa di quel mondo, e l’assorbimento di quel che ne resta entro il perimetro della Lega oggi sovranista e identitaria.
Sarebbero andate diversamente le cose con Tatarella vivo e politicamente attivo? E’ quello che non sapremo mai. Di sicuro una strada, sulla base di una formazione che veniva da lontano e d’indubbia coerenza anche culturale, lui l’ha tracciata con originalità, senza essere un teorico della politica, ma facendola attivamente. Colpa degli altri e di quelli che sono rimasti se le cose non sono poi andate per il verso giusto: invece di rimpiangerlo nelle commemorazioni e additarlo come maestro nelle articolesse, avrebbero fatto meglio ad applicarne silenziosamente i precetti e i consigli. Ma del senno di poi, le fosse sono piene. La destra italiana (quella di derivazione missina) è finita per sempre, tra diaspore, rancori, inettitudini e miserie personali. Anche se resta aperta la possibilità – che nella storia non si può mai escludere – che energie giovani e vergini, proprio a partire dalla lezione di Tatarella, facciano rivivere prima o o poi, in una forma inedita, il suo progetto politico. Alessandro Campi
Articolo apparso sul quotidiano “Il Foglio” del 5 febbraio 2019

PER LA CGIL I DITTATORI DIVENTANO EROI, di Pierluigi Battista

Pubblicato il 25 gennaio, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

La Cgil che difende i lavoratori dovrebbe pur difendere i lavoratori venezuelani ridotti alla fame dal collasso economico voluto con la loro politica folle ed estremista prima da Chavez o poi da Maduro. E invece no, perché la Cgil in una mozione ambigua e poi quasi ritrattata non difende i lavoratori venezuelani ma è molto tiepida con il caudillo venezuelano Maduro. E niente, passano gli anni, i lustri e i decenni ma siamo sempre lì, ma resta, sia pur indebolita, questa inestirpabile abitudine a considerare dittatori e aspiranti dittatori latinoamericani alla stregua di eroi romantici della battaglia contro l’imperialismo yankee, che da Fidel Castro passando per Chávez hanno la pulsione dei discorsi fiume che il popolo festante è costretto ad acclamare nelle adunate oceaniche. Del resto Alessandro Di Battista, per dare una lustratina al suo personaggio di rivoluzionario audace e combattivo, proprio in Sudamerica deve mettere in scena il suo tour, con carrozzina guevarista del figlio a seguito. E le squadracce del regime che terrorizzano gli oppositori? E l’economia a pezzi, e i poveri venezuelani che scappano verso il Perù per sfuggire alla miseria, e le carovane piene di venezuelani (e guatemaltechi, e colombiani, e honduregni) che marciano logori e sfiniti verso la frontiera degli Stati Uniti, sfidando la morte, in cerca di un avvenire meno umiliante, e i giornali chiusi, e le intimidazioni, e i brogli, e insomma questa caricatura di democrazia che mortifica ogni spazio libero e civile? Poco o niente, condanne molto misurate del dispotismo di Maduro da parte della Cgil. E non una parola nemmeno dai parlamentari dei Cinque Stelle che sono andati al funerale di Chávez in pellegrinaggio. O dell’estrema sinistra abbacinata dalla mitologia rivoluzionaria oltre ogni elementare principio di realtà.

Per dire, il Manifesto, il giornale «comunista», una volta almeno ha sostenuto il sindaco romano Gianni Alemanno, «fascista». Ed è stato quando, nel lontano 2012, la giunta di destra organizzò una mostra fotografica al Pigneto dedicata al «risveglio rivoluzionario» del Venezuela di Chávez. La giunta fu attaccata dal Pd, ma i chavisti italiani fecero quadrato, dalla sinistra alla destra. Era un periodo in cui il filosofo Gianni Vattimo parlava estatico del chavismo come di un fenomeno di ammirevole «trasformazione emancipatrice», la fame non aveva ancora raggiunto i livelli di oggi e i saccheggi ai negozi erano ancora episodi isolati. E liquidava la repressione del regime, tale e quale a quella di Maduro, come un’invenzione dei nemici del socialismo. Del resto Nichi Vendola, allora leader di Sel, ammirava Chávez che «riesce dove Fidel ha fallito» e Gennaro Migliore, prima di convertirsi al verbo renziano, plaudiva alla «straordinaria rivoluzione» che aveva messo in moto «grandi passioni civili». Ovviamente seguiva il corteo di incantati come Gianni Minà e Dario Fo, ma è con l’emergere dei Cinque Stelle che l’astro chavista prima, e maduriano poi, ha cominciato a splendere con dichiarazioni improntate al più sfrenato culto della personalità. Mentre in Europa il mito del Venezuela rivoluzionario ha attecchito nei pressi di Podemos in Spagna e nel partito di Tsipras in Grecia. La repressione, l’abolizione dei giornali, l’impossibilità per le opposizioni di svolgere una pur minima attività democratica, e poi una politica economica dottrinaria e distruttiva che ha portato il Venezuela al disastro, tutto questo viene tenuto fuori dal mito. E dalle mozioni della Cgil. Con i lavoratori venezuelani che scappano, o protestano, o organizzano una sommossa per liberarsi di un dittatore che li porta alla catastrofe. Pierluigi BATTISTA, Il Corriere della Sera, 25.01.2019

IL DECRETO SUL REDDITO DI CITTADINANZA E SU QUOTA 100 CALIBRATO SULLE SCADENZE ELETTORALI, di Massimo Franco

Pubblicato il 18 gennaio, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

L’enfasi era prevedibile. E non solo perché la maggioranza tende a percepirsi come spartiacque nella storia d’Italia. Nella soddisfazione con la quale Movimento Cinque Stelle e Lega hanno annunciato l’accordo sul reddito di cittadinanza e su «quota 100» in tema di pensioni, si coglieva il sollievo di chi ha temuto di non farcela. Potere offrire all’elettorato due provvedimenti-simbolo a pochi mesi dal voto europeo di maggio significa vivere di rendita rispetto a opposizioni o silenti, o aggressive ma frastornate. Il Parlamento potrà modificare alcune norme, e rimane l’incognita di una stagnazione economica che potrebbe trasformarsi in recessione. Ma intanto, la maggioranza che si dichiara populista può ostentare un primo successo.
L’immagine del Giuseppe Conte affiancato dai vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ieri sera trasmetteva un segnale chiaro. Il primo è che la diarchia a Palazzo Chigi oggi è diventata triarchia: Conte non appare più solo un «esecutore» ma il mediatore. Il secondo è che a intestarsi la manovra è un governo politico, che cancella dalla scena il ministro tecnico dell’Economia, Giovanni Tria. Per lui non c’è spazio, in una operazione con marcati contorni elettorali. I Cinque Stelle volevano arrivare a ridosso delle Europee con il reddito di cittadinanza. Il fatto che comincerà a essere erogato a fine aprile, permetterà di incassare il dividendo in voti con un tempismo perfetto. Non sarà ancora possibile vedere gli effetti, che molti indovinano di confusione e di irregolarità. Quanto alla Lega di Salvini, può ostentare lo scalpo di un milione di pensionamenti volontari virtuali in tre anni.
Non è chiaro quanti davvero opteranno per l’uscita anticipata dal mondo del lavoro, che decurterà una parte della pensione. Ma se la platea dei beneficiari risulterà più ridotta, sarà minore anche l’incidenza sui conti pubblici. Rimane un punto interrogativo. E non riguarda tanto i dubbi che circondano il reddito di cittadinanza, i controlli per evitare gli abusi, l’impreparazione dei «centri di formazione»: ritardi dovuti alla fretta di chiudere, e moltiplicatori di sospetti su una gigantesca operazione assistenziale. La domanda è come si inserirà una manovra espansiva in una fase di rallentamento generale in Europa, Germania inclusa. Al di là delle parole in libertà su un boom economico, il timore è che presto la spesa si riveli più alta del previsto. Se accadesse, la manovra correttiva esorcizzata da M5S e Lega costringerebbe a fare altri tagli. E il rischio non sarebbero le bacchettate dell’Ue e un’offensiva speculativa, ma un’opinione pubblica delusa. Il governo, però, per ora non ci vuole pensare. Massimo Franco, Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2019


IL RUOLO DEL PARLAMENTO NON PUO’ ESSERE COMPRESSO, di Stefano Passigli

Pubblicato il 17 gennaio, 2019 in Il territorio | Nessun commento »

Distratta dalle quasi quotidiane polemiche tra i due partners della maggioranza e dall’inedito scontro aperto tra Salvini e Conte, l’opinione pubblica non ha ancora colto pienamente che alcuni comportamenti dei partiti di Governo mettono a rischio aspetti fondamentali del nostro assetto costituzionale. Il più evidente di tali comportamenti è stato l’iter di approvazione della manovra che ha di fatto privato il Parlamento della possibilità di un suo adeguato esame e, grazie al combinato disposto di maxi-emendamento e voto di fiducia, di qualsiasi possibilità di emendamento. E’ noto che il Pd ha investito la Corte Costituzionale della legittimità di questa limitazione senza precedenti delle prerogative del Parlamento. Anche se la Corte ha considerato inammissibile un ricorso per conflitto di attribuzioni avanzato non da una Camera ma da un singolo gruppo parlamentare, tuttavia è tuttavia significativo che la Corte abbia formulato una riserva circa la liceità di una prassi – quella del combinato disposto maxiemendamento-voto di fiducia – che, ancorché praticata da tutti i governi della seconda repubblica, comprime il ruolo del Parlamento.

E’ ora auspicabile che la Corte superando il mero auspicio voglia in futuro sentenziare la illegittimità di tale combinato disposto. Come sorprendersi del venir meno dei partiti storici e della crisi della democrazia rappresentativa se permettiamo, da un lato che i rappresentanti siano nominati da pochi leader ai vertici dei partiti anziché eletti dai cittadini, e dall’altro che le funzioni del Parlamento siano espropriate dall’esecutivo?

Una seconda e ancor più evidente violazione del dettato costituzionale è rappresentata dalla rivendicazione del vice-presidente Salvini di un suo potere esclusivo in materia di gestione dei migranti. La sua affermazione che «si discuta pure con Di Maio, Fico e Conte. Ma in materia di migranti chi decide sono io» — rivendicazione riaffermata anche in sede di accoglienza dei 10 migranti provenienti dalle due navi delle Ong — contrasta apertamente con l’Art. 95 della Costituzione secondo il quale «il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri». Malgrado il suo potere politico Salvini non è il Premier, e se Conte consentirà ad una simile diminutio saremo di fatto di fronte ad una inedita modifica della nostra forma di governo.

Una terza questione di rilevanza costituzionale è quella rappresentata dal decreto sicurezza contro il quale almeno quattro regioni hanno già avanzato ricorso alla Corte, lamentando una lesione delle loro competenze in materia di sanità: i clandestini, infatti, non potendo accedere in via preventiva al servizio sanitario nazionale aumentano i rischi per la salute pubblica. Inoltre, il decreto Salvini sembra violare gli Artt. 2 e 10 della Costituzione. L’Art. 2 afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo …. e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà…»; dell’uomo e non del cittadino, e quindi anche dei migranti ancorché privi di cittadinanza o di permesso di soggiorno. L’Art. 10, dopo aver affermato che l’ordinamento italiano «si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», aggiunge che «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche … ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica».

Impedire l’attracco nei nostri porti non solo viola i trattati e le leggi internazionali che affermano il diritto di accedere al «porto sicuro» più vicino, ma rendendo impossibile il richiedere asilo viola apertamente l’Art. 10. Siamo così ancora una volta in presenza di una violazione costituzionale da parte di un singolo ministro che il Governo nella sua interezza, e in particolare il Premier, non dovrebbero tollerare.

Sul punto non dobbiamo tuttavia farci illusioni. La proposta di referendum propositivo che il Governo ha presentato, qualora fosse approvata senza abolire l’ipotesi di un ballottaggio tra il testo popolare e un testo parlamentare e senza indicazione di un adeguato quorum (insufficiente è infatti prevedere un quorum del 20 o 33%, per superare un voto del Parlamento, essendo necessaria almeno la metà dei votanti nelle precedenti elezioni politiche), costituirebbe non una integrazione ma un attacco senza pari alla democrazia rappresentativa prevista dalla nostra Costituzione. Nel 2006 e nel 2016 le proposte di grande riforma costituzionale avanzate prima dal centro-destra e poi dal Pd erano chiare, furono ampiamente discusse e infine respinte dall’elettorato.

Oggi la proposta di referendum propositivo, se non adeguatamente emendata, costituisce un subdolo e surrettizio attacco ai fondamenti della nostra democrazia. Non si può consegnare ad un numero ristretto di votanti — che magari si esprimono su piattaforme private, come la piattaforma Rousseau che Di Maio oggi offre ai gilets jaunes — quel potere legislativo che la Costituzione attribuisce in via primaria ai rappresentanti del popolo.

Piattaforme incontrollate non sono il popolo. La democrazia rappresentativa ha i suoi difetti, ma è trasparente e controllabile. La democrazia diretta quando esce dalla dimensione locale rischia di cadere preda dell’attivismo di piccoli gruppi e della mancanza di trasparenza e di controllo delle piattaforme attraverso le quali si esprime. La democrazia non è la democrazia digitale. Stefano Passigli, Il Corriere della Sera del 17/01/2019